Il Narciso tecnologico

Di: Giuseppe O. Longo
9 Aprile 2011

Qui narra di come Narcis s’innamorò de l’ombra sua
Narcis fue molto bellissimo. 
Un giorno avenne ch’e’ si riposava sopra una bella fontana. Guardò nell’acqua: vide l’ombra sua ch’iera molto bellissima. Incominciò a riguardarla e rallegrarsi sopra la fonte, e l’ombra sua facea il simigliante; e così credette che quella fosse persona che avesse vita, che istesse nell’acqua, e non si acorgea che fosse l’ombra sua. Cominciò ad amare, e inamoronne sì forte, che la volle pigliare.
E l’acqua si turbò e l’ombra sparìo, ond’elli incominciò a piangere sopra la fonte.
E, l’acqua schiarando, vide l’ombra che piangea in sembiante sì com’egli.
Allora Narcis si lasciò cadere nella fonte, di guisa che vi morìo e annegò.
Il tempo era di primavera.
Donne si veniano a diportare alla fonte; videro il bello Narcis anegato. Con grandissimo pianto lo trassero della fonte, e così ritto l’appoggiaro alle sponde.
Onde dinanzi dallo dio d’Amore andò la novella.
 Onde lo dio d’Amore ne fece un nobilissimo mandorlo, molto verde e molto bene stante: e fue il primaio albero, che prima fa fiorita e rinnovella amore.

Il Novellino

Con entusiasmo e sgomento sentiamo nascere in noi e intorno a noi qualcosa di inaudito: una Creatura Planetaria di cui ogni essere umano, integrato di protesi bioinformatiche sarà una cellula. Questo superorganismo già possiede una ribollente intelligenza collettiva, e distillerà una sua torbida coscienza: chi è, che cosa vuole, quali domande si porrà, quali storie si racconterà questo essere molteplice e proteiforme?

Un giorno nella Creatura si accenderà una scintilla di volizione ed essa salperà verso le Pleiadi: come un’affilata astronave fenderà il cosmo per secoli e secoli di buio siderale. Dentro, ciascuno in un uovo di cristallo molato, uomini e donne dormiranno un sonno profetico, custodendo nel gelido corpo il sangue e lo sperma di una razza futura. Andrà l’astronave verso altri pianeti, più oscuri, dai laghi profondi, abitati da anonime stirpi inspiegate, popolati di azzurre città.

Su quei pianeti lontanissimi le donne non faranno più i figli col corpo, tra spruzzi e bollicine. S’inventerà un sistema più dignitoso ed esatto, in sintonia con la precisione della scienza. Le nostre insistenti preghiere saranno esaudite e ci trasformeremo in macchine: forti, dure, inossidabili. Solo le donne di cera delle specole avranno le cavità gialle e rosse della riproduzione. Gli uteri finiranno nei musei, accanto alle lanterne magiche e ai dinosauri imbalsamati.

Divenuti macchine, saremo immortali. Creeremo un mondo preciso e puntuale, dove regnerà la demenza onnipotente degli automi. Onniscienti e insensati, ci dedicheremo a un’innocua e raffinata imitazione della vita.

Il simbionte – Divagazione sull’uomo-macchina

Un essere umano (più donna che uomo) che porta sulla fronte il simbolo -mi pare, o forse invento- di una piastrina di silicio o la piastrina stessa impiantata:: dunque un simbionte, forse, che con la parte umana, specie con gli occhi (invisibili o meglio inaccessibili) e con l’inclinazione del capo, esprime una grande cieca tristezza, confermata e accentuata dalla lacrima che sgorga e cola lungo la gota, lungo il bellissimo naso greco. Gli (anzi le) manca la bocca e questa sua impossibilità di gridare il proprio dolore me la rende ancora più cara. Sembra guardare in giù, ma gli inaccessibili occhi contemplano due panorami diversi, proibiti agli umani; forse l’occhio destro, chiuso, vede un paesaggio di devastazione interiore, mentre il sinistro, appena abbozzato, contempla un paesaggio esterno di torri e cuspidi smaglianti attraverso il prisma caleidoscopico e multicolore di quella lacrima suprema.

e-mail del 27 dicembre 1998

Il Sé e l’Altro

Nel maggio del 1871, in una lettera indirizzata, secondo due diverse fonti, a Georges Izambard oppure a Paul Demeny (e quest’ambiguità, per me che ignoro tutto dei due destinatari, è futile e deliziosa), Arthur Rimbaud dichiara: Je est un autre. Di tutte le possibili interpretazioni di questo enunciato, mi piace quella per cui l’“io” si costituisce e si sviluppa tramite l’interazione con l’Altro.

Concetto antico, già formulato dagli Stoici, quello della natura sociale della mente umana: e non solo della mente, cioè delle facoltà cognitive, ma anche dell’etica e dell’estetica, dell’esperienza e insomma della vita. È solo tramite la comunicazione, dunque lo scambio vicendevole con l’Altro, che sorge e si sviluppa l’intelligenza e, prim’ancora, il senso del sé.

Per analogia, è solo quando si comincia a praticare una lingua straniera che ci si rende conto della natura di lingua della propria, delle sue caratteristiche e particolarità e del suo genio. Da quando le intelligenze artificiali hanno fatto la loro comparsa nei laboratori dell’informatica abbiamo avuto una più ampia consapevolezza della nostra intelligenza. E gli insegnamenti che sulla natura enigmatica della vita biologica ci sta dando la vita sintetica potrebbero contenere la chiave per sondare e forse penetrare il mistero di cui facciamo parte e di cui via via acquistiamo consapevolezza. Dopo la costruzione delle realtà virtuali il concetto di realtà percepita è stato sottoposto a un’analisi minuziosa, che ne ha rivelato il carattere costruttivo.

La nostra lingua, la nostra intelligenza, la nostra vita e la stessa realtà non sono le uniche possibili: ma è proprio la perdita di questa unicità che ce ne fa apprezzare la ricchezza e i limiti, addirittura ci fa capire la loro natura di lingua, di intelligenza, di vita, di realtà.

A questa fase di riconoscimento, basato sul confronto rivelatore di somiglianze e differenze, di affinità e contrasti, segue la fase dell’ibridazione: la nostra lingua si contamina e si arricchisce, la nostra intelligenza diviene più duttile e potente, la nostra vita si meticcia con tessuti, forme e organi nuovi e inauditi.

E ancora: è solo quando nei laboratori immaginari della fantasia o nelle fucine tenebrose degli alchimisti, poi nelle concretissime botteghe dei costruttori di automi e oggi nelle asettiche officine dove si fabbricano i robot, è solo quando si tenta di dare vita all’uomo artificiale che si dispiegano ai nostri occhi le caratteristiche dell’umano che noi eravamo e non sapevamo di essere. E il Sé si amplifica, risuona con l’Altro e nell’Altro, in uno scambio vicendevole e benefico. È paradossale che del nostro Sé cominciamo ad avere consapevolezza proprio nel momento in cui esso trasmuta, si amplifica e si potenzia mediante la simbiosi con l’Altro: appena lo conosciamo già è diverso.

Il Simbionte

L’Altro, dunque, costituisce lo specchio che ci rimanda la nostra immagine, filtrata, deformata, distorta: ma illuminante e arricchita. Nel passato, credo, l’uomo aveva di sé un’immagine vaga, che preferiva far derivare da un altrove trascendente, su cui era vano o blasfemo interrogarsi troppo a fondo, piuttosto che da un’indagine puntuale sulle realtà di fatto. Col tempo, sotto l’assalto sempre più insistito delle alterità, si è fatta cogente la necessità di precisare questa immagine: quale volto immaginava di avere Narciso prima di specchiarsi nella fonte? Ma dopo il primo sguardo a quel calmo riflesso, gli si aperse il golfo della consapevolezza che si spalancò nell’abisso della disperazione. Il Sé e l’Altro devono restare distinti. Ma non possono restare distinti: anelano a fondersi. Da questa contraddizione irresolubile, che somiglia alle figure bistabili, scaturisce forse la creatività: nell’arte, nella poesia, nella scienza.

L’accresciuta consapevolezza riguarda in primo luogo la presenza dell’Altro intorno a noi e dentro di noi. Ogni essere umano è un simbionte, è il risultato di un meticciamento che ha origini primordiali e la cui estensione e varietà sono venute crescendo nei millenni: virus, batteri, cibi, medicine, animali domestici, droghe, farmaci… Ciascuno di noi è una colonia. Siamo entità plurime nel corpo e, nella psiche, abbiamo scoperto la molteplicità che ci costituisce. Sotto l’illusoria unitarietà significata dal pronome “io” si nasconde una falange di personalità diverse, che lottano tra loro per affacciarsi all’esterno ed esprimersi tramite la parola

Homo Technologicus

Col tempo il meticciamento si è esteso a comprendere anche gli strumenti, i dispositivi e gli apparecchi prodotti dall’infaticabile inventiva della tecnica. Da sempre Homo Sapiens è anche (e forse soprattutto) Homo Technologicus, scopritore e inventore di attrezzi con cui modificare e investigare il mondo. Ma come l’uomo produce la tecnologia, così questa retroagisce sull’uomo, modificandolo. Se in passato questa perpetua trasformazione era lenta e quasi impercettibile, tanto da giustificare in molte filosofie e religioni una concezione fissista dell’essere umano, oggi l’accelerazione progressiva dell’innovazione tecnologica ha reso evidente il carattere dinamico ed evolutivo dell’essere umano.

E si tratta non più, o non solo, dell’evoluzione biologica, tanto studiata e tanto celebrata nell’anno di Darwin, ma di un’evoluzione culturale e in particolare tecnologica, in cui accanto ai meccanismi tradizionali di mutazione e selezione, riveduti e aggiornati, si presentano meccanismi lamarckiani. L’ereditarietà dei caratteri acquisiti, sconfitta nella biologia, si prende una rivincita inaspettata e decisiva: l’imitazione, l’apprendimento e l’insegnamento contribuiscono alla diffusione rapida delle novità culturali: ma proprio per la loro velocissima diffusione, queste novità, al contrario di quelle biologiche, sono anche fragili.

Insomma il meticciamento antico, di tipo biologico, è affiancato da un meticciamento tecnologico: intorno a noi si stende un paesaggio gremito di apparati, congegni, macchinari, dispositivi. E non solo intorno a noi: le interfacce cervello-computer rappresentano l’avanguardia di una vera e propria invasione del corpo da parte della tecnologia. In un futuro ormai a portata di mano sempre più questi dispositivi, magari ridotti a dimensioni nanometriche, si insinueranno in noi, interagendo in modi ancora inesplorati e forse inquietanti con gli organi, con i tessuti, con le molecole del nostro corpo. Scopriamo così che al pari di tanti altri miti di purezza -della razza, della lingua, della scienza- anche il mito della purezza della specie umana è illusorio. È probabile che questa ibridazione profonda abbia conseguenze importanti sulla nostra psiche, sulla nostra (o dovrei dire sulle nostre) personalità, ponendoci formidabili problemi di identità.

Specchiandosi nella fonte, il Narciso che noi siamo non può più innamorarsi di sé, perché l’immagine riflessa è quella di un essere composito, multiforme, proteiforme, poliedrico, ben diverso dall’essere monolitico e immutabile che credeva di essere. Ne deriva che la ricerca della bellezza si può e si deve compiere in ambiti diversi da quelli tradizionali: non più solo “questa bella d’erbe famiglia e d’animali”, non più solo la bellezza del corpo umano in una sua stilizzata e affascinante purezza, ma anche l’irta, problematica e sfaccettata bellezza dell’artificiale, del simbionte, dell’ibrido. E questa bellezza potrebbe abbandonare la persistente imitazione del naturale, che si ravvisa per esempio nei robot antropomorfi, androidi e gineidi, pieni di seduzione ma troppo simili a noi, per esplorare territori nuovi.

La bellezza e il corpo

Ma si tratterebbe di vera bellezza? Poiché la bellezza sta nella relazione tra oggetto e osservatore, il problema ha a che fare con la nostra ancestrale immersione coevolutiva nel mondo della natura, che ha condizionato e continua a condizionare il nostro senso estetico e, in parallelo, la nostra etica. Insomma i tentativi di allargare il discorso estetico si scontrano con la nostra storia evolutiva profonda. Ci piacciono i tramonti, le foreste, gli occhi delle gazzelle, il muso della tigre e le forme dei corpi umani e animali perché li abbiamo ammirati e interiorizzati per milioni di anni attraverso gli occhi dei nostri antenati. Alla bellezza che percepiamo nel mondo “naturale” siamo giunti grazie a un lungo addestramento che l’evoluzione ha compiuto per noi. La bellezza dell’artificiale è meno radicata, tocca strati meno profondi, riecheggia più vicino alla mente che alle profondità del corpo: perché le macchine sono molto molto più recenti degli alberi e delle montagne e della luna.

Le facoltà estetiche, e qui come spesso accade l’etimologia aiuta la comprensione, sono legate ai sensi e al corpo, e il corpo rappresenta il tramite e insieme l’ostacolo nei confronti dell’auspicata estensione dell’estetica all’artificiale. E del corpo non ci si sbarazza facilmente: nonostante i volonterosi tentativi di ridurlo a puro codice, il corpo reclama i suoi diritti, che sono i nostri diritti: il cibo, l’accoppiamento, la preservazione, il benessere. E questa centralità del corpo, che si esprime nel fatto che tutte la fasi salienti della nostra parabola, dalla nascita alla morte, avvengono nel, per e con il corpo, questa centralità non deriva solo dal fatto che esso è l’oggetto biofisico che noi siamo, al di là di ogni anacronistica distinzione cartesiana tra mente e corpo; questa centralità deriva dalla natura semantica ed esperienziale del corpo. Il corpo è la teca delle nostre esperienze, che in esso si inscrivono indelebilmente nel tempo irreversibile della vita: e forse l’irreversibilità del tempo vitale coincida con l’accumulo unidirezionale delle esperienze. Inoltre, il corpo è la teca dei significati che diamo al mondo e alle sue componenti. Ogni evento ha per noi un significato che deriva dalle sue conseguenze sul corpo, sulla sua integrità, sul suo benessere, sulla sua pienezza. Grazie al corpo, siamo macchine semantiche, e la semantica è connessa all’estetica e all’etica.

È vero peraltro che la natura dinamica del corpo, la sua indefinita capacità di meticciarsi con l’Altro, lo rendono aperto a ogni possibilità. Incorporando l’artificiale, divenendo esso stesso ciborganico, il corpo potrebbe acquisire sensibilità nuove, una capacità di esperire nuovi fremiti esistenziali, di praticare nuove dimensioni semantiche, dunque potrebbe conseguire anche nuove sensibilità estetiche di carattere intimo, analoghe a quelle che ci legano alla natura. Naturalmente a questo punto il problema diventa quello del tempo: quanto ci vorrà perché queste nuove sensibilità calino nei nostri ventricoli più profondi? Forse non occorreranno altri milioni di anni, perché oggi tutto accade più in fretta che in passato. Il tempo subisce un’accelerazione continua, che tra l’altro ci provoca un forte senso di ansia. Parte di noi, la parte più sensibile, emotiva, ancestrale, non riesce a star dietro a questi sviluppi sempre più rapidi: l’etica e l’estetica si sfilacciano, e prima che le ferite si cicatrizzino, avviene un’altra lacerazione. Riusciremo a ricomporre lo strappo?

La Creatura Planetaria

Più facile è estendere oltre l’umano le attività di tipo cognitivo: grazie alle “macchine della mente” di cui ormai è affollato il nostro paesaggio, il simbionte cognitivo è creatura familiare, in cui molti si riconoscono e alla quale molti aspirano. Nella storia evolutiva di Homo Technologicus le facoltà mentali, ipotetico-deduttive e razional-computanti sono molto più recenti delle facoltà estetiche: la loro evoluzione così breve non ha consentito loro di annidarsi molto in profondità e su di esse possiamo non solo speculare ma anche agire più facilmente guidati dal finalismo consapevole. Non è un caso che chi si esercita a descrivere gli scenari relativi al post umano consideri quasi solo gli aspetti cognitivi: intelligenza, razionalità, memoria, capacità di elaborazione e così via, spesso trascurando gli aspetti emotivi, etici ed estetici.

Del resto già oggi Internet rappresenta uno stadio evolutivo ulteriore rispetto a Homo Sapiens, o meglio rispetto a Homo Technologicus, ma solo sotto il profilo cognitivo. Se è vero che Internet sa e sa fare (mi si perdoni questa metafora, che peraltro non è certo arrischiata) cose che nessun uomo o gruppo di uomini sa e sa fare, è anche vero che Internet non possiede né sentimenti, né emozioni né una coscienza. Internet preannuncia l’avvento di una Creatura Planetaria, intessuta di uomini e macchine, sede di eventi cognitivi e forse non solo, che manifesterà un’intelligenza connettiva sorretta dai fenomeni della comunicazione. Così come la lingua, fin dalla preistoria, ha contribuito a cementare l’umanità, rendendola per certi versi simile alle colonie di insetti sociali, api e formiche, allo stesso modo la comunicazione mediata dalle tecnologie digitali sta portando a uno sviluppo ulteriore dell’intelligenza collettiva, che potrebbe sostenere una vera e propria mente sociale connettiva, grazie a un evento repentino o catastrofico (nel senso di Thom) che alcuni hanno chiamato singolarità.

Si tratta di uno scenario, certo, e molte sono le perplessità e le obiezioni che esso suscita. Se è vero che sotto il profilo informazionale e comunicativo la specie umana si sta trasformando in un organismo unico, come l’alveare o il formicaio, è anche vero che la Creatura Planetaria presenta una differenza radicale rispetto alle colonie di insetti sociali: mentre questi sono dotati di un’intelligenza individuale infima, gli umani hanno capacità cognitive molto sviluppate, e in più posseggono sentimenti, emozioni e coscienza riflessa. C’è da chiedersi se siano disposti a rinunciare, in tutto o in parte, a questi attributi per sottomettersi alla Creatura Planetaria diventando cellule di questo organismo supersocietario. La delega cognitiva a favore della Creatura Planetaria potrebbe essere ostacolata da molte resistenze e rivendicazioni: gli individui potrebbero manifestare una notevole riluttanza a portare all’ammasso collettivo la loro sensibilità, la loro capacità espressiva, il loro libero arbitrio e la loro esperienza unica e insostituibile.

Inoltre certe caratteristiche ancestrali dell’umanità, come la violenza, lo spirito di competizione e l’aggressività, si opporranno in maniera decisa all’uniformazione del comportamento e del pensiero che sembra necessaria alla costituzione e al rafforzamento della Creatura Planetaria. Non si può peraltro escludere che lo spiccato individualismo di cui ha dato prova finora il genere umano si attenui in base ai meccanismi evolutivi bioculturali, consentendo uno slittamento verso condotte di tipo collettivo, più altruistiche e meno egoistiche.

Se la Creatura Planetaria si formasse, in questo nuovo stadio d’integrazione uomo-tecnologia l’intelligenza e le competenze avrebbero un carattere ancora più sistemico e distribuito di oggi, gli scambi informazionali mediati dalla tecnologia diventerebbero cospicui, anzi preponderanti, rispetto agli scambi diretti tra le persone. Il sistema integrato avrebbe molte caratteristiche di un vero e proprio organismo e, come tutti gli organismi, tenderebbe fortemente a mantenersi e ad accrescersi a spese di un “altrove” la cui entropia (degrado) non potrebbe che aumentare a dismisura.

L’evoluzione della Creatura Planetaria

C’è tuttavia, sulla strada di questa possibile evoluzione verso la Creatura Planetaria, un elemento di imprevedibilità, che deriva in parte dalla limitatezza di certe risorse (spazio, energia, ma anche qualità dell’aria e dell’acqua) e in parte dalla stessa enorme complessità del cervello umano e delle macchine informatiche. Questa complessità, insieme con la limitatezza delle risorse, introduce un certo grado di instabilità, che potrebbe modificare in maniera anche radicale il quadro che ho tracciato. L’instabilità potrebbe assumere proporzioni planetarie: il residuo di ingovernabilità che hanno quasi tutti i processi con cui abbiamo a che fare (il traffico, l’inquinamento, la criminalità, la droga, la sanità, la distribuzione della ricchezza…) potrebbe dilagare, interferendo con le linee dell’evoluzione e bloccandole.

La nuova creatura sarebbe dunque minacciata, come e più di tutte le altre, per la sua fragilità e per le sue dimensioni, dalla presenza inesorabile dei prodotti del suo metabolismo, dal degrado che essa introdurrebbe nel proprio ambiente concettuale e fisico (perché si tratterebbe di un sistema materiale, oltre che informazionale). Ingombrando sempre più l’altrove, l’indispensabile ricettacolo dei rifiuti, essa s’intossicherebbe di sé stessa, perché il ricettacolo, ampliandosi sempre più, tenderebbe a invadere tutto l’ambiente. Se ci sono limiti allo sviluppo della Creatura Planetaria, essi sono da ricercarsi dunque negli effetti di saturazione e di retroazione.

Ci sarebbero anche limitazioni informazionali: infatti il surriscaldamento informatico, causa ed effetto di una trasparenza comunicativa totale, può portare a una proliferazione di dati capace di paralizzare il sistema per semplice effetto di accumulo o per riverberazioni patogenetiche (si pensi alla moltiplicazione delle epidemie da virus informatici). Può darsi che, paradossalmente, il mondo privo di ombre della comunicazione totale non sia adatto alla comunicazione: non è casuale che la maggior parte dei processi informazionali di una società restino sconosciuti alla maggior parte dei suoi membri o, nel caso di un organismo, restino a livello di inconsapevolezza.

La solitudine narcisistica della Creatura Planetaria

Se, nonostante tutti gli ostacoli, la Creatura Planetaria dovesse formarsi e fagocitare la volontà, la cognizione e le capacità decisionali dei singoli e assorbire non solo le intelligenze individuali, ma anche le intelligenze collettive parziali, si configurerebbe uno stadio evolutivo dell’umanità caratterizzato da una discontinuità forte rispetto al presente: essendo unica, la Creatura Planetaria non avrebbe né compagni né concorrenti con cui dialogare e confrontarsi. Le verrebbe quindi a mancare uno dei motori più potenti del cambiamento e dell’evoluzione. Essa, in linea di principio, potrebbe guidare la propria evoluzione ulteriore in base a criteri razionali ed esercitando un controllo perfetto sul proprio destino. Ma che cosa spingerebbe la Creatura Planetaria a evolversi? Quali sarebbero insomma i suoi bisogni, le sue carenze e le sue nostalgie? Perché dovrebbe modificare il suo stato di beatitudine, dato che nessun concorrente la minaccerebbe, e nessun termine di confronto la porrebbe di fronte ai suoi difetti? C’è da chiedersi insomma se avrebbe senso parlare della Creatura Planetaria come di un ente capace, e desideroso, di progettare il proprio destino o la propria storia: forse essa permarrebbe indefinitamente in uno stato stazionario e imperturbato, molto simile all’estasi di Narciso. I profeti della discontinuità sostengono che l’aspirazione dell’uomo e, dopo di lui, della Creatura Planetaria, è sapere sempre più cose, come se il sapere fosse desiderabile in sé. Non tutti sarebbero d’accordo su questa tesi, anche perché il sapere non intrecciato di elementi etici, emotivi, estetici, solidaristici e così via è arido e infecondo. E poi, raggiunto il punto finale, costituito dal sapere totale, ammesso che esista qualcosa del genere, che cosa farebbe la Creatura? Insomma, prima o poi essa potrebbe giungere a uno stato atarattico, in cui oggetto e soggetto di conoscenza coinciderebbero in una sorta di pan-cognizione. Questo stato non potrebbe che essere un’estasi narcisistica autocontemplativa. La Creatura si specchierebbe in sé in un infinito compiacimento.

Se così fosse, paradossalmente, il declino del narcisismo antropocentrico, per cui gli umani accetterebbero finalmente la presenza dell’Altro e riconoscerebbero la sua importanza nella formazione dell’immagine che hanno di sé stessi; il crepuscolo del mito della purezza e della fissità dell’uomo; il tramonto dell’autoreferenzialità centralistica di Homo Sapiens che si riconoscerebbe finalmente nell’ibrido Homo Technologicus; ebbene questo passaggio epocale potrebbe annunciare l’avvento di un nuovo Narciso. Chiusa nella propria autoreferenzialità contemplativa, priva di ogni alterità esterna con cui comunicare non che meticciarsi, incapace di imboccare un percorso evolutivo qualsiasi, la Creatura Planetaria potrebbe essere condannata a una demente solitudine. Sarebbe incapace di sviluppare emozioni, autocoscienza e livelli superiori di etica ed estetica.

Ma forse questa visione atarattica e paralizzante è illusoria: grazie alle proprie componenti simbiotiche, dotate di coscienza, emozioni e spinta propulsiva, la Creatura Planetaria potrebbe subire, o addirittura progettare, una certa evoluzione, intrecciando una sorta di aurorale finalismo cosciente con le derive della dinamica interna e con i vincoli imposti dalle condizioni esterne. Infatti, a ben vedere, la Creatura Planetaria non vivrebbe nel vuoto o nello spazio della virtualità informazionale. Tramite le sue cellule ciborganiche (i simbionti uomo-macchina), essa pescherebbe nella realtà fisica e ne dipenderebbe per la sua sopravvivenza. Dovrebbe quindi affrontare le derive ambientali, i cambiamenti climatici, la scarsità energetica, il degrado delle apparecchiature, il dinamismo residuo dei suoi componenti (cioè degli esseri umani) e il loro ricambio. Sul versante più astratto, dovrebbe combattere le degenerazioni entropiche del flusso comunicativo interno, i paradossi logici, i virus informatici che si formerebbero spontaneamente o per deliberata volontà di dominio da parte di sottosistemi ribelli. È difficile immaginare una Creatura Planetaria che duri monolitica, indifferenziata e autocompiaciuta per periodi di tempo molto lunghi: la dinamica energetica e informazionale del sistema porterebbe a diversificazioni e a emergenze, a novità perturbative, a cambiamenti di fase e a instabilità innovative.

Il senso e la narrazione

Insomma sarebbero la complessità stessa e l’estensione della Creatura Planetaria a impedirne la stabilità a lungo termine: essa sarebbe sottoposta al giuoco vicendevole della generazione-diffusione. Le novità generate localmente dall’instabilità (per esempio dall’inventiva di singoli o di gruppi) si diffonderebbero per tutto il sistema in competizione con lo stato precedente, perturbandolo. Ma ben presto la novità o si estinguerebbe, e il sistema si riporterebbe nello stato anteriore, oppure si diffonderebbe e sarebbe adottata in tutte le parti del sistema, il quale tenderebbe quindi a rilassarsi in uno stato indifferenziato, benché diverso da prima. Ma altre novità provvederebbero subito a perturbarlo, e così via, in un’alternanza di fluttuazioni tra locale e globale, cioè tra differenza e uniformità. Lo specchio del Narciso planetario sarebbe continuamente intorbidato dalle increspature del caos. E il caos, si sa, è padre dell’ordine e a sua volta l’ordine precipita prima o poi nel caos.

In questo, la Creatura Planetaria non sarebbe molto diversa da qualsiasi altro sistema dinamico. Ho parlato di “aurorale finalismo cosciente”: questa tuttavia è una locuzione molto problematica. Non c’è ragione di credere che le miriadi di coscienze individuali possano o debbano dar luogo a una coscienza collettiva così come le cognizioni individuali dànno luogo a una cognizione collettiva. Possono esistere fenomeni e attività cognitive senza consapevolezza (ce l’ha dimostrato l’intelligenza artificiale), quindi per la Creatura Planetaria non è necessario postulare una coscienza. La sua eventuale formazione porrebbe tuttavia una serie di problemi: quale ne sarebbe la relazione con le coscienze dei singoli? Le sussumerebbe oppure le trascenderebbe o ne sarebbe indipendente? La nostra coscienza individuale ha un’origine evolutiva, per quanto oscura, e presenta di sicuro qualche valore di sopravvivenza, ma per la Creatura Planetaria come starebbero le cose?

Certo sono domande premature, visto che della Creatura Planetaria esiste finora soltanto un primo embrione cognitivo costituito dalla connessione in rete di qualche centinaio di milioni di esemplari di Homo Technologicus. Tuttavia gli effetti di questa connessione sono già visibili: l’intelligenza collettiva dell’umanità, mediata dalla comunicazione linguistica, ha ricevuto un enorme impulso quantitativo e una forte torsione qualitativa dalla tecnologia informazionale, tanto che è più appropriato parlare di intelligenza connettiva. Ma quell’ineffabile colore delle nostre azioni, dei nostri sentimenti, speranze, pene e gioie che si chiama senso risiede ancora dentro ciascuno di noi, anche se con le parole cerchiamo di gettare un ponte verso l’Altro da noi, ponte su cui il nostro senso si vorrebbe incontrare con il senso altrui e stabilire un contatto mediato dalla nostra comune origine e dalle nostre esperienze comuni. Ma con chi condividerebbe il proprio senso la Creatura Planetaria? E, prim’ancora, avrebbe… senso parlare di un senso per questo essere così alieno? Quali storie si racconterebbe per giustificare la propria esistenza e presagire il proprio futuro? I blog, le chat, i forum le reti sociali e via comunicando sono davvero il primo germe di una narrazione nuova o sono soltanto un confuso rumore di fondo? dov’è in tutto ciò la poesia? dov’è lo spazio per la ricerca del senso attraverso la narrazione? o è il lontano brusio di una sapienza ormai del tutto dimenticata? dov’è la creatività che noi umani ci illudiamo di possedere? Forse, per conservare questa caratteristica antica, che noi riteniamo preziosa, sarebbe necessario dotare le macchine di un pizzico di follia: trasgredendo sé stesse, le nostre nuove compagne potrebbero allora partecipare a pieno titolo alla festa delle innovazioni… Ma allora che cosa resterebbe all’uomo di distintivo e peculiare? Come sempre, ci sono più domande che risposte.

Tags: , , , , , , ,

Categoria: Temi | RSS 2.0 Commenti e pingback sono attualmente chiusi.

Nessun commento

I commenti sono chiusi.

Accedi | Gestione | Alberto G. Biuso e Giusy Randazzo © 2010-2023 - Periodico - Reg. Trib. Milano n. 378 del 23/06/2010 - ISSN 2038-4386 -

Free hit counters