Hofmann a Genova

Di: Dario Carere
1 Luglio 2010

Per Kandinskij l’arte astratta era la più difficile delle arti, «occorre esser poeti» per farla, diceva. Per apprezzarla -è opportuno aggiungere- occorre qualcosa di più di una buona vista e di un discreto repertorio di immagini colte dalla consuetudine. L’astrattismo è la musica dell’anima, il ritmo dello spirito, il segno dell’immaginazione; è l’espressione dell’ineffabile o, meglio, la presa di coscienza di quest’ultimo. Io avrei piuttosto affermato, con rispetto per il Maestro, che l’arte in assoluto sia qualcosa di nient’affatto semplice, in tutte le epoche, e che le forme dell’arte, come insegna Focillon ma non solo, non fanno che seguire le forme della cultura. Eppure l’afflusso piuttosto modesto di persone che dall’ottobre 2009 al febbraio 2010 hanno visitato Palazzo Ducale in occasione della mostra Otto Hofmann, la poetica del Bauhaus sembra confermare il suo pensiero. L’astrazione è e resta l’arte più ostica al pubblico e al contempo turbe immense si accalcano regolarmente nei pressi dei Correggio e dei Caravaggio. Non sarebbe difficile fare un parallelo con la partecipazione non troppo entusiasta alla mostra su Fontana nel 2008/9, sempre al Ducale. Forse non è l’arte astratta la cosa veramente difficile, ma il conoscere qualcosa di nuovo e autenticamente moderno.

Potrebbe trattarsi di un rigurgito d’amore neoclassicista nel nostro mondo d’immagini ad alta definizione, una smisurata passione per l’armonia rinascimentale e per il “mai troppo”. Eppure Hofmann, il brillante allievo di Klee e Kandinskij, aveva studiato nella celeberrima Bauhaus, dove l’antico non lo disprezzavano affatto. Qualcosa d’indefinibile ci allontana dalle immagini che non assomigliano a oggetti concreti. Saranno stati quei suoi colori contrastanti e violenti, quelle forme geometriche o contorte che fanno evaporare i paesaggi in angolose sperimentazioni, quei tratti di pennello neri e spessi, che ricordano un po’ i pittogrammi orientali a noi così enigmatici. Ma io vi ho scorto lo studio della materia nella sua forma più veritiera, cioè nella sua frammentarietà, aspetto quanto mai vicino al nostro mondo, al nostro essere-nel-mondo. Mentre in Kandinskij domina la casuale armonia del gesto psichico e in Klee il ribollire confuso delle voci interiori, in Hofmann pulsa il vivace ma violento –un po’ ironico a volte– caos di atomi e luce. Il caos del mutare degli oggetti -è chiaro- con le loro geometrie esatte e bizzarre al contempo, ma anche il caos della Seconda Guerra Mondiale, della prigionia, delle distruzioni, che l’artista conobbe, perché l’astrazione, strano a dirsi, nasce anche, e soprattutto, dall’esperienza.

Nella mostra, il viaggio nell’arte di Hofmann era anche, com’è logico, viaggio nella sua biografia. Dalle sperimentazioni giovanili, dove ritroviamo i fondamenti della scuola di Gropius e della sua “democrazia” artistica (ogni parte vive in virtù del tutto e viceversa), dalle ceramiche, dalle porcellane, dai disegni, dalle prime esposizioni si passa alla violenta rottura a opera del nazismo, alla repressione dell’arte “degenerata”, ai paesaggi di devastazione e alla prigionia in Russia. Soprattutto i dipinti di quest’ultimo periodo, densi di una drammaticità a volte tragica ma mai scontata, fondono le tipiche forme hofmanniane (rombi, quadrati, triangoli, linee spezzate e via dicendo, spesso sospese l’una sull’altra, dai colori sgargianti) con i toni malinconici e freddi della neve e della nostalgia, mentre le sagome poco a poco, da massicce e fuse assieme, si fanno eteree, inconsistenti, sconnesse: la materia perde le sue componenti fondamentali, la realtà si sfalda tra le dita.

Rilevante, della mostra, l’attenzione posta su tutte le strategie di comunicazione, anche privata, dell’artista, tra cui la lettera illustrata. Hofmann non mancava mai di riferire ad amici e familiari le impressioni sulla guerra, accompagnando gli scritti, così pieni di espressività, con immagini di ciò che vedeva. E ciò che vedeva era sempre un mucchio di forme geometriche, ma stavolta non erano frammenti d’anima ma di case, di strade, di persone: personale e universale nel medesimo grido di dolore.

L’arte di Hofmann è un volo, non un cammino; è sospensione del giudizio, assorto ripiegarsi in se stessi e, sì, visionaria spiritualità. Ma non quella di Mondrian, quello scorcio d’assoluto dipinto sulla trama geometrica della realtà, fatta di proporzioni, equilibri, scambi, è piuttosto la spiritualità dell’immaginazione. Hofmann non parte dalla realtà fenomenica spogliandola per giungere al sentimento dell’assoluto ma viceversa: attraverso quel sentimento popola il mondo delle forme dello spirito, lasciando del fenomeno soltanto un accenno. Popola il mondo di forme, non porta il mondo in forme fisse. Forme per spiegare la realtà, a volte forse un po’ troppo sguaiate nelle loro pose accatastate e che tendono a ripetersi, ma è pur sempre la replica della nostra mente rispetto a ogni esperienza ovvero il suo mutarsi rimanendo sempre se stessa.
Viva l’astrazione.

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