Il linguaggio e la mente

Di: Alberto Giovanni Biuso
12 Giugno 2011

 

Il linguaggio non è una facoltà. Il linguaggio è lo stesso umano nella potenza del suo stare al mondo e comprenderlo. Com’è possibile che da organi non molto diversi rispetto a quelli di altri primati, da forme di socializzazione analoghe, nasca la magnificenza delle parole e dei significati? Come è stato possibile «costruire grammatiche generative che “fanno un uso infinito di mezzi finiti” e che esprimono la ‘forma organica’ del linguaggio umano, “questa meravigliosa invenzione -secondo le parole della Grammaire di Port-Royal- di comporre con venticinque o trenta suoni questa infinita varietà di parole, che, pur non avendo in sé stesse niente di simile a ciò che accade nel nostro spirito, tuttavia non mancano di svelarne agli altri ogni segreto e di far capire a quelli che non possono penetrarlo tutto ciò che concepiamo e tutti i diversi moti della nostra anima”» (p. 50)? Il soggetto che ha la padronanza di una lingua, infatti, è capace non soltanto di comprendere ogni nuova combinazione di lettere, sillabe e termini ma anche di generarne a sua volta un numero indefinito. E questo accade nonostante non si dia alcun legame prefissato e rigido tra i suoni delle parole e il loro significato. Parlare è la massima attività creativa della specie umana e di ciascuno dei suoi membri, è un’attività «innovativa, libera dal controllo da parte degli stimoli esterni e appropriata alle situazioni nuove e in continuo cambiamento» (p. 139). Nonostante la povertà degli stimoli esterni, composti da «dati molto esili e di qualità alquanto scadente», gli esseri umani «fanno uso della lingua rappresentata mentalmente in maniera estremamente creativa; sono vincolati dalle sue regole ma liberi di esprimere pensieri nuovi, che sono in relazione all’esperienza passata o alle situazioni presenti soltanto alla lontana e in maniera astratta» (p. 155). Non si tratta infatti semplicemente di associare dei suoni a dei significati, di possedere una corretta competenza sintattico-semantica. L’esecuzione di una lingua nei parlanti comporta la relazione costante con l’intero mondo nel quale colui che parla è immerso (utilizzo qui questi due termini –Competence e Performance– in un senso non del tutto chomskyano). La pragmatica è inseparabile dal linguaggio, dalla sua possibilità di essere generato, compreso, articolato, moltiplicato, diffuso.

Una tale ricchezza non può essere spiegata secondo Chomsky con criteri di stimolo-risposta, con i principi assolutamente poveri del comportamentismo, in qualunque modo esso venga declinato. I comportamentisti hanno ristretto l’ambito delle loro sperimentazioni e poi hanno preteso di universalizzarne i risultati. Ma le caratteristiche più proprie della mente e del linguaggio non potranno mai essere comprese e spiegate con criteri e metodologie che non rimangano all’altezza della complessità che la mente e il linguaggio sono. «In tutti i casi, tranne che in quelli più elementari, ciò che una persona fa dipende in larga misura da ciò che conosce, da ciò che crede e da ciò che si aspetta. Uno studio del comportamento umano che non si basi su una formulazione almeno provvisoria dei pertinenti sistemi conoscitivi e di credenze, è predestinato alla banalità e all’irrilevanza» (p. 13).

Il legame profondo tra il linguaggio e la mente richiede per essere compreso dei parametri ben diversi. Se la mente è probabilmente il processo più complesso che si dia (insieme al tempo, al quale è profondamente legato), il linguaggio rappresenta «una sonda estremamente illuminante con cui esplorare l’organizzazione dei processi mentali» (p. 132). Linguaggio e mente, infatti, respingono ogni forma di riduzionismo e di dualismo, soluzioni opposte ma entrambe semplicistiche, anche perché se «per ciascun enunciato c’è un evento fisico, questo non implica che dobbiamo cercare qualche relazione mitica tra un oggetto interno come la sillaba [ta] e un evento identificabile indipendentemente dalla mente» (pp. 257-258). Alla piena consapevolezza della complessità dei legami tra mente e linguaggio, Chomsky coniuga un’epistemologia critica che non teme di dire -in generale- che «sarebbe completamente irrazionale sostenere che certi fenomeni e certi problemi non esistono semplicemente perché stanno oltre la portata dell’indagine scientifica» (p. 14) e -nello specifico- che «non capiamo e, per quanto ne sappiamo, è possibile che non arriveremo mai a capire che cosa metta in grado un’intelligenza umana normale di usare il linguaggio come uno strumento per la libera espressione del pensiero e del sentimento» (p. 139).

Un punto fermo, che è insieme di partenza e di arrivo, è che il linguaggio consista in una struttura innata. Chomsky ha avuto e ha il merito di sostenere questa tesi contro ogni empirismo, comportamentismo, storicismo. E lo fa smontando uno a uno gli errori, i pregiudizi e a volte la vera e propria ignoranza di chi parla di Locke e di Descartes senza di fatto intendere ciò che empirismo e razionalismo affermano a proposito delle “idee innate”. Già Peirce poneva una domanda molto semplice e diretta: «ma se ritenete che ogni pulcino sia dotato di una tendenza innata verso una verità positiva, perché dovreste pensare che soltanto all’uomo sia negato questo dono?» (cit. a p. 129). Chomsky risponde affermando che è proprio il rispetto dell’evidenza empirica a costringerci a spiegare i fatti con l’ipotesi innatistica. Quali fatti? Questi:

Parlanti differenti della stessa lingua, avendo esperienza e addestramento alquanto differenti, nondimeno acquisiscono grammatiche notevolmente simili, come siamo in grado di determinare dalla facilità con la quale comunicano e dall’accordo reciproco nell’interpretazione di nuove frasi. È immediatamente ovvio che i dati a disposizione del bambino sono abbastanza limitati: il numero di secondi nell’arco della vita intera è insignificante a confronto con il campo di frasi che egli è in grado di capire istantaneamente e di produrre in maniera appropriata. […] Ma se assumiamo inoltre che i bambini non sono geneticamente predisposti a imparare una lingua piuttosto che un’altra, allora le conclusioni alle quali perveniamo circa il dispositivo per l’acquisizione del linguaggio sono conclusioni che riguardano la grammatica universale. (pp. 153-154)

È la realtà di questa Grammatica Universale (GU) a implicare «una struttura innata, sufficientemente ricca da spiegare la disparità tra l’esperienza e la conoscenza, una struttura che possa spiegare la costruzione delle grammatiche generative empiricamente giustificate entro le limitazioni di tempo e di accesso ai dati», è «questa struttura mentale innata che rende possibile l’acquisizione linguistica» (pp. 114-115) da parte di ogni individuo che sa eseguire una grammatica generatrice di un insieme infinito di espressioni linguistiche astratte. La GU studia le condizioni che le grammatiche di tutte le singole lingue devono soddisfare affinché ci siano coloro che parlano, comprendono, creano un linguaggio. I principali risultati di tale studio dicono che il linguaggio è una capacità specie-specifica indipendente dall’intelligenza e dalle singole competenze di coloro che parlano; che i diversi soggetti parlanti la stessa lingua utilizzano strutture assai simili, anche se poi le declinano in forme sintattiche, retoriche e semantiche diverse; che esiste un «cospicuo sistema di principi che non variano nemmeno tra le lingue che, per quanto ne sappiamo, sono completamente irrelate» (p. 114). In sintesi: «la capacità di acquisire e di usare il linguaggio è una capacità umana specie-specifica, che esistono principi molto profondi e limitativi che determinano la natura del linguaggio umano e sono radicati nel carattere specifico della mente umana» (p. 141).

Questo libro documenta il percorso di Chomsky dentro la linguistica e il linguaggio a partire dal 1968 sino al presente. Si può dire che da solo questo studioso è riuscito a porre fine al dominio del comportamentismo1,, a costruire la scienza del linguaggio su basi razionalistiche e nello stesso tempo biologiche, a mostrare l’immensa ricchezza del parlare come un’evidenza persino ovvia se colta attraverso l’intuizione che il parlante attua del proprio stesso parlare. E dunque «i “fatti mentali” più profondi non possono essere “scoperti” dallo psicologo, perché sono oggetto di conoscenza intuitiva e, una volta fatti notare, sono ovvi» (53).

 

Nota

1 Celebre la sua recensione del 1959 a Verbal Behavior di Skinner [http://cogprints.org/1148/1/chomsky.htm], libro il cui punto di vista generale viene senz’altro definito come «largely mythology». Recensione che si conclude con queste chiare e severe (verso il comportamentismo) parole: «It is not easy to accept the view that a child is capable of constructing an extremely complex mechanism for generating a set of sentences, some of which he has heard, or that an adult can instantaneously determine whether (and if so, how) a particular item is generated by this mechanism, which has many of the properties of an abstract deductive theory. […]. The fact that all normal children acquire essentially comparable grammars of great complexity with remarkable rapidity suggests that human beings are somehow specially designed to do this, with data-handling or “hypothesis-formulating” ability of unknown character and complexity. The study of linguistic structure may ultimately lead to some significant insights into this matter. At the moment the question cannot be seriously posed, but in principle it may be possible to study the problem of determining what the built-in structure of an information-processing (hypothesis-forming) system must be to enable it to arrive at the grammar of a language from the available data in the available time. At any rate, just as the attempt to eliminate the contribution of the speaker leads to a “mentalistic” descriptive system that succeeds only in blurring important traditional distinctions, a refusal to study the contribution of the child to language learning permits only a superficial account of language acquisition, with a vast and unanalyzed contribution attributed to a step called generalization which in fact includes just about everything of interest in this process. If the study of language is limited in these ways, it seems inevitable that major aspects of verbal behavior will remain a mystery».

 

Noam Chomsky

Il linguaggio e la mente

(Language and Mind. Third Edition, Cambridge University Press, Cambridge 2006)

Trad. di A. De Palma

Bollati Boringhieri
Torino 2010

Pagine 292


 

 

 

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