Quel potere abnorme fondato sui “lacchè”

Di: Luigi Capitano
3 Gennaio 2011

Nel suo lucido quanto impietoso saggio La libertà dei servi Maurizio Viroli sostiene la tesi che quello creato da Silvio Berlusconi (d’ora in poi, B.) nell’ultimo quindicennio sarebbe un «potere enorme» che invade ormai ogni sfera della nostra vita civile e politica. Per illustrare la situazione attuale l’autore parte da lontano: dalla nostra «debolezza morale» (strascico di una secolare esperienza di dominazioni straniere e di servitù), e soprattutto dal «sistema della «corte» così come è stato a suo tempo descritto dai vari Baldassar Castiglione, Machiavelli, La Boétie. Quest’ultimo – contemporaneo e amico di Montaigne – nel suo Discorso sulla servitù volontaria, scriveva: «È sempre stato così: cinque o sei hanno ottenuto di venire ascoltati dal tiranno e gli si sono avvicinati spontaneamente, oppure sono stati chiamati da questi per diventare complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i lenoni della sua lussuria, i beneficiari delle sue rapine». Questi sei, a loro volta, hanno «sotto di sé» seicento e seimila e poi milioni, sicché alla fine «si arriva a un punto ove quelli che traggono vantaggio dalla tirannide sono quasi numerosi come quelli che aspirano alla libertà» (cit. in La libertà dei servi, p. 25). Ci troviamo di fronte a una genealogia di «massa e potere» che nella storia si ripete spesso e, con tutte le differenze del caso, anche oggi. Sennonché Viroli tiene a distinguere il «potere enorme» di B. da ogni altra forma simile di potere che potrebbe venire in mente: autoritario, illegale, dispotico, ecc.: «un potere enorme è un potere molto superiore a quello degli altri cittadini, tanto forte da potere evitare le sanzioni delle leggi o farne a suo piacere» (p. 8). E allora viene subito da chiedersi dove finisca un simile «potere enorme» e dove cominci quello «abnorme», nel caso di un capo di governo tornato ancora una volta al potere nel 2008 dopo aver funestato la vita politica dell’ultimo quindicennio. B. vede, infatti, la nostra Costituzione come fumo negli occhi, come una carta antiquata, addirittura «filosovietica»; vede il potere giudiziario come un persecutore e una minaccia per la sua agognata impunità; e vede infine il Parlamento come un impaccio all’«azione di governo». Ma la stessa compagine del governo non è per lui altro che una docile «corte» (una «squadra») prona ai voleri del «capo». Non per nulla oggi quasi tutto si decide nel suo fantomatico «ufficio di presidenza», quasi fosse un nuovo Gran Consiglio del Fascismo. Anzi, lo si evoca perfino –lo si è notato?– come un’entità astratta da cui emana magicamente il potere. Ma questo mi pare sfuggire a Viroli, che a proposito di B. non vuole parlare nemmeno di autoritarismo come invece non aveva esitato a fare Norberto Bobbio, che peraltro aveva coniato per primo l’espressione «potere enorme» proprio a proposito del «berlusconismo».

A quanto pare, tutto il tempo che non dedica ai suoi «vizi privati» e alle «cortigiane» il nostro premier lo consacra alle sue «pubbliche virtù», consistenti nel dirigere l’orchestra della sua «corte» e l’intero stuolo dei suoi «servi», oltre che nel dirigere, com’è nel suo diritto ­–visto che nessuna legge sul conflitto d’interesse glielo impedisce– le sue aziende e perfino l’«azienda» Italia. B. ha sempre il bisogno di immaginare (e di far credere) che la maggioranza parlamentare (peraltro sempre più traballante) sia legittimata a governare dalla (ormai solo presunta) maggioranza degli elettori, quasi che la democrazia non abbia altro fondamento che il consenso degli elettori, quando invece esistono ben altri limiti e garanti della sovranità popolare quali i principi stessi della Costituzione, nonché il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale (Viroli ce lo ricorda con Luigi Einaudi). Guarda caso, B. aspirerebbe a diventare il presidente di una repubblica presidenziale senza veri contrappesi e in cui la giustizia venga tenuta a bada dal potere politico, e con un «quarto potere» il più possibile al suo servizio.

L’ennesima «discesa in campo» nel 2008 (dopo le elezioni politiche del 1994 e quelle del 2001) dello straricco e spregiudicato imprenditore, non certo per caso pluriindagato e inseguito dalla giustizia, si rivela così un’autentica «invasione di campo»: non solo un «potere enorme», immenso, per dimensioni e portata, ma anche un potere abnorme, in quanto capace di corrompere lo spirito della nostra democrazia e di intaccare i principi stessi su cui si fonda la nostra Carta costituzionale. Coloro che parlano di un’«anomalia italiana» se ne sono già accorti da tempo. Bobbio diceva a chiare lettere che il partito di B. non aveva nulla a che spartire con l’autentico spirito del liberalismo. Si trattava piuttosto di «un partito personale di massa», come dire una forma di populismo demagogico falsamente rassicurante ma veramente pericoloso per la democrazia. Più recentemente Gustavo Zagrebelsky ha parlato senza mezzi termini di una «costituzione ad personam e di un governo tenuto insieme da un uomo solo […] che, per ragioni di natura giudiziaria, per non perdere la protezione di cui gode non può permettersi di allontanarsene nemmeno per un po’, facendosi da parte quando le condizioni politiche generali lo richiederebbero» («La Repubblica», 16 novembre 2010). Nello stesso articolo il costituzionalista puntualizzava giustamente che quella che si è venuta a creare in Italia è una situazione «abnorme»: «Gran parte delle perturbazioni istituzionali di questi tempi dipende da questa semplice, abnorme e disonorevole per tutti, condizione in cui viviamo».

Con l’avvento del «berlusconismo», ossia del carattere e dei metodi di B. assurti a sistema di governo, la moralità pubblica, la cultura, il pensiero critico sembrano essere diventati un intralcio alla libera sfera degli affari e degli interessi privati, la quale riesce ad andare di pari passo solo con l’incremento della subcultura dell’illegalità, del crimine, delle mafie, dell’immoralità diffusa ed esibita, in primis dallo stesso B., con invereconda «ironia». Emblematicamente osceno, nel suo modo di voler apparire scherzoso, resta il gesto che lo vide mimare il mitra, accanto a un Putin divertito, di fronte alla domanda un po’ indiscreta di una giornalista. Ma la serie di gaffes collezionata da B. anche a livello internazionale, basterebbe da sola a coprire l’intera fenomenologia dell’oscenità del potere.

L’analisi condotta ne La libertà dei servi offre il quadro clinico e il polso della situazione che si è creata nell’Italia di oggi anche in seguito a uno sciagurato arrendismo della sinistra che ha consentito al signor «mi consenta!» di continuare a curare i propri interessi attraverso leggi anticostituzionali e personalistiche, nonché di controllare una larga parte dei media e dell’opinione pubblica. Sintomatico, in questo senso, risulta l’accenno di Viroli a Gaetano Mosca, circa la responsabilità delle minoranze che organizzano il potere a scapito delle maggioranze disorganizzate. Ma occorre sottolineare con vigore ciò che rimane implicito in tale discorso, ossia, appunto, la maggiore responsabilità delle minoranze elitarie al potere, anche se ciò non dovrebbe lasciare adito ad alibi per le maggioranze propense a facili «fughe dalla libertà» né per le (op)posizioni più arrendiste. Di qui la critica di Viroli all’«élite politica» italiana di non essere riuscita a contrastare efficacemente l’avvento del «sistema della corte» instaurato da B. Parafrasando Benda, ma richiamando implicitamente anche un titolo di Christopher Lasch, Viroli parla, a questo proposito, di un «tradimento dell’élite» (p. XIII). Si tratta di un punto alquanto controverso, ma entrambe le cose possono essere vere: le maggioranze hanno in qualche misura il potere che si meritano, ma spesso vengono anche ingannate ad arte da tale potere, come non manca di sottolineare Viroli.

Con il regime berlusconiano ci troviamo di fronte a quella che Stefano Rodotà ha chiamato una «deriva personalistica del sistema istituzionale». In effetti, B. non ha mai mancato un’occasione per porre al centro il ruolo dell’esecutivo a scapito di ogni altro potere istituzionale. Non per caso viene spesso evocato il padre costituente Piero Calamandrei, a proposito di quell’equilibrio dei poteri che, come vediamo oggi, si tenta di stravolgere a tutto vantaggio dell’esecutivo. Viroli nota peraltro il goffo quanto paradossale tentativo di tirare Calamandrei dalla parte di coloro che mettono in guardia contro la «Repubblica dei giudici» (p. 55). Per fortuna la nostra Costituzione, oltre che la pietra d’inciampo del berlusconismo, resta ancora il baluardo etico-politico e l’orizzonte ideale della nostra giovane Repubblica. Oggi più che mai tornano attuali le parole di Calamandrei, che invitava i giovani a mantenere vivo lo spirito di quella Carta che rappresenta la continuazione della Resistenza con altri mezzi. Sulla stessa linea si poneva l’invito a resistere da parte del presidente Pertini e poi del giudice Borrelli. Non è un caso che Viroli dedichi le pagine conclusive del suo saggio proprio al significato della nostra Costituzione, da cui trarre quella «forza morale di resistere» che solo gli uomini liberi mantengono di fronte ai poteri oppressivi (p. 117). Né l’autore dimentica come l’originario «Progetto di Costituzione» contemplasse un comma sul diritto-dovere di resistenza di fronte a ogni potere arbitrario, poi ricondotto al più generico «dovere» di «fedeltà alla Repubblica» (art. 54). Mi pare si tratti di un articolo oggi più che mai tornato di attualità (ma non per questo sempre ricordato) in tempi in cui volano accuse reciproche di «tradimento» del mandato degli elettori.

Ma tornando alla questione, quel «potere enorme» che il nostro autore descrive così rigorosamente non è forse già uno strapotere, un potere che sarebbe meglio chiamare, come già detto, abnorme? Si tratta infatti di un potere che supera ogni limite consentito dalle regole del gioco democratico, di un potere che Viroli stesso associa spesso e volentieri a quello «arbitrario» (p. XI; pp. 8-12; p. 56; p. 64), o anche all’«abuso di potere» (pp. 89-91), anche se tiene peraltro a distinguerlo dal potere appunto «arbitrario», «illegittimo», «dispotico», ecc. (p. 17). Inoltre, la categoria utilizzata da Viroli per descrivere il potere di B. mi pare francamente un po’ troppo blanda per parlare di quella realtà effettuale che egli riesce peraltro a tratteggiare in modo così icastico, e con quella punta di stimolante provocatorietà che vorrebbe rappresentare una scossa benefica per il popolo italiano. Anche a prescindere da ogni «critica della retorica democratica» proveniente da sinistra (Canfora, Salvadori), il «potere enorme» per qualunque regime liberaldemocratico non è già di per sé un potere abnorme che supera inevitabilmente i limiti di un corretto equilibrio fra i poteri, di un normale uso e controllo degli stessi? Le dimensioni del potere accentrato intorno a una sola persona contornata da una «corte» servile o da un entourage acquiescente e compiacente non sconfinano inevitabilmente in quello strapotere che tradisce la più esaltata e narcisistica volontà di potenza? A me pare che ormai il «re» della favola italiana sia proprio «nudo», e anche le recenti indiscrezioni di WikiLeaks lo confermano agli occhi del mondo, seppure ce ne fosse stato bisogno. Il potere demagogico e il «carisma» (nel senso di Weber) di B. è interamente fondato sulla mistificazione orchestrata secondo le tecniche della pubblicità e della propaganda di corte. A mero titolo di esempio, Viroli si limita a fare i nomi di Bondi, Cicchitto, Fede, Feltri, Belpietro, ma l’elenco dei fedeli della «corte» e dei lacchè va certamente ben oltre…Chi concentra su di sé un impero finanziario e mediatico come quello di B. (unico caso al mondo) è certo capace di creare una corte che a Viroli può benissimo ricordare quella signorile dei Medici (che manteneva formalmente in vita la repubblica fiorentina) ma si tratta di una corte che, a mio avviso, ha ben poco ha da invidiare anche a quella di un sovrano assoluto. Il potere abnorme di B., la sua anomalia, consiste pure in quel cesarismo (da una recente inchiesta è emerso che il suo nome in codice sarebbe stato proprio «Cesare») che cresce all’ombra della repubblica, e che la stravolge fino a corromperla del tutto. È lo stesso Viroli a evocare, a proposito del nesso fra corruzione morale e regime della corte Giulio Cesare (p. 63). Con B. si assiste a una degenerazione della democrazia in quella demagogia che nella visione politica di Platone già prelude alla tirannide. Abnorme mi sembra, inoltre, il fatto che non passa giorno che non si parli di «lui», e che la sua immagine non campeggi prepotentemente su tutti i telegiornali nazionali. Dalle tecniche pubblicitarie B. ha appreso l’arte di infondere l’ottimismo negli italiani (e di quanto tale infondata positive aptitude alla Bush possa arrivare a essere pericolosa lo sa Jacques Attali), e quindi l’arte del far sparire sotto il tappeto della menzogna la crisi italiana, i rifiuti di Napoli, la rovina del nostro patrimonio storico-artistico (di cui i recenti crolli di Pompei sono la metafora più eclatante), la delusione dei terremotati dell’Aquila, la disperazione dei disoccupati, le proteste di studenti, ricercatori e docenti di fronte allo sfacelo del diritto allo studio, alla ricerca, all’accesso pubblico a quella cultura che forse «non si mangia», ma senza la quale certo non si sopravvive non solo nel mercato globale, ma nemmeno come specie e tanto meno come civiltà. I dissennati tagli alla cultura, alla scuola e università operati dal governo B. rappresentano il segno tangibile del declino di una civiltà che cede il passo a una visione aziendale e privatistica del sapere.

Negli ultimi anni B. è diventato l’ossessione italiana, ma per liberarsene è necessario accogliere la provocazione di Viroli: laddove non ci sono veri «cittadini» non resta spazio che per i «servi» del potere, o tutt’al più per un concetto fin troppo equivoco di «libertà negativa». Se la «libertà dei servi» è una contraddizione in termini, di tale contraddizione è l’emblema proprio il «popolo della libertà», mentre l’oppressione del «potere enorme» rimane la «condizione» in cui versano tutti gli altri italiani che non si riconoscono in quel «popolo». Dal canto nostro osserviamo come quella forza politica non rappresenti affatto una destra all’altezza del bipolarismo auspicato da Bobbio per uscire dalle secche dell’opposizione fascismo-antifascismo. Lo sblocco del bipolarismo è nato sotto cattive stelle e sotto cattive stelle sembra essersi già esaurito. Se B. è diventato il pericolo e il nemico numero uno della democrazia in Italia è proprio perché, avendo fatto di tutto per demonizzare l’opposizione di sinistra (il fantomatico nemico «comunista»), ha finito col degradare la normale dialettica democratica fra schieramenti avversari in uno scontro fra nemici, riportando così le lancette della storia indietro di almeno mezzo secolo.

Il libro di cui abbiamo discusso, e preso in parte a pretesto per le nostre considerazioni, si intuisce bene, nasce da un amore sincero e profondo del suo autore (che insegna in America) per l’Italia e per i suoi maggiori pensatori politici (da Machiavelli a Bobbio), oltre che dall’amarezza di dover constatare, con l’occhio disincantato dello scienziato della politica, lo stato in cui si sono ridotti i costumi degli italiani, «in sì perversi tempi», per dirla con Leopardi.

Viroli predilige l’immagine di un Machiavelli senza machiavellismi, ma certo è che esiste anche un altro Machiavelli: per esempio, quello che ispira l’Antimachiavelli di Federico II (in realtà Voltaire); o quello di un’operetta incompiuta di Leopardi (Novella Senofonte e Niccolò Machiavello); o ancora quello cui alludono le sconsolate pagine del Ritorno del principe di Lodato e Scarpinato (Chiare Lettere, 2008); per non parlare del Machiavelli recitato con divertita malizia da Dario Fo in una recente trasmissione televisiva condotta da Fazio e Saviano. E non si dimentichi poi che Machiavelli –a torto o a ragione– rimane il pensatore più ammirato da Mussolini, Craxi e perfino da colui che, dividendo i suoi interessi tra politica e affari, ha letteralmente rotto l’anima degli Italiani onesti nell’ultimo quindicennio, suscitando fra loro inevitabili odi e insensati entusiasmi. Stiamo sempre parlando di quello che si è autodefinito «l’uomo del fare», l’uomo che, nel coltivare con arroganza i propri interessi di parte, è riuscito perfino a far godere i suoi «servi», non più sferzati come «cortigiani vil razza dannata», bensì lusingati dal fascino indiscreto del potere o imboniti da quella che Derrida ha definito una «teletecnodemocrazia». Peccato solo che questi «leccafondi» (per riprendere un’espressione leopardiana) non si siano accorti che il loro «sultano» (come l’ha chiamato Sartori) rimane il padrone dei loro stessi pensieri; quel padrone «generoso» e paternalista che però li condanna alla stupidità e all’indegnità di un «fare» privo tanto di libertà quanto di pensiero. Solo un ritrovato amore di se stessi potrebbe portarli su quella via della libertà che consiste per Viroli nel riconquistare il «senso del dovere». Lungi dall’appartenere ad un linguaggio antiquato, resta proprio questa la formula aurea ancora in grado di animare il più sano «sdegno» civile, oltre che l’«amore del vivere libero».

Maurizio Viroli
La libertà dei servi
Laterza
Roma-Bari 2010
Pagine XIV-144

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