Argonauti del Pacifico occidentale

Di: Giulia Bendinelli
9 Aprile 2011

«Per giudicare qualcosa, bisogna essere sul posto»: questa era una delle tesi principali che Malinowski cercò di esprimere con l’opera probabilmente più grande e importante della sua vita. La ricerca sul campo che Malinowski proponeva non aveva assolutamente l’intenzione di seguire le orme di quelle precedenti, anzi il suo metodo, del tutto innovativo per il tempo, prevedeva, per la prima volta, una commistione tra lo studioso e l’oggetto di studio invece che la solita analisi distaccata ed estranea, tipica dell’antropologia precedente. Così, mentre in Europa imperversava la seconda guerra mondiale, l’antropologo abbandonava la realtà delle bombe e dei cingolati per spostarsi dall’altra parte del mondo e mischiarsi tra gli abitanti dei villaggi incontaminati delle sperdute isole Trobriand a largo del continente australiano. Tuttavia, sicuramente fu un’esperienza tanto rivoluzionaria quanto difficile…

Argonauti del pacifico occidentale è senza dubbio il libro che concentra l’essenza dei principi teorici del funzionalismo di Malinowski. Il nocciolo centrale è rappresentato dallo studio di una specifica forma di scambio, chiamato Kula, che vigeva presso alcuni abitanti di gruppi di piccole isolette presso il cosiddetto “distretto dei Massim” a largo del continente australiano. All’interno di questo complesso sistema predominava lo scambio di due tipi di oggetti, che circolavano in direzioni tra loro opposte. La prima serie, collane di conchiglie rosse (Soulava), circolava sempre in senso orario, mentre la seconda serie, composta da braccialetti di conchiglie bianche (Mwali), circolava solamente in senso anti-orario, cosicché lo scambio potesse avvenire soltanto tra oggetti diversi, braccialetti al posto di collane e viceversa. L’importanza che il Kula assumeva per le popolazioni coinvolte, tanto da essere definita da Malinowski come la pratica più importante nella vita dei trobriandesi, dipendeva, a livello sociologico, dal suo essere in grado di mantenere saldi i rapporti tra gruppi diversi e di crearne di nuovi, in un’accezione aggregante e coesiva. Dallo studio del comportamento degli indigeni e di tutte le usanze in questione, vediamo che il Kula è sotto tutti gli aspetti l’obbiettivo principale: in funzione del Kula e non in funzione del commercio vengono fissate le date, compiuti i preliminari, preparata la spedizione, stabilita l’organizzazione sociale. (p. 107). Inoltre, ogni fase della preparazione del Kula, dalla costruzione delle imbarcazioni agli scambi veri e propri, sottintendeva lo svolgersi di una molteplicità di fenomeni sociali e di un elevato numero di pratiche a sfondo magico.

L‘integrazione, così come l’interdipendenza delle varie pratiche sociali connesse al Kula, formavano le basi concettuali per poter pensare alla società come un insieme di elementi interrelati strettamente tra di loro, al fine di permettere il funzionamento stesso del sistema. Lo studio dei rapporti esistenti nello scambio del Kula fece nascere il noto concetto di reciprocità, secondo cui tutte le varie pratiche connesse al Kula erano regolate da un principio universale, finalizzato a garantire la coesione tra i membri. La caratteristica costante della vita di un indigeno veniva, alla luce di questo principio, regolata da una serie di norme e doveri, riguardanti comportamenti di mutua assistenza, di prestazioni e controprestazioni, dall’usanza di offrire doni e riceverne a propria volta, in un continuo flusso di rapporti interpersonali e intertribali. L’agire sociale veniva a configurarsi, per Malinowski, come un insieme di comportamenti finalizzati a garantire ordine e coesione all’interno di un gruppo, oltre che a rappresentare la base del diritto vigente presso le società “primitive”. All’interno della società, la famiglia elementare, ossia il gruppo composto da madre, padre e figli, assumeva un ruolo decisivo per quanto riguardava il funzionamento stesso del gruppo. In essa, infatti, scrive Malinowski, avveniva sia la riproduzione biologica che sociale, intesa come momento di trasmissione della cultura tra generazioni successive, finendo per rappresentare l’istituto culturale fondamentale per la sopravvivenza della società. L’intero campo del sociale diventava una semplice estensione dei rapporti esistenti in famiglia.

Ma torniamo alla radicale novità che il metodo di questo studioso rappresentò per l’indagine antropologica. Il problema di Malinowski era il seguente: come avvicinarsi all’altro quando non è un’entità astratta, ma una persona in carne e ossa, che appartiene a una “razza” diversa, con credenze, valori, cultura e usanze sue e diverse dalle nostre? È necessario premettere che il concetto di altro è quasi sempre definito dal punto di vista del bianco, dell’europeo. All’epoca di Malinowski, e nei secoli precedenti, l’uomo bianco europeo partiva dal suo continente quasi esclusivamente con scopi di conquista: dominare nuovi territori, trovare schiavi, commerciare o convertire. Si trattava per lo più di spedizioni molto violente: la conquista dell’America da parte degli uomini di Colombo e poi dei coloni bianchi; la colonizzazione dell’Africa, dell’Asia, dell’Australia. La prima antropologia infatti si consolida proprio sotto l’egida del colonialismo, in cui antropologi affermati diventavano consapevoli “strumenti” dei paesi conquistatori per controllare -con attività sia di monitoraggio che di interazione- i popoli sottomessi. Basti pensare all’esempio dell’Indirect Rule britannico del XIX secolo, una forma di “dispotismo indiretto” perché contraddistinto da un’attività di mediazione culturale tra coloni e colonizzati e dall’istituzione di protettorati indigeni. Malinowski invece partì per le isole del Pacifico con un altro scopo: conoscere l’altro. Conoscere le sue usanze, la sua lingua, il suo modo di vivere. Dopo essere arrivato sul luogo delle sue ricerche, l’autore constatò che i bianchi residenti lì da anni non solo non sapevano niente della popolazione locale e della sua cultura ma ne avevano anche un’idea del tutto falsa, caratterizzata dall’arroganza e dal disprezzo.
Non volendo uniformarsi alle usanze coloniali, Malinowski piantò la tenda in mezzo a un villaggio e si stabilì tra la popolazione locale. Voleva vedere e sperimentare di persona, con i suoi occhi, per poi testimoniare. Nei suoi scritti, infatti, si nota immediatamente quanta attenzione ci metta nel descrivere i particolari, nello spiegare qualsiasi usanza o rituale magico in modo tanto preciso quanto però semplice per facilitarne la piena comprensione. Questo è l’esordio della formula. Viene poi una parte mediana molto lunga, in una forma molto caratteristica della magia trobriandese che rassomiglia ad una litania, in quanto una parola o un’espressione chiave viene ripetuta molte volte insieme ad una serie di parole ed espressioni complementari. Quindi la prima parola chiave viene sostituita da un’altra, che a sua volta viene ripetuta insieme alla stessa serie di espressioni: poi viene un’altra parola chiave e così via. (p. 136)
Questo progetto, apparentemente ovvio e innocuo, finì per rivelarsi quasi dissacrante. Svelò infatti la debolezza, più o meno accentuata, presente (o addirittura intrinseca) in ogni cultura: e cioè che una cultura trova difficile comprenderne un’altra e che tale difficoltà riguarda anche chi ne fa parte e la diffonde. Ma dietro un linguaggio estremamente descrittivo e di una poetica quasi “rilassante”, probabilmente per fornirci un’immagine delle cultura indigena più vicina e meno “minacciosa”, si nascondeva una certa inquietudine. Se leggiamo, infatti, i diari di Malinowski, pubblicati postumi, possiamo trovare continui accenni a preoccupazioni, sentimenti negativi, crisi e depressioni. L’abbandono della propria cultura, anche se temporaneo, non è affatto semplice. Per questo è così importante per l’uomo sentire di incarnare un’identità culturale precisa e di avere la certezza della sua forza, del suo valore e della sua maturità.
La cultura è quindi, per riprendere l’antropologia malinowskiana, funzionale al non sentirsi perduti. Tanto più che l’altro diverso da noi è uno specchio nel quale ci riflettiamo e che ci smaschera e ci denuda. Per questo motivo ci fa tanta paura. L’altra idea, quanto mai audace per quei tempi, che Malinowski voleva trasmettere, era che non ci sono culture superiori e inferiori, ma solo culture diverse, che soddisfano in modo diverso i bisogni e le aspettative di chi ne fa parte.

Un libro quindi che, sebbene corposo, non risulta affatto difficile da seguire. Le pagine scorrono veloci e soprattutto si rivelano piuttosto piacevoli nelle descrizioni minuziose e attente del colorato e variegato mondo dei trobiandesi, dove ci si ritrova inevitabilmente immersi.

Bronisław Malinowski
Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva
Bollati Boringhieri
Torino 2004
Pagine CLII – 602

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