Spiritualità ne La Sirenetta

Di: Dario Carere
1 Settembre 2010

Sebbene la magia di una favola non sia obbligata a risiedere nel suo (se presente) intrinseco messaggio morale, è facile pensare a degli splendidi racconti in cui i bambini di tutti i tempi riescono a leggere o ad ascoltare un insegnamento che serberanno per sempre. Chi non ha imparato qualcosa da Il Brutto anatroccolo? L’importanza di rispettare la diversità, così come quella di non giudicarsi troppo in fretta, ha colpito tutti noi attraverso il dramma del piccolo protagonista emarginato. E questo vale anche per inimitabili cartoni animati ormai celebri, come Dumbo, per non parlare di Bambi, forse il più efficace affresco infantile della vita e della morte, e così via.

Ma quando certe storie cominciano a essere un po’ datate, divenendo così diverse dalle narrazioni incalzanti e rumorose a cui ci siamo a poco a poco abituati, uQpossono davvero dirsi ancora favole per bimbi? Le storie di Hans C. Andersen o quelle di Oscar Wilde, entrambe scritte per l’infanzia, oggi potrebbero semmai essere lette, ancora meglio se illustrate, a certi bambini stupendoli attraverso le espressioni e i gesti. È difficile, però, che un bimbo d’oggi riesca a star dietro a trame così lente, così ricche di dettagli. Soprattutto perché in esse possono risiedere sfumature poetiche molto più adulte di quanto non sembri; sta a noi adulti il piacere di coglierle. Queste storie d’infanzia, insomma, non sono più realmente per l’infanzia, ma piccoli capolavori di stile che richiedono, come tutte le cose d’arte, molto sforzo per assaporarne la bellezza. Un po’ come Il Piccolo Principe insomma, così semplice eppure così difficile.

Oggi di sforzi, è da dirsi, non è che i bambini sappiano più di tanto. Lo sgargiante (e monotono) mondo mediatico li costringe a un oceano di stimoli dove l’immaginazione stessa diventa obsoleta. La straordinaria ricchezza di colori e d’immagini della Sirenetta, la più celebre favola dello scrittore danese, è stata fatta conoscere al giovanissimo pubblico dalla Disney attraverso l’omonimo cartone animato, che certo tutti hanno più o meno presente. La splendida rappresentazione dei fondali marini, le canzoni, il disegno nitido e dettagliato, l’happy end hanno reso la storia un ricordo appassionante e “musicale” che colpisce per la forza dei toni e per la storia d’amore irrealizzabile (ma che alla fine si realizza): è proprio per via dell’amore che la storia è piaciuta soprattutto alle bimbe, tanto che il secondo episodio, uscito diversi anni dopo il primo, ha toni ancora più “femminili”.

Il fatto è che questo indimenticabile cartone animato, dove la sirenetta Ariel riesce a coronare il suo sogno d’amore diventando un essere umano, diverge molto dallo spirito del racconto originale. E certo la Disney ha un po’ il vizio di stravolgere i libri da cui attinge. Altro esempio: Il Gobbo di Notre-Dame, dove di Notre-Dame de Paris resta ben poco (in Hugo i protagonisti rimangono tutt’altro che felici e contenti, capretta gitana compresa!). È sacrosanta la libertà interpretativa, ma la bellezza di certi racconti rischia di passare inosservata.

Dato che qui si fa filosofia, e che il fine della filosofia non è certo quello di risolvere problemi ma di aprirne di nuovi, vale la pena chiedersi se sia giusto che ai rifacimenti cinematografici, certo più agibili e divertenti per i bambini, sia concesso lo scempio di altri autori, illustri per di più.

Ma si torni, sine ira et studio, alla sirenetta. Questo personaggio così ricco di colori tenui, di sfumature delicate che avvincono il lettore attraverso il suo viaggio nel mondo di superficie è -io credo- un’autentica eroina romantica, non meno dell’inquieta protagonista di Cime tempestose. La profonda spiritualità della sua tormentata vicenda -che comunque non si abbandona mai a patetismi e a lunghe digressioni liriche- volteggia attorno a un fulcro centrale: il silenzio. I segni più drammatici della tensione della protagonista verso l’alto, dall’inizio alla fine, brillano in ciò che non dice. La giovanissima e graziosa principessa del mare parla pochissimo durante il racconto (considerando anche che per più della metà non possiede affatto la voce): si limita a esprimere degli stati d’animo molto forti, ma sempre con la delicatezza che la contraddistingue, oppure canta, cosa che la allontana ulteriormente dagli altri personaggi, la eleva. È la magia dell’arte nell’arte, dell’artista che crea un personaggio creatore. È difficile non vedere nella sua sofferta liberazione canora l’isolamento “abissale” del poeta stesso; così come, pertanto, non è difficile vedere nel mondo sottomarino la pressione a cui i sensi del poeta sono sottoposti per tollerare le apparenze.

La figura della sirenetta profuma dell’ineffabile fascino dell’attesa, dell’ignoto, del silenzio, che la rende non soltanto un personaggio, come si è detto, chiuso in un dramma personalissimo e non condivisibile, una corrente di transazione e sublimazione, ma anche un’immagine profondamente cristiana, oltre che romantica. Andersen inserisce spesso Dio nelle sue storie. Quello della sirenetta è un percorso che attraversa il dolore, la rinuncia, il sacrificio e che la porta soltanto alla fine a scoprire la luce di Dio, morendo e passando a un superiore stato di esistenza: è una martire, che fa del dolore la propria realizzazione. Tanto per cominciare non viene mai fatto il suo nome (non si chiama Ariel) e già questo ci suggerisce la sua rarefazione, il suo senso per le cose che non sono del suo mondo. La sua attesa cocente per poter vedere il mondo di superficie, alimentata dai racconti della nonna e delle sorelle che una alla volta raggiungono l’età giusta per poterlo visitare (è necessario avere quindici anni), ce la mostra come ragazza malinconica e solitaria che canta alla luce lunare filtrata attraverso la superficie e ogni tanto coperta dalla grande sagoma scura di una nave di passaggio. Anche qui si consideri il suo sguardo rivolto verso l’alto e si consideri, poi, la sua indifferenza verso l’esteriorità e le ricchezze del suo mondo. Quando, compiuti quindici anni, per la sua iniziazione viene appesantita dalla nonna con splendidi ornamenti e conchiglie, lei sembra mal sopportare tutto quel peso, che considera inutile. Vorrebbe solo nuotare verso l’alto: ossia disfarsi del peso corporale.

Ma il vero principio del suo percorso spirituale sta nella scoperta della natura esistenziale degli umani: la nonna le rivela che gli uomini sottomarini vivono sino a trecento anni, dopodiché divengono schiuma; occorre dunque vivere godendo finché si può! Invece gli umani hanno una vita molto più breve, ma possiedono un’anima immortale. È proprio questa immortalità a colpire tanto la sirenetta, che ha ormai in mente solo la superficie e in particolare il bellissimo principe che ha salvato da un naufragio, la cui immagine non le lascerà mai il cuore. Il dramma di quest’anima così grande sta proprio nel comprendere che non possiede un’anima e da qui il conflitto tra l’alto e il basso, tra il principe e i familiari, tra il dolore e la spensieratezza: di certo lei non vuole “godere finché si può”, perché è nata per consumarsi sino alla fine. Quando la sirenetta decide di recarsi -niente di meno- all’inorridente castello della Strega del Mare per poter ottenere da lei delle gambe, è ormai afflitta da un amore purissimo e totalizzante, in cui individua non soltanto la conoscenza del tanto sospirato mondo di sopra ma della vera e propria immortalità. Infatti, la Strega le spiega che per diventare a tutti gli effetti umana dovrà essere legata al principe dal matrimonio, invece, se lui sposa un’altra, si trasformerà in schiuma. Inoltre all’eroina viene annunciato che perdere la coda di pesce sarà dolorosissimo, come se una spada la tagliasse in due e che ogni passo fatto sulla terra sarà come se poggiato su dei coltelli: altro segno evidente del calvario. Infine, la sirenetta dovrà rinunciare alla cosa più bella che possiede: la sua voce, che in tutto il mondo sommerso è ineguagliata. Ella accetta tutte queste condizioni, risoluta a soffrire in silenzio per poter conquistare il principe, oggetto del suo frustrato desiderio di cose immortali.

Il mondo di superficie la colpisce allo stesso tempo con gioie e dolori. Ci sono molte cose che eccitano la sua giovane sensibilità e il suo tenero entusiasmo, ma ha al contempo la sinistra sensazione di essere ancora estranea. La martire possiede una missione in cui deve mantenere il silenzio e lo comprende in uno dei momenti più drammatici, cioè quando sente cantare le giovani umane ed è costretta a rendersi conto che lei canterebbe molto meglio di tutte loro, poiché ha una voce da sirena. Non è né di un mondo né dell’altro; martyr vuol dire testimone e lei è testimone muta di un amore che non trova soluzione. Come Madama Butterfly, è pronta a pregare il Dio dell’amato, ad avvicinarsi al culto dell’immortalità, ad abbandonare i suoi familiari e tutto ciò che ha conosciuto, camminando altresì con passi tanto dolorosi che i suoi piedi sanguinano, e anche lei viene scambiata per un’altra donna, solo che qui non c’è mai stato un giuramento che sancisca l’unione e la sirenetta resta un personaggio sospeso, slegato, fluttuante.

La trama è un crescere di angoscia: il principe sposa un’altra donna e la sirenetta assiste, chiusa nel suo silente dolore, ai festeggiamenti, sapendo che il nuovo sole la trasformerà in schiuma. Per tutto il racconto non ha fatto che sospirare, amare, attendere e adesso, di fronte alla morte, sembra quasi aver raggiunto una sorta di rassegnazione. Prima di gettarsi in mare osserva gli sposi addormentati e bacia silenziosamente la ragazza, come a benedirla. Non è un gesto patetico: è amore disinteressato, quindi in un certo senso non di questo mondo.

La conclusione ha luci e ombre, e non c’è dubbio che sia difficile renderlo in una versione cinematografica. La sirenetta si getta in mare dalla nave su cui si è fatta baldoria, ma mentre si trasforma in schiuma si sente sollevare: si tratta delle figlie dell’aria, altri esseri non umani fatti di vento, quindi di una sostanza ancora più leggera dell’acqua. Eleggendola come propria compagna, le spiegano che si può ottenere un’anima immortale attraverso l’amore, ma dato che la sua sventura le ha impedito di realizzare questa speranza, le sarà possibile passare trecento anni in forma di vento per purificarsi guardando alla luce di Dio. Il compito delle figlie dell’aria è tutelare le famiglie, facendo in modo che i genitori siano contenti dei loro bambini: può essere aggiunto o scalato del tempo ai trecento anni di attesa, a seconda che un bambino rattristi o renda orgogliosi i propri genitori. Insomma sembrano una specie di beati danteschi; la sirenetta è passata a un superiore stato di esistenza, si è sublimata.

Alla fine Dio viene nominato, e l’amore terreno si muta, migliorandosi, in quello celeste. Ma questa morale per far stare bravi i bambini stona decisamente con il resto della storia. Poiché la mia interpretazione di questa favola è quella di un viaggio spirituale, in cui dall’amore e dal dolore si coglie il frutto del sacrificio, penso che la conclusione serva in qualche modo a rendere più dolce ai bambini l’amarezza della morte della sirenetta, dal momento che nella vita reale nessuno può ricompensarci delle nostre rinunce. È anche vero però che offrire al bambino un così felice dipinto di un’aspirazione, di una tensione, di una rarefazione -attraverso un racconto dove certo non mancano descrizioni di grande impatto coloristico e accenni sentimentali certo pieni di buon senso- può donargli la visione di un martirio idealizzante né tragico né dolce, né scontato né sgargiante, né piacevole né doloroso, insomma di un viaggio dove si riassumono lo sforzo dell’anima e l’eloquente silenzio di chi ha tanto da dare e proprio per questo sente spesso di non essere di questo mondo. Vivere è bello? Probabilmente no, è bene che una favola lo dica; ma non è nemmeno brutto. Ecco perché nominare Dio proprio alla fine può essere fuorviante: la sirenetta/Cristo non ha mai saputo perché, per chi doveva morire, ma sapeva solo che doveva amare, proprio come ognuno di noi. Sarebbe stato diverso, se avesse conosciuto Dio fin dall’inizio.

Ma quello che conta è forse il viaggio, non la meta.

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