Il gioco della narrazione

Di: Gian Mario Anselmi
28 Maggio 2018

La letteratura ha affrontato dalla sua prospettiva molte delle questioni oggi più discusse, anche se purtroppo questa consapevolezza non è diffusa poiché raramente il critico letterario viene ritenuto un interlocutore valido. Il saggio che segue mostra la persistenza della grande letteratura nelle più diverse forme di narrazione del nostro tempo, anche tra le più insospettabili.

La narrazione in generale e la narrativa letteraria in particolare si sono da sempre molto intrecciate con le città e da questo dato occorre partire. La polis è infatti la dimensione dell’urbanitas, della città, nella quale bisogna confrontarsi e nella quale si accampano procedure di conflitto, certo, ma anche di convivenza. Occorre superare le barriere e intrecciare dialoghi. Il sapere letterario connesso ai saperi umanistici si rivela fondamentale per ‘operare’ nelle città, quando sappiamo coglierle come scenario di narrazioni e come luogo di confronto permanente e dialettico[1]. Né è casuale che, mentre la dimensione urbana acquista una centralità così dirompente, quasi in ansioso contrasto, molteplici filoni narrativi e di poesia ambiscano di ritrovare il ‘sogno’ russoviano dell’utopico stato di natura o quello avventuroso dei luoghi estremi o siano attratti dalla nostalgia virgiliana per la purezza originaria e arcadica della campagna o dall’attrazione fatale per le plaghe selvagge (into the wild); quasi in ritrascrizione contemporanea del sublime romantico che attinge radici fin dal Petrarca in fuga verso la solitudine di Valchiusa. Si parla qui di letteratura, ma si potrebbe parlare, in queste direzioni, di teatro, di cinema e di altre forme artistiche (ivi comprese alcune eccellenti serie televisive) che trovano ai nostri giorni, tra polis, ‘natura’ e media, un fertile intreccio (importanti gli approcci metodologici recenti in tal senso di Massimo Fusillo e Fabio Vittorini): mai la ‘narrazione’ infatti è stata così importante forse come oggi (le Medical humanities hanno ad esempio uno statuto fondativo imperniato sul saper ‘narrare la malattia’). Tutto è oggetto di narrazione e tutto si fa storytelling, mai il ‘patto finzionale’ tra autore e pubblico è stato così dirompente: mentre la letteratura come tale sembra accasarsi in territori più marginali sono proprio le nuove frontiere della narrazione che riscoprono la centralità di alti apprendistati letterari (il decisivo tema della ‘ricezione’ dei classici anche laddove a prima vista non ce lo aspetteremmo), antidoto a ogni forma di lacerazione e di odio cui in modo crescente il mondo attuale talora sembra soccombere[2].

A questo punto però è necessaria, prima di proseguire, un’attenta ricognizione di una formula che troppo spesso diamo per scontata e che invece va ben ponderata (e infatti Umberto Eco vi dedicò non poche riflessioni): ovvero il cosiddetto ‘patto finzionale’ che sopra richiamavamo e che attinge le sue prime formulazioni moderne con Coleridge che parlava di ‘sospensione dell’incredulità’, definizione che ancora oggi prevale nel mondo anglosassone e americano. Molto semplicemente: tra autore e pubblico o lettore o spettatore si crea appunto un ‘patto’ di sospensione della realtà e ci si immerge nel mondo creato dall’autore come se fosse vero e ci si identifica nel modo più pieno con quanto viene narrato o rappresentato tanto che la ‘realtà’ dell’opera ha una sostanza che va oltre la sua invenzione per accamparsi in noi come una sorta di ‘realtà’ parallela che ci coabita (come non pensare che Ulisse o Madame Bovary o Anna Karenina o Don Chisciotte per noi, per tutti siano in ultima istanza ‘reali’ oltre ogni barriera spazio-temporale?) […]. È un’esperienza comunissima a tutti e che tutti quotidianamente sperimentano. Pochi però ricordano che questo meccanismo non pertiene affatto in origine al mondo dell’arte e della narrazione letteraria ma al ‘gioco’ e alla nostra infanzia. Il bambino crea continuamente mondi e situazioni fantastiche in cui ad esempio gli animali e gli oggetti parlano […]. Tutto è inventato e come ‘dilatato’ e tutto è preso tremendamente ‘sul serio’ dal bambino in cui il gioco non a caso (com’è ben noto alla psicologia) svolge un ruolo essenziale nella sua crescita e maturazione. [Il bambino per esempio, da un preciso momento in avanti, comincia ad avere la netta consapevolezza che molte cose le sta inventando (Babbo Natale, gli animali che parlano ecc.) ma nel viverle, lui per primo, attua una ben notta sospensione dell’incredulità, introducendo il patto finzionale: «facciamo finta che…»]. È quella natura quasi ‘preculturale’ cui alludeva nel suo capolavoro del 1938, Homo ludens, il grande storico olandese Johan Huizinga, che appunto faceva del gioco un paradigma interpretativo, filosofico e antropologico al tempo stesso, dell’uomo e della sua naturale ansia di libertà.

Un testo decisivo per comprendere in altro modo quanto tento di esprimere è senz’altro il Canto alla durata di Peter Handke (del 1986, edito e tradotto in Italia da Einaudi): in questo straordinario poemetto Handke si e ci mette in ascolto del tempo profondo che ci coabita fatto non di roboanti eventi ma di piccole, talora remote sensazioni, talora ripetizioni di gesti, talora ritorni a luoghi che ci legano a un tempo tutto nostro di cui riannodiamo i fili, fin dall’infanzia in certi casi.

 

Durata si ha quando

in un bambino

che non è più un bambino

– e che forse è già un vecchio –

ritrovo gli occhi del bambino.

Durata non c’è nella pietra immortale,

preistorica,

ma dentro il tempo, nel morbido. [p. 51]

 

Trovare la ‘durata’ in noi vuol dire trovare ciò che ci preme, ciò che ci ‘dà da pensare’, ciò che allevia la dispersività del quotidiano legando gli impercettibili ma saldi indizi che ci attraversano nel tempo interiore e ‘sommerso’[3]. […] Siamo ancora il bambino che vuole ascoltare infinite volte la stessa favola (la fabula degli antichi con la ripetizione senza sosta dei miti, quelli che ha saputo narrare magistralmente il più grande narratore di fabulae di ogni tempo, Ovidio) e in questa ancestrale istanza percepiamo la nostra ‘durata’, il nostro peculiare essere nel mondo, aprendoci ad accogliere, da lettori, l’ ‘autore’ con le sue narrazioni, dentro di noi, entrambi attori del nostro ‘gioco’ (lo ricordava anni fa Luigi Tassoni).

Allora possiamo ben dire che la ‘letteratura’ è in definitiva un ‘gioco’ e che del gioco rispetta le ancestrali e potenti regole e radici che ci sono innate come esseri ‘narranti’ e ‘immaginativi’. Se teniamo conto di questo allora possiamo comprendere la fascinazione irresistibile di ogni narrazione ben fatta (per fare un parallelo con la ‘lettura ben fatta’ cara a Steiner) su di noi adulti da sempre. ‘Stiamo al gioco’ appunto e come per il bambino anche per noi (tutti noi siamo stati bambini…) questo ‘stare al gioco’ è tremendamente serio e decisivo per la nostra esistenza. Siamo disposti ad accettare senza alcuno stupore che ogni finzione narrativa o scenica sia verità vissuta: l’autore addirittura spesso esibisce proprio la sua ‘invenzione’ forzandone la natura di ‘verità’. Si pensi alle opere in cui l’autore dice che sono state scritte derivandole da manoscritti ritrovati e veritieri (da Cervantes a Manzoni…)[4]; ai romanzi epistolari che mimano le forme delle corrispondenze private; alle dichiarazioni che certe vicende messe in commedia o in novelle attingano a fatti o beffe realmente accaduti (frequentissime nelle nostre commedie del Cinquecento dalla Mandragola allaVenexiana e via discorrendo o nelle raccolte novellistiche di Boccaccio e soprattutto di Bandello); al ‘libro nel libro’ ovvero alle affermazioni che quanto il personaggio sta vivendo è altro rispetto ai ‘libri’ e quindi sembra che siamo immersi in una storia vera anziché in un romanzo. […] La narrazione infinita che oggi ci avvolge ha radici nell’homo ludens di cui si diceva, nella nostra natura ‘bambina’ (alla Leopardi o alla Pascoli anche) impastata di reminescenze del ‘gioco’ e perciò di festevolezza narrativa (così gioiosamente eclatante nella lirica greca in Bacchilide rispetto alle architetture audaci e ‘remote’ di Pindaro): più la realtà circostante ci pare inafferrabile e al tempo stesso oppressiva più ci affidiamo al narrare come ‘gioco’ serio in cui sospendiamo le nostre remore di cinici e increduli per frequentare invece i mondi dell’immaginario in un impasto tra ansia di libertà, ragione e fantastico che proprio gli illuministi per primi seppero coniugare in modo straordinario. La narrazione, la letteratura, come il gioco, e come era già chiaro a Huizinga, sono parte di una ricerca ultima di libertà che oggi (in una dimensione globale di omologazione asfissiante) ancor più è manifesta e che carica di responsabilità molto grandi, come ben aveva previsto Pasolini, arte ed autori (mai come ai nostri tempi etica ed estetica debbono convivere in un patto di ‘nuovo umanesimo’)[5].

Tutto ciò è veicolato da qualche anno da un sistema narrativo complesso e multiforme che è in grado proprio per le nuove e sempre più stupefacenti innovazioni informatiche e tecnologiche di ampliare a dismisura il nostro desiderio infantile e adulto al tempo stesso di ‘storie’, in cui il ‘libro’, tradizionalmente inteso, di romanzi o poesie è solo uno dei tanti attori in campo. Il libro, infatti, come ben già mostrò Alessandro Baricco ne I barbari (sulla scia di famose pagine di Umberto Eco), oggi è allogato in una serie concatenata di molteplici linguaggi interconnessi (televisivi, figurativi, mediatici, ecc.) ed è lì che si giocherà la battaglia decisiva del suo futuro. Senza spingerci poi troppo indietro nella storia della televisione e dei suoi serialspiù antichi (e che però non avevano ancora il monopolio narrativo che oggi, grazie ai nuovi media e a internet, fa dilagare le serie TV ovunque), stiamo ad anni più vicini[6]. E un dato ci balza subito all’occhio: se solo si osservano infatti le recenti migliori serie televisive americane (veri capolavori), spesso prodotte dalla HBO, si noterà che la narrativa che le costituisce va scoprendo nuovi territori ma che tali territori riescono ad essere esplorati perché figli della narrativa romanzesca classica per un verso (l’eterno, archetipico Conte di Montecristo…) e per l’altro di una rinata centralità della lingua teatrale e dialogica/filosofica; così da consegnare oggi alla ‘sceneggiatura’ (l’esempio è clamoroso se riferito a Nic Pizzolatto con True detective o a Beau Willimon con House of cards o ai fratelli Coen di Fargoo agli sceneggiatori de Il trono di spade) un ruolo ben più cruciale che nel passato sia filmico che televisivo, un ruolo per altro di matrice tutta ‘letteraria’ spesso perimetrato esplicitamente dall’ordito di grandi classici di riferimento (Dante, Machiavelli, Shakespeare, Nietzsche, Dumas, Tolstoj, Tolkien, Dick…). Siamo, in un certo senso, nell’epoca della ‘narrazione infinita’ (categoria che forse sarebbe ben più efficace dell’ormai consunto ‘postmoderno’) che tutto permea e a tutto si intreccia grazie soprattutto allo sviluppo impressionante dei nuovi media e della Rete e al rimescolamento degli stessi generi nel ‘gioco della letteratura’ e tutto questo in palese contrasto con il dominio nella comunicazione ordinaria e denotativa della brevità e velocità fino al limite della pura enunciazione (whatsapptwitter, ecc.), brevità comunicativa che nulla ha a che spartire con l’eleganza della ‘forma breve’ per eccellenza ovvero l’aforisma (su cui si vedano i tanti studi ed edizioni per cura di Gino Ruozzi). Le lunghe narrazioni è come se sopperissero a questo abisso di banalità abbreviata e compulsiva tipico delle modalità di fruizione di cellulari, tablet, social. Basti del resto pensare a come il ‘noir’ o ‘thriller’ o ‘giallo’ stessi (ovvero l”inchiesta’ che dir si voglia) si articolino in storie ‘lunghe’ e alberghino al centro di vastissimi territori dell’immaginario ovunque nel mondo in misura senza precedenti, quasi a metafora di una confusa e inquieta ricerca di senso in un mondo che ne appare sempre più privo e dove la scoperta del Male inestirpabile (l’ ‘odio’) è sempre più dolente e terribile (un vero antesignano fu Gadda col suo Pasticciaccio…). Non è casuale che alcuni narratori americani dei nostri tempi – da Delillo a Pynchon a Foster Wallace a Franzen all’ultimo Paul Auster, solo a citare i più noti – non possano fare a meno di contaminarsi con narrazioni cinematografiche o televisive (persino sportive!) o con rilevanti filoni figurativi dell’arte americana novecentesca a cominciare da Hopper o da Andy Warhol per pervenire alle forme più metropolitane e radicali di street art (Basquiat, Haring…). Né ancora è casuale che, sempre a partire dagli Stati Uniti, abbia ripreso oggi grande vigore una antica tradizione di narrazione ‘disegnata’, piena di archetipi letterari di ogni epoca, il graphic novel (in Italia a lungo definito ‘fumetto’ e con un implicito ed erroneo giudizio riduttivo, così come era accaduto per i ‘gialli’ o per i romanzi ‘rosa’ o per la cosiddetta ‘letteratura per l’infanzia’, alcuni dei tanti guasti di una spesso vacua e spocchiosa critica letteraria per fortuna ormai tramontata e che non aveva saputo fare proprie neppure le preziose osservazioni di Antonio Gramsci sulla letteratura popolare)[7]. E la stessa immensa galassia dei sempre più sofisticati videogiochi ha anch’essa i suoi eroi/eroine e le sue ‘narrazioni’ (Tomb Raider…) in bilico tra richiami a personaggi e storie delle narrazioni mitologiche classiche e medievali (il ciclo arturiano evergreen…) e loro ritraduzioni in produzioni cinematografiche a effetti speciali di grande successo. L’impatto di tutto ciò è così rilevante che è possibile ormai da tempo riscontrare anche il processo inverso. Ovvero molti romanzi contemporanei popolari paiono influenzati nel loro ritmo narrativo, nella loro struttura portante (dispositio si direbbe in retorica) e nella delineazione di certi loro personaggi dall’immenso e pervasivo mondo dei media in un inedito crogiuolo (vero melting pot narrativo) di linguaggi fra loro in continuo scambio. È in definitiva quanto esibisce esplicitamente e genialmente nei suoi film (o metafilm?) Quentin Tarantino, l’autore postmoderno per eccellenza.

L’arco narrativo che abbiamo delineato è perciò ‘infinito’ e abbraccia tutto l’universo della produzione culturale in senso lato, dal libro alle serie TV ai film ai videogiochi, come si è visto: questa narrazione continua a perpetuare però la dicotomia antica tra novel eromance ovvero tra ‘verosimile’ (potenza inesauribile della geniale categoria aristotelica) e ‘fantastico’, amplificato quest’ultimo dagli effetti speciali delle nuove tecnologie. Tra questi poli estremi si dipana un brulicare di narrazioni a varia matrice che nutrono l’ansiosa ricerca di ‘storie’ da parte di ogni tipo di pubblico, di tutti noi in sostanza in quell’ottica di ‘gioco’ ancestrale di cui prima discorrevamo. La crisi delle ideologie tradizionali, lo scetticismo (peraltro pericoloso) verso l’agire politico e riformatore con inevitabile sfiducia nel futuro e schiacciamento sul presente (in una sorta di rilettura banalizzata del carpe diem oraziano) pesano molto in questo fenomeno, specie nel mondo occidentale. Il più delle volte infatti lo stesso lettore/spettatore è irresistibilmente attratto sia da storie verosimili al limite dell’iperrealismo anche duro (il libro Gomorra di Saviano con la connessa, fortunata serie televisiva) sia da mondi ed eroi avventurosi e fantastici che lo distolgono da una modalità di vita talora ‘insostenibile’ (il tutto è sempre ben rappresentato ancora una volta da una categoria inventata da Aristotele, sempre lui, ovvero la ‘catarsi’). Stiamo attenti a non fare facili confusioni però con vecchie etichette. Non siamo per nulla nel primo caso di fronte a un nuovo ‘neorealismo’ come taluni sostengono (e che comporterebbe una lettura tutta ideologica e politica della realtà) ma, lo ribadisco, a una ansiosa ricerca di ‘verosimile’ (si pensi all’ampia galassia thriller) che poco o nulla c’entra con il neorealismo e le sue poetiche e ancor meno con ideologie forti di riferimento, semmai con istanze etiche in senso ampio. Al lato opposto appunto ci si fa affascinare da Guerre stellari (grande riscrittura in chiave di fantascienza del ciclo arturiano…) non per mera ‘evasione’ (certo anche per quello) ma appunto per eccesso di sofferenza quotidiana, di inconoscibilità e di smarrimento di fronte alla complessità di un reale non più codificabile da categorie note (e infatti abbondano anche gli angoscianti filoni narrativi horroro ‘apocalittici’ a partire da un maestro come Stephen King o dai romanzi e ‘fumetti’ di Dylan Dog del nostro Tiziano Sclavi) e da cui si vorrebbe fuggire verso altri mondi, quelli da sempre cari all’immaginario fantastico ed utopico (la lunga durata ad esempio del genere pastorale e di Arcadia i cui esiti antifrastici ancora troviamo, che so, in Zanzotto col Galateo in bosco o in Philip Roth con Pastorale americana) o verso mondi in cui ancora vi sia spazio per qualcosa davvero di ‘eroico’.

Un discorso a parte, nell’ambito della narrativa fantastica, merita oggi l’ambientazione medievale o medievaleggiante di romanzi, film, serie televisive con un successo crescente e travolgente.Vero è che già molte suggestioni romantiche, il ricco filone inglese del ‘romanzo gotico’, la gran parte dei maggiori melodrammi italiani così come la tradizione favolistica europea avevano colto le possibilità inesauribili fornite a mistero, sentimento e immaginario da una ambientazione genericamente e acronicamente ‘medievale’. Ma ancora aveva campo il primato della ‘veridicità’ di massima pretesa dal genere principe ovvero dal ‘romanzo storico’[8]. A partire dal secondo Novecento e dal Terzo millennio […] il Medioevo si tramuta, per tutte le forme narrative popolari, in un serbatoio mitico cui attingere storie, favole, avventure, una sorta di melting pot di cui non interessa più ciò che veramente vi accadde nella sua storia ma le ‘storie’ che quel mondo aveva partorito, a cominciare dai grandi cicli cavallereschi e in particolare da quello arturiano dei cavalieri della Tavola Rotonda e della ricerca del Sacro Graal. Siamo al trionfo del ‘patto finzionale’, della ‘sospensione dell’incredulità’ di cui si diceva! E in tali procedure si va innestando la ripresa forte di tutta la mitologia celtica e germanica medievale che di fatto era stata resuscitata nell’Ottocento dalle grandi opere di Wagner (il Medioevo è per eccellenza allogato infatti in tutte le narrazioni nei misteriosi e gelidi Regni del Nord con le loro foreste così come ad esempio li fonda sulla scorta di tante suggestioni leggendarie nordiche e germaniche il fortunatissimo ciclo letterario e poi filmico del Signore degli anelli di Tolkien).

Nel 1977 Guerre stellari di Lucas traduce in chiave di fantascienza i protocolli fondamentali del ciclo arturiano e dei suoi eroi mescolandoli a forme del Medioevo giapponese (armature, spade/spade laser, arti marziali, massime zen dei Samurai/Maestri Jedi) in una delle saghe più fortunate dell’età contemporanea. La fantascienza paradossalmente ‘sdogana’ definitivamente il Medioevo in chiave romance come il luogo per eccellenza, fuori del tempo, di ogni possibile immaginario, dell’ ‘altrove’ coessenziale della nostra identità, del nostro ‘fantastico’ fin da bambini (si pensi ai paesi, ai castelli, agli animali e oggetti parlanti e fantastici di molte storie ‘medievali’ disneyane). Nel 1980 Umberto Eco col suo fortunatissimo Il nome della rosa decide di collocarsi sul ‘crinale’ delle due possibili letture del Medioevo giocando, con magistrale abilità di consumato professore esperto di Medioevo e di brillante scrittore attratto da sempre dalle forme molteplici della cultura pop, una chiave audace: da una parte tener conto del favore del pubblico per un Medioevo ‘convenzionale’ di fantasia, avventuroso, misterioso, sanguinario e spirituale al tempo stesso (e vi aggiunge il di più di un plot poliziesco come trama portante del romanzo, ovvero mescola due generi fortunatissimi, il ‘giallo’ e il ‘romanzo storico medievale’). Dall’altra parte egli inserisce nella trama continue digressioni (attraverso i dialoghi dei protagonisti soprattutto) storiche, filosofiche, teologiche assolutamente attendibili e aggiornate agli ultimi studi, mescolando fantastico medievale e verosimile storico. Questa miscela ‘postmoderna’ di voluto bricolage è detonante e godrà di enorme successo (grazie anche alla trasposizione cinematografica) ma non avrà particolare seguito: il miracoloso equilibrio riuscito ad Eco sul crinale di due diversi approcci alla storia medievale non riuscirà più di fatto e prenderanno piede in breve tempo solo il romance, le storie medievali sfacciatamente ‘fantastiche’ e in grado di veicolare definitivamente un Medioevo come metafora di complessità, mistero, sesso, avventura, scontri titanici tra Bene e Male con i rispettivi eroi, confusione di razze e di fedi, draghi, maghi, fate e streghe, nani astuti e potenti, poteri occulti e sovrumane forze (spesso non cristiane ma ispirate vagamente alle credenze celtiche e germaniche), in un certo senso tutto ciò di ‘medievale’ contro cui si erano battuti gli illuministi come Voltaire. Una spiegazione ancora condivisibile di questo fenomeno la diede alcuni anni addietro proprio un grande filologo dei testi medievali, rigoroso esperto di quella cultura, fra i maggiori di sempre, Claudio Leonardi: egli in sostanza affermava che la fortuna contemporanea del Medioevo stava proprio nel suo essere stato un’epoca lunghissima, niente affatto compatta e ricchissima di contraddizioni di ogni genere e di ogni genere di leggende e contaminazioni da cui noi, spaesati in questa nostra epoca confusa e lacerata, visionaria e violenta, curiosa e irrazionale al tempo stesso, siamo irresistibilmente attratti[9]. Come proprio a partire dal 2011 dimostra il successo planetario e senza precedenti (ovvero tutto il mondo è preso da questo nostro europeo Medioevo di fantasia) della serie televisiva più vista di sempre, Il trono di spadeA Game of Thrones, giunto alla sua settima edizione e che non pare conoscere alcuna flessione nel gradimento. Il soggetto è tratto dalla già fortunata serie di romanzi Cronache del ghiaccio e del fuoco di G. R. Martin e la sceneggiatura, accuratissima (come del resto sono accurati regia, attori, recitazione e straordinari effetti speciali), è opera principalmente di fatto di scrittori di razza come D. Benioff e D.B. Weiss, creatori della serie TV. C’è qualcosa di nuovo però in questo ‘Medioevo’ al tempo stesso inglese, americano e globale, immaginario e fantastico, collocato in una temporalità acronica e in una ‘spazialità’ indefinita (nessun riferimento a Romani, Greci, cristiani, musulmani o a civiltà ‘riconoscibili’): innanzitutto la sua ‘geografia’ spazia da Occidente a Oriente, dal Regno del Nord a plaghe del Sud dal sapore mediterraneo fino a regni di popoli nomadi e fieri che richiamano quelli antichi dell’Asia centrale; il tutto però orchestrato in un certo senso come in Boiardo ed Ariosto ovvero nella migliore tradizione epica italiana rinascimentale che per prima aveva introdotto, nella modernità, appunto la ripresa fantastica e immaginifica del Medioevo (in una sua ‘trasposizione’ ispirata, molto alla lontana, dall’epoca carolingia e dai Paladini cristiani e Saraceni) reso volutamente indeterminato e favoloso, insieme vicino e remoto. Ma le suggestioni nate dal tocco ‘leggero’ (ed incurante di ogni verosimiglianza col Medioevo storico) di Boiardo ed Ariosto, pur decisive, si fermano qui: il nucleo narrativo de Il trono di spade è fatto di ben altra e ben più cruda materia. Le lotte per il potere delle famiglie regali in lotta, e le conseguenze che ne subisce il popolo, sono brutali; le violenze sono esibite nella loro efferata e sanguinaria durezza; l’amore è sovente consumazione avida di sesso quasi primitivo; i pochi veri guerrieri leali e coraggiosi soddisfano la desolante assenza di eroico dei nostri tempi ma sono spesso circondati da spietati e cinici traditori. Da un mondo remoto, feroce e misterioso a Nord tra i ghiacci, presidiato in un avamposto sperduto da un manipolo di guerrieri, sembra sempre in procinto di giungere (e infine giunge) insieme al Grande Inverno un terribile pericolo (l’atmosfera di attesa gravida di tensione e senza tempo che già magistralmente aveva creato il nostro Dino Buzzati col suo geniale Deserto dei Tartari) e gli esseri che emergono dal fondo misterioso dei tempi non sono né benevoli né rassicuranti (gli ‘Estranei’) ma feroci e brutali (come gli alieni di tanti film di fantascienza), sono i ‘morti/non morti’ (i morti viventi, i revenant di tanta letteratura e cinematografia). In definitiva rappresentano un fondo oscuro cui attingiamo le nostre misteriose origini come lo sono del resto le creature animali indomabili (meta-lupi, draghi) che solo pochi eroi virtuosi o una Regina, madre di draghi, sanno ammansire e comandare. Il fantastico anche avventuroso non può in altre parole nascondere la violenza delle ‘origini’ e dell’eterna lotta tra la Vita e la Morte (una sorta di ritrascrizione in chiave medievale, feroce e avida del ritratto dell’umanità ‘primitiva’ che nel Settecento aveva delineato il nostro Vico o del biblico Caino che ci coabita da sempre). È evidente, in queste serie a forte impronta americana e anglosassone, che la ‘funzione Shakespeare’ la fa da padrona: è lui il grande modello di queste sceneggiature e dei loro personaggi. Il sangue, il potere, la crudeltà, le avventure, le insane passioni amorose, gli incesti, le gelosie e le invidie, i personaggi tragici che segnano la storia dei Regni inglesi passati come dell’antica Roma o dell’Italia medievale sono il gigantesco apparato che Shakespeare ci ha consegnato con una varietà di linguaggi e stili impressionanti (e fra loro sempre ‘mescolati’ come spesso già era accaduto in Dante, altro essenziale referente culturale per l’odierna produzione di immaginario)[10]e senza del quale non sarebbero mai nate molte delle migliori saghe contemporanee. Le radici umanistiche e letterarie sono quindi dovunque, la storia è inestricabilmente intrecciata con le ‘storie’ di poeti e narratori di ogni epoca.

Viene da chiedersi come mai tanti intrecci tra fonti letterarie anche classiche/umanistiche e narrativa romanzesca popolare, filmica e televisiva conoscano oggi un così eclatante e formidabile sviluppo. In realtà l’inesauribile patrimonio delle letterature e del loro ‘gioco’ ben si presta a un pubblico affamato di ‘storie lunghe’ simile per molti versi ai pubblici dell’Ottocento in ansiosa attesa dei ‘romanzi a puntate’ dei periodici o ‘d’appendice’ che dir si voglia (e come ben si sa vi concorsero una infinità di scrittori anche di alto livello come Balzac, Dumas, Stevenson). La ‘durata breve’ sia al cinema che in Tv è in crisi. Si amano le serie con molte puntate e articolate in sequel prequelche durano anche anni (l’esempio del Trono di spade è solo uno dei tanti che si potrebbe fare). I generi delle ‘lunghe storie’ sono molteplici: la stessa letteratura (e non solo quella popolare) si va adeguando. La narrativa di ‘romanzi lunghi’ è di gran lunga prevalente, quasi in competizione con film e Tv. Si pensi ai romanzi thriller dei grandi scrittori scandinavi (Mankell in testa); si pensi per la narrativa italiana (nel Novecento spesso refrattaria al ‘romanzo lungo’) ai romanzi precorritori (allora attaccati da avanguardie tanto autoreferenziali quanto arroganti, romanzi oggi invece quasi ‘di culto’) di Elsa Morante; oppure si guardi al fortunatissimo ciclo (a livello mondiale) della nostra Elena Ferrante col romanzo in quattro volumi (o quattro romanzi che dir si voglia) L’amica geniale o appunto ai narratori di romanzi storici (Valerio Massimo Manfredi) o alle prove volutamente a maglie ‘ampie’ di Cognetti, Gazzola, al Lucarelli de L’ottava vibrazione e così via. Tutto ruota intorno al fascino indistruttibile del ‘gioco della letteratura’: la radice letteraria/umanistica sa soddisfare l’incredibile aspettativa di storytelling del nostro ansioso presente pronto sempre a sospendere, nel nome delle ‘storie’, la sua incredulità. Ecco perché forse i nostri tempi tormentati dovrebbero essere decifrati attraverso questa loro ricerca quasi ossessiva di ‘narrazione infinita’ cui i romanzi popolari e la narrazione televisiva/cinematografica danno oggi una gamma ampia di risposte ma che ha radici sempre e comunque in una consapevole commistione con i modelli letterari e le tradizioni umanistiche più consolidati. Le tradizioni narrative in primis certo ma anche le stesse voci poetanti, la stessa poesia (si pensi al vastissimo e crescente influsso che la poesia esercita in tutto il mondo sui testi migliori delle canzoni nella complicata galassia dei generi musicali pop, melo, indie, rock, rap, ecc.), ovvero la letteratura tutta, il ‘gioco della letteratura’ trovano una sorta di nuova significazione, di straordinaria rinominazione del loro statuto e del loro senso ultimo. Guardare ai territori di ieri raffrontati all’oggi (la vera lezione di Calvino e Pasolini…) non vuol dire perciò essere nostalgici né profetici. Vuol dire riprendere l’apprendistato di conoscenza del mondo che si radica tra Umanesimo, Illuminismo ed epoca romantica nello straordinario nesso tra ragione e immaginario. Vuol dire riprendere con orgoglio il dovere della ‘critica’, la necessità anzi di riassumersi pienamente il compito di rifondare una critica come ineludibile tassello per stare nel mondo, una critica non fine a se stessa, autoreferenziale e compiaciuta (come purtroppo è stata tanta critica letteraria degli ultimi decenni) ma di nuovo ‘militante’ in forme e curiosità nuove ma sempre attenta a cooperare nel discernimento del mondo: e sarà lì che sapremo incrociare, nella realtà che muta vorticosamente e drammaticamente, con tono nuovo la letteratura con le sue opere.

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Bookshelf

Andreoni, Ama l’italiano

Handke, Il canto alla durata

Huizinga, Homo ludens

Nabokov, Fuoco pallido

 


[1] Cfr. G.M. Anselmi, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, Carocci, Roma 2008; Id., Letteratura e civiltà tra Medioevo e Umanesimo, Carocci, Roma 2011; Id., L’immaginario e la ragione, Carocci, Roma 2017, tutti testi cui rinviamo anche per una bibliografia più articolata.

[2] M. Recalcati, Sull’odio, Bruno Mondadori, Milano 2004.

[3] Tempo che non ha nulla a che vedere con le ‘tracce’ sessuali freudiane dell’infanzia o col discorso/linguaggio che ‘ci parla’ dall’inconscio lacaniano ma che nel durare della nostra natura ‘giocosa’ e affabulante riproduce il senso ultimo del nostro esistere in un coinvolgimento ben più potente e decisivo di ogni possibile psicoanalisi.

[4] M. de Cervantes, Don Chisciotte della mancia, a cura di F. Rico, Bompiani, Milano 2012; L. Tassoni, Il viaggiatore visibile. Come leggere i romanzi, Carocci, Roma 2008.

[5] E. Raimondi, I sentieri del lettore, 3 voll., Il Mulino, Bologna 1994; M. Curcio (a cura di), La fortuna del racconto in Europa, Carocci, Roma 2012.

[6] V. Innocenti e G. Pescatore, Le nuove forme della serialità televisiva. Storia, linguaggio e temi, Archetipolibri, Bologna 2008; G. Manzoli, Cinema e letteratura, Carocci, Roma 2003; M. Fusillo, Passato presente futuro, in F. De Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Carocci, Roma 2014, pp. 13-31; F. Vittorini, La letteratura degli Stati Uniti, in G.M. Anselmi e N. Bonazzi (a cura di), Letterature del mondo oggi, in Griseldaonline, 2014 (http://www.griseldaonline.it/letterature-del-mondo/); L. Tassoni, Il viaggiatore visibile. Come leggere i romanzi, cit.

[7] S. Calabrese e E. Zagaglia, Che cos’è il graphic novel, Carocci, Roma 2017.

[8] Per questo come per altri temi affrontati nel capitolo cfr. F. Moretti (a cura di), Il Romanzo, 5 voll, Einaudi, Torino 2001-2003; F. De Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Carocci, Roma 2014; G.M. Anselmi (a cura di), con Introduzioni di A. Prete, 3 voll., Mappe della letteratura europea e mediterranea, Bruno Mondadori, Milano 2000- 2001; e soprattutto i molteplici saggi e spunti presenti costantemente negli anni nelle varie Sezioni della Rivista online Griseldaonline, fra cui proprio, molto recente, il tema ‘Gioco’.

[9]Ne argomenta nell’opera a più mani Lo spazio letterario del Medioevo. La ricezione, Salerno, Roma 1992. Ma cfr. per un originalissimo approccio metodologico alla storia medievale G.M. Cantarella, Imprevisti e altre catastrofi, Einaudi, Torino 2017.

[10]Molte immagini sono riprese da Dante: si pensi al ghiaccio infernale del Trono di spade.

 

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