Calderara e l’astrattismo

Di: Adriana Bolfo
2 Ottobre 2010

Molto più noto in Olanda e in Germania, Antonio Calderara (1903-1978), nato ad Abbiategrasso -come amava dire, “in Europa”, vissuto a Vacciago di Ameno (Novara) sul lago d’Orta- spinge alla riflessione sulla continuità della ricerca pur distinta in due periodi, il figurativo e l’astratto, da una cesura di ben dieci anni. Nel 1959 abbandona la maniera figurativa iniziata col precocissimo La chiesa di Vacciago, lui appena dodicenne.

Poco, di tale periodo figurativo, risulta documentato nella casa-museo di Vacciago, aperta e preziosa per gli estimatori dell’astrattismo, segnatamente quello razionalista, del peculiare razionalismo di Calderara e di correnti degli anni Cinquanta-Settanta. Nell’allestimento curato dallo stesso Calderara sono per lo più artisti a lui congeniali e cronologicamente vicini, oltre a esponenti di vere e proprie avanguardie storiche (Friedrich Vonderberg Gildewart, caro al critico Gillo Dorfles, riporta il pensiero a Mondrian, a cui molto si deve nell’ambito razionalista; Sonia Delaunay Terk è presente con colori di forte presa) e di ripercussioni locali (Bice Lazzari e Mario Radice, l’astrattismo geometrico tra Milano e Como). Altri sono presenti invece come non trascurabili voci, per esempio, Fontana e Manzoni: la materialità cui approda il gesto dell’uno e l’intenzione dissacratoria dell’altro è, a Calderara, opposta ed estranea.

Il ‘poco’ suo figurativo guida a comprendere il delicato e sottile razionalismo successivo, quello dei vari Spazio Luce. Sì, perché le figure degli affetti e dei luoghi (La famiglia dopo il temporale, 1934; Pella, l’sola di San Giulio, 1934) sono date per cromìe alte e luminose e forme sempre più strutturate e semplificate (La finestra e il libro, 1935); il soggetto pur sempre riconoscibile diventa volume e poi superficie e linea (Case, 1958) fino alla contiguità anche cromatico-luministica di figura e sfondo. Calderara costruisce un figurativo non naturalistico, o antinaturalistico, mediante una luce tersa e uniforme che non si diletta né di tonalismi né di passaggi chiaroscurali (in tal senso, già nel 1928, Milano, il naviglio) e procede, dunque, ‘naturalmente’ e consequenzialmente, all’astrattismo, che risponde a un desiderio di smaterializzazione dell’oggetto per una concentrazione più profonda.

L’astrattismo delle avanguardie storiche ha eliminato l’oggetto per un rapporto senza mediazioni tra autore e spettatore; l’astrattismo geometrico (razionalismo) ha visto nel quadrato la forma del pensiero e la forma dello spazio, fuori dal quadro e dentro il quadro. Il concretismo e, anche, le esperienze sulla visione-percezione -dall’optical a quelle più tradizionali e pittoriche- sono comunque un derivato razionalista.

Il peculiare astrattismo di Calderara è un razionalismo permeato e ingentilito da colori innalzati a luce bianca, un insieme di indubbia attrazione, per il mondo europeo settentrionale segnato dalla geometria del pur lontano cronologicamente ma sempre presente iniziatore Mondrian –attrazione, comunque, non solo per somiglianza. A dialogare con Calderara, che con alcuni autori contemporanei al suo astrattismo ebbe anche rapporti di calda amicizia, sono, fino agli anni Settanta, quadrati bianchi e neri ( nel silente ricordo di molti, opera, oltre Mondrian, Malevič) a superfici lisce o compartite a moduli -questa la spia di una contemporaneità più recente- di produzione olandese e tedesca: il monocromo costruisce lo spazio ed è proiezione di spazio. Invece i colori in quadrato di Max Bill e di Albers ripropongono una delle scelte comuni ai vari astrattismi storici, il colore timbrico, quello già del Calderara figurativo. Il Calderara astratto razionalista ha movimentato e alleggerito la staticità dei suoi quadrati col ricorso ai colori pastello (azzurri chiari, grigi perla, moderati rosa, tenui gialli) poco in uso nel razionalismo, sottili, oltre che nell’acquerello, anche nella stesura a olio; piccoli inserti cromatici un poco più carichi del colore del campo (Costellazione, 1969-70) conferiscono variazione -che è già moto- al campo stesso e obbligano l’osservatore a una concentrazione diversa dello sguardo e dell’attenzione, cioè a un moto imprevisto, specialmente nelle figure, quasi tutti quadrati, talvolta in serie. Il tono su tono accentua l’effetto luce, anche nelle poche opere di colore acceso o scuro. Spazio Luce, titolo di molti lavori dal 1959 -tanto da far pensare a una ripetuta dichiarazione di intenti, e titolo ‘ben’ astratto, non solo perché, come ovvio nell’astrattismo, Calderara azzera l’oggetto, ma proprio, col tendere a quegli infiniti, lo trascende- può essere chiave di lettura di tutta la produzione, non solo di quella astratta. Reso peculiare da luce-colore-ritmo, il quadrato-quadro (s)qualifica come dejà vu artisti diversi anche recentissimi, assai ripetitivi, specialmente statunitensi, presenti in altre collezioni.

Nel suo (ricreato) razionalismo ben nutrito di fondamenti storici, Calderara, si direbbe, ha sfiorate varie modalità derivanti dal razionalismo -e non solo quelle specificamente pittoriche- senza bisogno né di mediarle né di imitarle, come fossero forma naturale del suo essere. Ciò si vede quando invita l’osservatore a impegnare occhio e corpo in una composizione seriale -dittico o trittico; quando sollecita e inganna a ‘completare’, con l’automatismo del cervello, una figura della sua convinta e colorata geometria. E quando, tra le numerosissime opere altrui in esposizione, offre al riposo dell’occhio la lievissima sfumatura grigia ripetuta su bianco di un artista che si sente a lui legato tanto da formulare un titolo-dedica, il tedesco Raimund Girke (In Benennung der Sensibilität, a Calderara, 1968). E quando non permette di evitare, perché occupano grande parte di una parete, le costruzioni fragili e millimetriche di Jesus Rafael Soto, che esistono, pure esili, nello spazio-volume, protese all’osservatore. E anche Soto dedica: Al mio carissimo Antonio Calderara, 1969.

E, per tornare al vero soggetto, un uomo in incessante pensiero: neanche la scrittura rimase estranea ai quadrati di Calderara, gli ultimi, ma sublimata e allusa, perché di pochi segni ripetuti -nulle parole- come emersi dopo un accurato lavoro di ‘risparmio’: il trittico Lettera di un convalescente, 1976, esperimento-esperienza nella e della malattia. Il pastello, alta luminosità. Il bianco, colore smaterializzato.

A fronte della latente spiritualità di Calderara e, a questa opposto, del concretismo aproblematico di molti –mentre l’op art e il cinetico greve presenti nella collezione si nominano solo per completezza- si avverte e si comprende l’assenza di Bruno Munari, razionalista ludens.

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