Il Mediterraneo a Genova

Di: Dario Carere
9 Aprile 2011

L’impressionismo non è una corrente artistica, almeno non solo. È evidentemente un modo di sentire, un nostro quasi congenito attaccamento alla superficie luminosa delle cose. I pittori impressionisti sono sempre al top delle classifiche degli artisti più visti. Forse non esiste persona, nel lato civilizzato del mondo –e questo è davvero significativo– che non sappia dire che Monet era impressionista e che non sappia riconoscere un quadro impressionista quando lo vede. Certo, il soggetto potrebbe cogliere in fallo: di laghi ce ne sono tanti nella pittura, così come di alberi, di rocce, di feste contadine… Ma quella pennellata di colore puro, quella vibrante luminosità, l’assenza di ombre e quei contorni così precisi benché non si propongano affatto di essere fotografici, sono inconfondibili al senso comune, e la maggior parte delle padrone di casa, dovessero scegliere un bel quadro da appendere nel proprio salotto, farebbe probabilmente cadere la decisione su una ridente marina di Renoir, o su delicate danzatrici di Degas. Senza parlare poi delle infinite, estenuanti riproduzioni di quadri impressionisti –e riguardo a questo, Van Gogh è tenuto alla stessa stregua di un impressionista– che popolano quaderni, tazze, matite, agende, nonché pubblicità televisive e copertine di romanzi.

Nella serie di iniziative dedicate alla cultura mediterranea, il Palazzo Ducale di Genova ha pensato anche a una mostra sulla pittura francese tra XIX e XX secolo, che durerà sino al 1 maggio 2011. Il sottotitolo, Da Courbet a Manet a Matisse, lascia presupporre l’esposizione di ciò che è prima, durante e dopo l’impressionismo. Facendomi qualche domanda sulla fama davvero straordinaria che l’impressionismo ha raggiunto nella nostra epoca, ho cercato risposte in questa bella mostra, che conta circa un’ottantina di quadri. Essa prende le mosse da Vernet, pittore noto niente meno che alla corte di Luigi XV, che gli commissionò una serie di vedute di porti francesi: si propone una visione ancora naturalistica della realtà, dove il pittore settecentesco, dopo i suoi preziosi viaggi in Italia –fu amico di Salvator Rosa–, ha imparato a riprodurre la lontananza di monti e colline tramite la delicatezza dell’azzurro e del rosa (splendido La città e la rada di Tolone, dove spicca tra l’altro la presenza di ricchi signori che fanno vita mondana: ci vuole ancora un bel po’ perché i pittori se ne vadano all’aperto a dipingere secondo i propri interessi). L’abile Vernet è un pittore marino: tra tutti i quadri spicca sicuramente la Tempesta in mare, che certo potrebbe suggerire qualcosa di turneriano, se non altro per la lotta travagliata tra le nubi e i marosi, e la fulva luce solare che si fa strada a fatica nel nembo. E accanto lui c’è Robert, altro esponente della pittura francese paesaggista di questo periodo, che ci regala tra l’altro un sereno scorcio delle chiare, fresche e dolci acque di Valchiusa. L’aria aperta è d’obbligo, e naturalmente il mare, visto il tema centrale.

Ed ecco finalmente Corot, père Corot, il realista per eccellenza, con il suo sole di Provenza, i suoi alberi distinguibili foglia a foglia, le suggestioni in cui non possono non leggersi marezzi romantici; soggiungono alla memoria la scuola di Barbizon, la semplicità di Rousseau e il quasi mistico approccio con la natura en plein aire, la quiete di Daubigny e la poetica dignità contadina di Millet. Ed ecco, si scopre poco a poco che, pur essendo questi i grandi maestri del realismo, per registrare la natura già le foto non ci bastano più. E con Guigou si fa un ulteriore passo avanti: ci si sente già come aggrediti dal colore pastoso e dalla pennellata fiammeggiante de La collina di Allauch. Siamo nel 1862, Van Gogh non ha nemmeno dieci anni, e ne mancano circa altri dieci per la prima mostra che darà vita, per puro caso, al termine “impressionista”.

Poi Courbet, con i suoi colori brillanti, la sensuale materialità; e in particolare, le sue marine, tra cui spicca la bellissima Spiaggia di Palavas del 1868. Le scritte didascaliche che popolano le pareti, stralci dei commenti al catalogo della mostra, dicono che la sua piccola marina, non a caso presente sulla copertina dell’opuscolo di presentazione alla mostra, esplica un nuovo modo di abbracciare il mare: non c’è romanticismo, non c’è niente di Friedrich; queste onde non hanno niente di eroico. È vero, l’artista si abbandona a una contemplazione silenziosa e pacifica, anodina. Ma è anche vero che la figura umana compare ancora, probabilmente è quella dell’artista stesso: è piccola piccola, sulla spiaggia. E certo non sarà come i viandanti di Friedrich, angosciosamente smarriti nell’infinito; ma io comunque non riesco a non pensare a una traccia di sublime “matematico”, cioè al sentimento di sproporzione di fronte alla natura che è ancora tutto ottocentesco, e che queste onde qualcosa di eroico l’abbiano, considerato anche che l’uomo si sta appena affacciando sull’oceano molteplice e imperscrutabile delle sensazioni: niente meglio del mare potrebbe rappresentare il nostro sentire. Courbet pone le basi dello studio scientifico della realtà: la prima impressione potrebbe essere quella che davvero conta.

Anche Loubon cerca la materialità della mimesi, con un colore denso e corposo: la terra riarsa del bellissimo Marsiglia vista da Les Aygalades in un giorno di mercato sembra davvero terra, e vi senti l’odore del bestiame, l’abbaiare dei cani, in questi colori che si addensano con sinuosa energia. In una sala contigua spicca, grande e maestosa, una gigantesca cartolina già degli anni ‘80, un’isola rocciosa dipinta da un certo Olive; non mi è risultato troppo difficile spiegare tutto l’interesse suscitato da essa nei visitatori presenti, data la diffusa passione verso ogni tipo di arte morbosamente “reale”. Fortunatamente, distogliendomi da questo capolavoro fotografico più che artistico (e di quadri fotografici mediterranei ne vedo già abbastanza camminando per Genova), incontro Adolphe Monticelli, pittore nato negli anni ’20, che crea risultati davvero sorprendenti tramite un uso violento e “sofferto” del colore; i confini delle cose si rompono, gli oggetti si mescolano tra loro, la materia pittorica trasborda dal disegno e le pennellate si compenetrano. Van Gogh doveva tener presente l’opera tormentata di questo artista, considerata tutta la pesante concretezza che anche lui conferirà alla mimesi; anzi Monticelli, più vecchio di lui di circa trent’anni, sembra quasi un suo precursore.

Quindi arriva la fase che tutti attendono di più: i più grandi nomi impressionisti compaiono accanto a grandi e piccoli capolavori, Van Gogh, Renoir, Cézanne, e naturalmente Monet. Alberi, marine, montagne (tra cui, bellissima, la celebre Sainte-Victoire di Cézanne). Colpiscono in particolare la Veduta di Bordighera di Monet e uno studiato confronto tra un Cézanne e un Renoir: i due amici, negli anni ’80, dipinsero la stessa parete rocciosa a L’Estaque, l’uno accanto all’altro; da una parte, questo Renoir incredibilmente bello: vediamo lo sfumarsi coloristico nella complessità delle impressioni luminose ondeggiare, vibrare, vivere; il quadro vive, come vivono le macchie di sole del celeberrimo Bal au moulin de la galette. Forse l’impressionismo ha lasciato un segno così profondo perché con esso i quadri hanno cominciato a vivere nel senso dinamico del termine. È il movimento delle cose mute, della materia inerte, che Van Gogh esprimerà come nessun altro pittore abbia mai saputo fare, vivendolo atomo per atomo nelle proprie arterie. Il pennello qui non fa da sé il pensiero, non inventa nulla, ma si limita ad accompagnarlo. Dall’altra parte, Cézanne ci mostra la sua pittura analitica e il suo famoso geometrismo, che racconta la realtà secondo un calibrato utilizzo di “zone” di colore. È bizzarra, una natura fatta di quadrati colorati, ma siamo ben lungi dalle curiose fantasie fauviste: si tratta invece di uno sguardo profondamente (dolorosamente) oggettivo, poiché coglie la relatività dei punti di vista e, in pratica, pone le basi del cubismo: siamo di fronte alla scoperta che l’oggettività non esiste; e questo, in un’epoca dove siamo ancora spaventosamente legati a convinzioni assolute, dovrebbe forse indurci a riflettere anche sulla giusta relatività da attribuire alle cose. Nota: Nietzsche morì nel 1900, proprio al principio del radicarsi di queste idee nell’arte. Lui aveva capito tutto: nella Gaia scienza (af. 374) ad esempio aveva già parlato della possibilità di dare interpretazioni infinite della realtà.

E proprio perché l’oggettività viene a mancare, dopo i rigidi esperimenti scientifici post impressionisti di Signac e altri (particolarmente belli e fantasiosi Van Rijsselberghe e Cross), interessanti più per i presupposti che per i risultati, si arriva ai Fauves, o all’espressionismo, o a come si vuole chiamare l’introduzione dichiarata del nell’espressione della realtà. Vivace ed esplosiva, l’avanguardia del primo ‘900 ci mostra un oceano sgargiante di chiazze colorate, memori del tratto rapido e breve di Monet, ma più larghe e violente, al punto da non disdegnare affatto la presenza di zone bianche tra una macchia e l’altra. La realtà si è sfaldata, l’Io è ovunque ci voltiamo. Con un paio di quadri compare anche un Munch convalescente: si tratta di vedute nizzarde dei primi anni ’90, caotiche ma non ancora disperate. A parte Matisse, Braque, Dufy, Derain e altre magnifiche “belve” variopinte, ci sono due artisti che sopra gli altri sono interessanti per la loro sanguigna volontà di osare: il primo, Friesz, ritrae i paesaggi con una così violenta spontaneità che il suo pennello potrebbe dirsi un’unione di Munch e Matisse; i magnifici blu del mare sembrano quasi far fatica a stare separati dai colori della terra.

Ma è Soutine, russo di nascita e francese per formazione, l’artista che, forse tenendo presente lo stesso Friesz, si allontana nettamente dalle sperimentazioni contemporanee pur assorbendone lo spirito, e ci dona quadri di un ardore tormentoso e travolgente, che tolgono assolutamente alla realtà il privilegio della coerenza. I suoi angosciosi paesaggi (peccato ci sia talmente poco di lui!) distorcono tetti, alberi, strade sino allo spasmo, rasentando la tragicità intimista di Francis Bacon e portando ai minimi termini il viaggio nella realtà naturalista. Questi quadri sono travolti da una tempesta inarrestabile. Sarà stata solo una mia impressione, o ben pochi visitatori prestavano molta attenzione a questo artista? Chissà perché, ma questo non mi sorprenderebbe.

In Francia il Mediterraneo ha dato tutto di sé, e la mostra, dopo alcune raffinate opere di Bonnard, che raccoglie l’eredità impressionista in una pennellata eccentrica e tremante (lo splendido Quaderno nero, del 1918, riduce le figure umane a semplici macchie scure, e si fatica a distinguere la direzione prospettica) si conclude, regalando al visitatore, tra l’altro, una veduta di Antibes di Monet (Mistral). Si tratta, presumibilmente, di un’opera troppo bella per essere commentata.

Dalla natura all’Io, dall’aria aperta di Corot al balcone guardingo di Bonnard. Esco; così torno alla domanda di prima: perché l’impressionismo ha un effetto tanto vigoroso sulle masse? Forse questo effetto non l’ha avuto l’impressionismo, ma il suo strato più superficiale, quello della sua stucchevole luminosità, del fascino da quadretti di genere con cui la moltitudine nutre il proprio spasmodico bisogno di sicurezza, compostezza, soprattutto univocità. E poiché la conclusione deve essere filosofica, pensiamo al fatto che, essendo forse l’ambiguità la maggiore bellezza dell’arte, una società che non sa assumersi la fatica di interpretare o di immaginare è con ogni probabilità una società che non comprende la bellezza. La bellezza è fatica, la realtà è ambiguità, e la grandezza di un artista si misura con la grandezza delle sue contraddizioni e dei suoi problemi. Le meravigliose opere di Van Gogh, Monet, Renoir e Cézanne non sono belle in quanto fiori, marine, signorine e campi di grano: la loro bellezza ci parla attraverso una ricerca tormentosa e metodica, durata una vita intera, e ciò che ci dice, si spera, non varierà al variare dell’arredamento del nostro salotto, ma trascenderà le nostre necessità più superficiali. E apprezzare il Mistral non ci serve proprio a nulla, se non sappiamo instaurare dei legami tra esso e il disperato linguaggio di un Soutine, di un Munch. Ogni passo fatto da uno di loro è un passo che noi ancora non abbiamo compiuto, e mancando di rispetto all’arte in quanto evoluzione di pensieri manchiamo di rispetto alla nostra stessa evoluzione.

Ammesso che gli straordinari frutti del nostro progresso ci concedano ancora il beneficio di uno sforzo.

Mediterraneo

Da Courbet a Monet a Matisse

Genova – Palazzo Ducale
27 novembre 2010 – 1 maggio 2011

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