Aiace, il più umano degli eroi

Di: Dario Carere
3 Agosto 2010

La tragedia greca è lo specchio della nostra impotenza dinanzi alla realtà, dell’inadeguatezza dei nostri sensi a interpretarla, dell’ineffabile dignità del dolore dell’uomo ribellatosi al vero. Ma è forse da ritenersi anche, soprattutto in Sofocle, espressione radicale della sofferenza, a cui gli uomini dai sensi eccezionali sono per necessità sottoposti, e quindi dell’incomparabile solitudine e dell’inevitabile infermità cui soggiace chi non solo vive la vita ma la pensa.

Pensare di vivere vuol dire sottrarsi alla meccanica basilare per cui ogni essere è risposta bastante a se stesso, mondo chiuso e autosufficiente. Pur ponendo gli dèi a fondamento delle emozioni, i Greci avevano ben chiara l’idea di un uomo composito, fatto cioè di pezzi razionali e non razionali, di correnti discordi che animano i suoi dissidi interiori e le sue tumultuose contraddizioni; proprio per questo raramente è semplice stabilire quanta parte l’azione divina abbia all’interno del conflitto inconciliabile che dilania un protagonista tragico. Gli eroi possiedono una psicologia, anche se celata dietro il fondamentale ethos. Se l’Oreste eschileo può appellarsi ad Atena per far tacere i propri demoni, trovando piena giustificazione all’uccisione della propria madre, Penteo è irritato e al contempo attratto da ciò che lo porterà alla rovina: esiste davvero il libero arbitrio? Non sono piuttosto i nostri pezzi a renderci schiavi? Possiamo davvero in ogni caso attuare il bene oppure -come afferma Fedra- pur conoscendolo non siamo dotati della fermezza necessaria a compierlo?

Quando un uomo rifiuta di adeguarsi a un tiepido equilibrio dell’anima, nel quale le parti sono in virtù del tutto e viceversa, e brama invece una propria unità, nasce un eroe tragico. In Sofocle, il protagonista è isolato per il suo sguardo acuto, per la sua disperata indagine, e il suo dolore è teoretico, per questo così profondo. Conoscere significa soffrire, soffrire significa non vivere; la conoscenza pertanto esclude di fatto la vita, e quando si conosce si desidera la propria unità, la propria assolutezza, si diventa meno dinamici, in un certo senso meno umili. Una persona normale è chi può non pensare a questa nostra frammentarietà, dando per scontata la propria incostanza; l’eroe tragico vede invece troppo lontano per concepire una vita scevra da dubbi e desidera raggiungere un’interezza, un’unità, un completamento. Non c’è via di mezzo tra vivere soffrendo e vivere a metà, e la morte è la sola strada per chi non accetta di vivere di compromessi con la realtà.

L’Aiace di Sofocle è uno splendido esempio dell’assoluta modernità dell’eroe tragico. Poiché le armi del defunto Achille sono state assegnate a Odisseo e non a lui, Aiace ha in odio tutto l’accampamento dei compagni greci che assediano Troia, soprattutto Odisseo e i capi Atridi. Reso folle da Atena, stermina selvaggiamente tutto il bestiame dei greci convinto che si tratti proprio di loro e, riacquistata la lucidità, precipita in una terribile angoscia per il proprio delitto. Dopo le parole piene d’amore della sua serva Tecmessa, l’unica ad assisterlo durante il suo stato di sconvolgimento, sembra per un attimo placare il proprio dolore, senza però dimostrare mai mollezza d’animo o dolcezza verso la donna, e si prepara a obbedire agli Atridi, dichiarando tra l’altro che “si salverà”. Il coro, costituito dai suoi compagni d’armi, esulta, ma Aiace non si trova più; si è allontanato dalla propria tenda e, poco prima di essere ritrovato dal coro e dalla donna, dà l’addio a tutto ciò che conosce e si getta sulla sua spada, che ha piantato nel suolo. Tecmessa piange sul cadavere, che viene presto raggiunto dal fratello di Aiace, Teucro. Questi, addolorato, prende decisamente le difese dell’eroe quando i due Atridi, prima Agamennone e poi Menelao, si presentano disapprovando le azioni di Aiace e denunciandone con arroganza la disobbedienza. Odisseo, invece, il nemico giurato di Aiace, si dimostra commosso dalla sua sventura e dichiara il proprio rispetto per il morto.

Aiace, forse il più tragico tra gli eroi tragici, è insieme uomo che s’interroga e che rinuncia a interrogarsi, figura monolitica e frammentaria al contempo: monolitica nella sua strenua risolutezza a rimanere legata al rigore guerriero, come quando l’eroe, rinsavito, afferma che il figlio, se davvero è suo figlio, non dovrà spaventarsi della vista del padre coperto di sangue (vv. 545-547) o quando bruscamente allontana la devota Tecmessa, l’unica a dimostrarsi vicina a lui mentre è in vita (vv. 586 e ss.); frammentaria nell’andare e venire delle sue riflessioni circa l’inadeguatezza della ragione, le quali, se a metà tragedia individuano nella morte l’unica soluzione al male presente, nella prima parte dell’azione non mostrano allo spettatore la costante, superba scelta di abbandonare la compagnia degli altri uomini, la luce degli affetti. Al contrario, dopo la presa di coscienza del massacro del bestiame a cui lo ha guidato un’Atena impietosa, Aiace lascia intuire la possibilità di salvarsi dal dissidio interiore obbedendo agli Atridi che guidano l’esercito (v. 666). Dunque come interpretare il lungo soliloquio dei vv. 646-692 in cui l’eroe, presa la decisione di seppellire la spada con cui invece si darà la morte, sembra avviarsi ad una via di uscita dal dolore, anche pensando a quello dei pochi che davvero lo amano? Perché Aiace ci mente?

La verità è che Aiace è profondamente umano proprio per via della sua incostanza e della sua amara ironia; mente perché ogni uomo mente a stesso, ogni uomo dice a se stesso di voler vivere quando non sa perché vive. Ma in più, Aiace è un eroe che non sa prendere le distanze dal problema dello stare al mondo, la qual cosa soltanto permette a un uomo di vivere. Parla quasi sempre da solo e benché il suo personaggio non rimanga sempre in scena, alla sua voce sono affidati quasi tutti i versi fondamentali: dopo la sua morte, il lamento del fratello Teucro e di Tecmessa non sono che un accento sulla sua sanguinosa solitudine. Il pensiero di Aiace è slegato da quello del coro, il suo sguardo si svincola dall’agitazione della guerra, la sua mente macchiata dal delitto non può trovare requie se non ripiegandosi in se stessa. Aiace è insomma assolutamente moderno, in quanto assolutamente solo nel suo labirinto psichico, e la realtà in cui è costretto a vagare è tragicamente vera, proprio perché gli è ostile: la hybris del protagonista consiste nel dare un senso all’afflizione attraverso la rabbia, rabbia peraltro del tutto motivata.

La cholos, l’ira, fattore scatenante dell’azione, è propria anche di Achille, pur’egli disperatamente consapevole, nel libro I dell’Iliade, del sopruso dei potenti e infatti Achille è il massimo modello di riferimento per Aiace, che ne brama le armi per potersi trasfondere nella sua gloria. Non solo Aiace è adirato contro tutti gli Argivi, poiché le armi sono state invece assegnate a Odisseo, ma Atena gli ha ottenebrato i sensi lasciando che si vendicasse sul bestiame: il massacro delle bestie, alla luce delle splendide parole di Aiace al figlio (vv. 552 e ss.) non ci mostra forse che, dio o non dio, ciò con cui ci adiriamo non è che un’ombra? Se «il non comprendere è un male che non porta dolore», la ragione non sarà un bene in nessun caso. E ciò che fino a poco fa ci sembrava la vera e propria origine del nostro dolore, adesso invece ci è caro. Non esiste speranza di avere più profondo discernimento e nemmeno l’amicizia è un porto sicuro (vv. 677-683). Del resto l’uomo nobile non può coltivare delle speranze: egli deve vivere bene o morire bene (vv. 477-480), ma la prima possibilità non è una contraddizione in termini? In poche parole, il combattente Aiace non sa letteralmente contro cosa combattere.

Nel prologo, che ha un colore, direi così, amaramente metateatrale -Atena e Odisseo osservano incuriositi la tenda di Aiace, quasi che il misero costituisca uno spettacolo- la dea addirittura sembra vantarsi del proprio operato, descrive compiaciuta la truculenta follia dell’eroe, desidera interrogarlo nonostante le suppliche del suo protetto, affermando persino che la cosa più dolce è ridere dei nemici (v. 79); quindi ribadirà che gli dèi amano i saggi e odiano i malvagi. Ma Aiace è forse malvagio? Perché persino il coro non comprende il suo sconvolgimento? Sembra più che altro preoccupato della furia dei capi greci (vv. 251 e ss.) e non si rende conto del male che Aiace si porta dentro (vv. 263 e ss.).

È bene pensare che, soprattutto in Sofocle, l’eroe tragico sia non soltanto un individuo, ma un individuo con una più alta percezione delle cose. È un’eccezione. La solitudine e il dolore sono proporzionali all’altezza dei sensi. La sofferenza è, sì, propria di tutti gli uomini, ma i protagonisti delle tragedie sono prismi dentro cui ha luogo la rifrazione delle domande ancestrali della civiltà: sono più uomini degli uomini. Aiace, eroe del dubbio, è anche eroe dell’introspezione; è sconvolto per la strage ma continua a invocare vendetta sino alla fine, il suo odio non si è placato. E la realtà non si mostra forse più ostile a chi non può accettarla sino in fondo? Benché un Odisseo atterrito veda in lui il destino di tutti noi che non siamo più che ombre vane (vv. 125-126), forse, oggi, atrofizzati i nostri pensieri in questo limbo di immediate emozioni artificiali che ci insegnano che il dolore non esiste, diventa quanto mai arduo incontrare degli Aiace tra i mortali.

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