La gioventù della vecchiaia

Di: Paola Filadelli
3 Agosto 2010

La nostra epoca è implacabile con gli anziani. L’aggettivo “vecchio”, in tutte le sue accezioni, aggiunge una connotazione negativa al sostantivo cui si accompagna. Potremmo provare a riflettere su questa nostra distorsione cognitiva e a ribaltare valori e significati.
Pensiamo al tema dell’identità: io cambio continuamente, le vicende della mia vita, le ferite, le gioie, i traumi fisici ed emotivi mi cambiano, ma io rimango sempre io, sono diversa e identica. Le nostre cellule subiscono cambiamenti, ricambi, tuttavia anche se la materia del nostro corpo cambia, il nostro carattere, ciò che ci contraddistingue, che si avvicina all’idea di forma immutabile, rimane e persiste.

La nostra vita è un mantello pieno di rattoppi che ci avvolge. Epperò noi, sotto il mantello, conserviamo il fanciullo, con il suo carattere in nuce, ma già così evidente, che fatica a esprimersi per la sua dipendenza, per la debolezza fisica e sociale che lo impedisce.

Il vecchio attualizza il fanciullo, col suo carattere, immutato e indomito ne condensa la storia e, a un tempo, conoscendone lo snodarsi, fa dei rattoppi un puzzle variopinto.
Il fanciullo non ha rattoppi, è nuovo; il vecchio, circondato dal suo mantello, porta con sé il vecchio e il nuovo, quel nuovo e vecchio fanciullo che non muore mai.
Il vecchio è stato giovane, dunque sa della giovinezza; il giovane non è ancora vecchio, dunque non sa della vecchiaia.

L’invecchiamento rivela la saggezza del corpo, dice James Hillman.
Il corpo conosce se stesso attraverso il tempo ciclico delle stagioni, il susseguirsi di caldo e di freddo, di luce e di oscurità; la vecchiaia scopre il valore del tempo ciclico, il suo prevalere sul tempo lineare, perché a ogni inverno il vecchio sa bene che seguirà un’altra primavera, a rinnovare la sua fanciullezza mai dimenticata.

Il vecchio non cresce, si è liberato di questa illusione, sa che possiamo solo essere noi stessi, e diventarlo sempre più, esprimendo e confermando quel carattere bambino che, forma immutabile, rimanda all’anima e alle sue i-stanze, stanze, luoghi, spazi, mentali ed emotivi, di cui -forse solo nella vecchiaia libera da doveri sociali, da pregiudizi, da timori- l’anima si appropria, come in un ri-congiungimento, un ri-torno.

Si dice comunemente, infatti, che il vecchio torni bambino, questa affermazione porta con sé molta verità, va oltre la semplice constatazione di un ritorno alla dipendenza fisica, alla debolezza delle membra, alla semplicità di pensiero.

Il vecchio ri-torna bambino perché recupera la circolarità che in altre età si smarrisce.
Il senso del tempo, per colui/colei che ha vissuto molte stagioni, non può più avere una forma lineare, in fondo statica nella sua rigidità, ma acquista quell’elasticità che viene meno alle articolazioni, in una sorta di compensazione, di equilibrio.

Il carattere, quale forma immutabile, è l’espressione visibile dell’anima, ne agisce le qualità, più o meno buone e virtuose, quali che siano.

Se col passare degli anni il carattere si rinforza e si consolida, così anche l’anima trova maggiore spazio espressivo, dilaga e si raccoglie in se stessa alternando azione e riflessione così come il tempo ciclico consente e impone.

Il vecchio non ha fretta, sa che il tempo ha le sue regole, il Kairòs fanciullo passerà al tempo giusto, perché guardando indietro, tra i ricordi-conoscenza, scorgerà il senso degli accadimenti, saprà che ogni tassello, anche il più piccolo, aveva una sua collocazione, un suo senso, proprio nel tempo che ha costruito la sua storia.

La storia intesa come vissuto su una strada, un percorso, viene letta nel doppio senso lineare e circolare, gli anni della scuola sono lontani: prima, seconda, terza e così via. L’idea di crescita lineare che in quell’età era dominante, ora è accantonata, come scolorita. Date, ricorrenze, ripetizioni e ritorni, hanno segnato le rughe sul corpo del vecchio. Le opere e i giorni di Esiodo rendono bene il senso di un vissuto che accetta il lavoro come necessità, come osservanza delle leggi cicliche delle stagioni, come obbedienza agli dèi.

Un vissuto-narrazione che non si smarrisce mai, ma resta come mantello variopinto, come tessitura di fili multicolori, geografia in carne e ossa, composizione di suoni, armonie che assorbono anche i disaccordi, trovandone un senso.

Il vecchio può attraverso la narrazione della sua storia -peripezie odisseiane di partenze e ritorni- tracciare e rin-tracciare percorsi di senso e sensi nei percorsi avventurosi di ricerca, negli errori dell’errare che riconducono all’unica finalità di trovare e realizzare se stessi: quel demone-carattere che lo ha guidato, si è fatto strada, sgomitando, soffrendo, andando e ritornando sempre.

«Il carattere dell’uomo è il suo demone», dice Eraclito (DK, B 119 [121]).

Il demone del vecchio si realizza, esce allo scoperto, non più imbrigliato, trova il coraggio e, per dirla con Hillman, la forza di dire e agire ciò che pensa, non avendo nulla da perdere, non avendo timore di essere giudicato, di essere in minoranza, di perdere la “faccia”, non obbedirà più a pregiudizi sociali, a convenzioni e regole che non condivide, obbedirà solo alle istanze dell’anima.

L’anima desidera bellezza, lealtà, rispetto delle persone e dei valori storico-culturali, l’anima così darà forma al vecchio, lo renderà in forma, oltre gli allenamenti in palestra, oltre una sana alimentazione e le cure mediche.

La Faccia del vecchio, se non si sottopone a chirurgie estetiche mortificanti,
si impone con autorevolezza, il suo solo esistere sarà garanzia di riconoscimento, di legittimazione, di identità realizzata.

È in costruzione una faccia, spesso contro la nostra volontà, a testimoniare il nostro carattere. È work in progress, costruzione dell’immagine, preparazione di una faccia che ha poco da spartire con le facce da incontrare. Il vecchio deve usare la sua faccia, abbiamo troppo poche immagini dell’irresistibile intensità dell’anima1.

L’intensità si esprime originariamente come pregnanza di costellazioni e immagini significanti l’esistente, e anche come pesi e misure di conoscenze, sentimenti, stati emozionali.

Tutto quello che nella vecchiaia odiamo anche la gioventù conosce: anche i giovani soffrono la solitudine, l’abbandono, il rifiuto, l’invisibilità, l’impotenza, il parlare senza essere compresi.

La differenza sta nella misura.

Il vecchio si trova di fronte alla sofferenza con drammatica necessità sia per l’indebolimento del suo corpo sia per le difficoltà di ordine sociale, sempre più spesso prova quei sentimenti che per tutta la vita lo hanno accompagnato, ma poteva eluderli, compensarli, misconoscerli con l’autoinganno.

La vecchiaia dunque è il disvelamento della tragicità della vita, l’incalzare del tall dark stranger, il senex solo e saggio che può, in quanto deve, guardare con più lucidità il mondo e il riflesso di se stesso nel mondo.

La tragicità della vita viene, da giovani, rifiutata, ricacciata nella dimensione spazio-temporale del ci penserò domani, in un rimando di tempo e di luogo che rinuncia al coraggio della consapevolezza, si ferma al “si invecchia”, “si muore”, che non riguarda me o almeno non ora.

Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo. Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo2.

Penso che il tragico, quando è riconosciuto nella consapevolezza, accettato e accolto qui e ora, scivoli, senza forzatura, verso il comico che conduce al sorriso, all’innocenza del fanciullo, dimori nella ciclicità che non rimanda ad altro tempo, ad altro luogo ma a un’ulteriorità presente e trascendente insieme che ci fa dire: io invecchio, io muoio.

Note

1 J. Hillman, La forza del carattere, Adelphi, Milano 2000, p. 210.

2 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 200829, pp. 24-25.

Bibliografia

J. Hillman, La forza del carattere

Esiodo, Le opere e i giorni

Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male – Così parlò Zarathustra

Eraclito, Frammenti

Cornelio Nepote, De viris illustribus

Woody Allen, You’ll meet a tall dark stranger

Tags: , , ,

Categoria: Temi | RSS 2.0 Commenti e pingback sono attualmente chiusi.

Nessun commento

I commenti sono chiusi.

Accedi | Gestione | Alberto G. Biuso e Giusy Randazzo © 2010-2023 - Periodico - Reg. Trib. Milano n. 378 del 23/06/2010 - ISSN 2038-4386 -

Free hit counters