Lirica e poesia

Di: Eugenio Mazzarella
28 Maggio 2018

Dopo aver sperimentato le potenzialità di un’osservazione ravvicinata delle scelte di traduzione, assieme a delizie e tormenti di un servizio tanto fondamentale quanto – spesso artatamente – occultato, il filosofo e poeta Mazzarella ci riporta, attraverso Leopardi, all’origine e al punto apicale del dire, alla meraviglia «che la filosofia custodisce come “pensiero”» e la poesia come esperienza, a quella parola (che è lirica) da cui tutto è iniziato.

 

1. La verità dell’essere come verità di parola. La poesia come istituzione linguistica del mondo.

Il farsi mondo del mondo– la “verità dell’essere” nel lessico heideggeriano – è verità di parola. Accade, è evento di parola. Istituzione della “soglia”, il senso, in cui qualcosache si muove della “vita” se la prende o se la trova addosso, fin nelle sue ultime regioni minerali; carne del mondo che si fa parola. Su questa soglia, che è soglia di parola, qualcosa della vita – costretta nel primo timore, o inebriata nella confidenza che scopre con se stessa – dice io, prima che “io” propriamente ci sia; tasta“là”, nel suonodella meraviglia, il mondo “fuori” di sé. “Toccare l’essere” (Aristotele) – iomondo– è unfatto di parola. La prima poiesidel mondo nel linguaggio. Da questa soglia, i poeti prenderanno la cetra, e io chi sono?, i filosofi le loro domande, da dove vengo dove vado?, e l’uomo religioso la sua devozione.

La poesia, di questa istituzione “linguistica” del mondo, è la custodia. Nella sua storia, perché la poesia ha una storia, ne custodirà l’arcaismo, la necessità di stare nel suo principio di parola: l’esattezza in cui ogni volta il mondo si fa mondo e si fa tutto, al singolare plurale – piante, uomini cose – di una percezione. E, nelle sue vestigia, nei modi dell’origine che poi saranno i “generi”, la storia di questo arcaismo, di un’esattezza – di un dettato della parola che apre il mondo – sempre più riflessiva, sempre più lirica. Una sommità scalata dalle radici minerarie del proprio essere, dal varco che si è aperto per salirvi, prima che vi discenda.

La poesia è il mondo come parola, presa di parola, in cui l’io comincia a essere detto e poi pienamente si dice, sapendo cosa dice mentre ascolta il battito di sé: in sé, la sistole del mondo. Se la menteè (radice indo-europea, sscr. màtis, gr. métis, indo-germanicamán-), misurare, “giacché uno che pensa altro non fa che misurare, ponderare le idee”, in poesia la mente è il cuore che capisce, che prende le misure. La prima misura delle cose. Il peso di sé, nel mondo. Il tono affettivodella prima “comprensione”. Sempre. Il resto è “genere letterario”, “pratica artistica”. La poesia può esserci, ma non la decide il verso o le tecniche. La decide questa “ponderazione”, se vi trova “parola”: una domanda di senso, la prima della vita uscita, nell’affanno dei propri bisogni, dal circolo biologico stimolo-risposta dell’organico.

Di questa domanda cresciuta negli occhi “primitivi” di chi alza gli occhi al cielo dal fiuto del vento e vi si ferma un attimo non solo più per orientarsi – o di chi depone a terra e copre in una tomba (la prima dimora umana “costruita”, la prima “architettura”, non trovata in natura come la caverna del riparo) il compagno della propria caccia o la compagna della propria vita – la parola è, nel mondo, il primo suono. I poeti parlano di questo suono, che mette in ordine il mondo, vi fa entrare il silenzio. Diverrà tema dell’uomo religioso, o dei filosofi che proveranno a dare un concetto al numinoso, ma “i poeti”, quelli che parlano, ne sono la prima dimora. Per questo la poesia è universale, anche quando non c’è, anche se non ci fossero “i poeti”. La poesia è, in una qualche misura sarà sempre, questo primitivismodell’emozione, da cui si muove tutto.

Questo statuto ontologico della parola, la soglia in cui l’esseredell’io fa il suo ingresso nel mondo e si pone in cammino verso “io sono”, che lo portaal mondo, è del tutto perspicuo nella nozione heideggeriana di “poesia”. Una nozione che non ha primariamente nulla a che fare con ciò che comunemente intendiamo come poesia: canone formale o genere letterario. Nell’ontologia ermeneutica heideggeriana, coinvolta nella “questione dell’essere”, la Poesia (Dichtung), nella sua essenza, è «l’avvento della verità dell’ente come tale», di fronte a cui «la poesia (Poesie) è soltanto un modo della progettazione illuminante della verità, cioè del Poetare (Dichten) nel senso più ampio»[1]. La Poesia (Dichtung) vi ha, in altri termini, lo statuto dell’originaria «instaurazione» (Stiftung) della verità, che concede all’arte di essere a sua volta messa-in-opera-della-verità, riassegnazione dell’ente all’apertura del mondo da cui proviene e in cui, provenendo, si regge: «saga del non-esser-nascosto dell’ente»[2].«Instaurare qui è inteso in un triplice significato: come donare, come fondare, come iniziare»[3].

Dichtungin questo senso eminente non dice altro che il darsidell’Esgibt(Sein) come BodenUrsprungdell’ente: il fondoda cui esso è, si essenzia, viene all’essere, la sua origine originante nell’assoluta gratuità di una donazione. Il bellocostitutivo di questa Dichtungcome «farsi evento della verità» – previo e condizione di qualsiasi valore formale – è la formatività stessa: «La verità è il non-esser-nascosto dell’ente in quanto ente. La verità è la verità dell’essere. La bellezza non è qualcosa che si accompagni a questa verità. Ponendosi in opera, la verità appare. L’apparire, in quanto apparire di questo essere-in-opera e in quanto opera, è la bellezza»[4].

È solo perché la Dichtungè la Poesia in questo senso, come produzionedell’ente nel disvelamento, che la poesia – per Heidegger – come linguaggio poetico (Poesie) ne è in modo eminente, del disvelamento, la possibilità della custodia nella “parola”: giacché «il linguaggio stesso è Poesia in senso essenziale» e «essendo il linguaggio quell’evento in cui l’ente in quanto ente si apre in generale agli uomini, la poesia (la Poesia in senso stretto) è la più originaria Poesia in senso essenziale. Non è che il linguaggio sia Poesia perché è la Poesia originaria (Urpoesie), ma la poesia si realizza nel linguaggio perché questo custodisce l’essenza originaria della Poesia»[5].

«Saga» del non esser nascosto dell’ente[6],la Dichtung è l’originaria linguisticità del mondo, il suo dirsi di parola: il motivo per cui è la “poesia” a custodirla in modo elettivo: le altre arti «restano vie e maniere particolari in cui la verità si dispone nell’opera […] entro l’illuminazione dell’ente che si dà, e in modo inosservato, si è storicizzato nel linguaggio: esse hanno sempre luogo solo nell’aperto del dire e del nominare: ne sono rette e guidate»[7]. Elettivamente, la “poesia” custodisce la poiesi del mondo nella sua ultima sostanza di parola. Quel che alla “filosofia” è consentito solo nella sua prima radice di pensiero come “meraviglia pensante” che “parla in domande”. È grazie alla linguisticitàoriginariadella poesia, che «il linguaggio può esprimere tutto ciò che pensiamo chiaramente» (Lessing), e che la stessa “questione dell’essere” può venire a capo della sua impasselinguistica in filosofia, della crisi di linguaggio dell’ontologia, per cui «forse la confusione che regna nell’uso delle parole óntanai, ente ed essere, non dipende tanto dal fatto che la lingua non può dire tutto in modo adeguato, quanto piuttosto dal pensamento inadeguato della cosa»[8].

È in questa linguisticitàoriginaria e originante il mondoche pensiero e poesia, «affidati al mistero della Parola come al massimamente degno di essere pensato e perciò da sempre l’un l’altro intrinseci»[9], sono in dialogo nel loro carattere di puro direche mette in campo le cose prima delle cose; pura fásisprima di ogni apofantica, prima del vero e falso del giudizio. In cui «domina l’Evento come quel Dire originario nel quale il linguaggio ci dice la sua essenza»[10]. Un dire che non si perde nel vuoto, perché ha già sempre raggiunto il segno, l’uomo, che «è uomo solo se ha risposto affermativamente alla Parola del linguaggio, se è assunto nel Linguaggio perché lo parli»[11]. Come parola l’uomo è il segnavia del mondo, ne indica il cammino di linguaggio: «Dire, sagan, significa mostrare: far apparire, dischiudere illuminando-celando, nel senso di porgere ciò che chiamiamo il mondo. Questo porgere il mondo, che è insieme un illuminare e celare o velare, è la vivente essenza del dire. La parola guida per la via situantesi nella regione della vicinanza tra poetare e pensare contiene un’indicazione, seguendo la quale ci è forse dato di giungere nella “prossimità” che determina quella vicinanza. La parola-guida suona: l’essenza del linguaggio, il linguaggio dell’essenza»[12].

Il linguaggio è il dire l’ “essere” che lo fa essere mentre cifa essere: lógos come fásis (poetare e pensare) del Lógos, dire di quel concernimento (Angang) che ci istituisce nell’essenziarsi della presenza (Anwesen)[13]. Ciò che «in ogni situazione ci concerne, come quello che in tutto fa presente una strada»[14]. Se Hölderlin è per Heidegger «il poeta del poeta», è perché nella sua poesia quel che è a tema è questa essenza [linguistica] della poesia, che in quanto«linguaggio non è uno strumento disponibile, ma l’evento che in quanto tale dispone sulla suprema possibilità dell’essere uomo»[15]; il farsi linguaggio del linguaggio come farsi del mondo nella parola. Nominando gli Dei, la poesia «nomina tutte le cose in ciò che esse sono», il Sacro del Mondo: «questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a ciò che è. Così viene conosciuto in quantoente. La poesia è istituzione in parola (worthafte) dell’essere»[16]Il mondo è istituzione di parola. I “poeti” potranno anche non esserci, essercene di rari o di cattivi, ma la poesia è questo.

Sarebbe però esiziale, questa fondazione poeticadell’essere nella parola, intenderla come anticipazione del mito (e suo supporto teorico) della lirica moderna come creazione assoluta, “poesia pura”, “arte per l’arte”. Che cioè la caratura ontologica della poesia sia custodita nell’autonomia (l’autoreferenzialità) del linguaggio poetico, del suo “valore formale”. Un assunto del genere farebbe della “poesia della poesia” la declinazione letteraria del peccato idealistico della soggettività moderna, di un ego“vero e certo” solo di sé, solo in sé saldamente fondato, istituito e istituente il “reale”. In filosofia nella rappresentazione; in poesia nella parola. Stretto alla sola necessità di sé, senza mondo. Fosse questo, «poetare sul poeta [non sarebbe che] sintomo di un autorispecchiamento pervertito e al tempo stesso la confessione di una carente pienezza di mondo […] un’esasperazione sconsiderata, qualche cosa di tardo e una fine»[17]. Niente di più lontano dallo stringente dettato delle cose nella parola, di come stail mondo e di come vi stiamo, cui Hölderlin ha dedicato la sua parola poetica, dove chi detta e cosa viene dettato, sono costretti e stretti «dalla pienezza e dall’impeto delle immagini e con sempre maggiore semplicità» al servizio del linguaggio, come testimonianza che l’uomo rende della sua «appartenenza alla terra». Il dettato della poesia non è l’Io in uno specchio di Narciso, ma l’intimità di quest’appello dell’appartenenza: «L’essere-testimone dell’appartenenza all’ente nel suo insieme accade (geschieht) come storia (Geschichte)», storia per cui, «perché sia possibile, è dato all’uomo il linguaggio»[18]. Perché possa abitare il mondo che gli si apre: “Poeticamente abita l’uomo su questa terra”. È per questa consapevolezza che Hölderlin è “il poeta del poeta”.

Ma allora la lirica moderna come organismo culturale e stilistico autosufficiente, che non intrattiene rapporti con un mondo di cui nega persino l’esistenza – è la classica tesi di Friedrich[19]– è senza verità poetica? Fosse così – al di là della crisi o dei successi della poesia come genere letterario – questo vorrebbe dire che si darebbe, per la prima volta, un mondo senza “poeti”. Ma non è così, e non può essere così; per altro in una temperie filosofica, quella della fenomenologia del ‘900, che conosce bene la necessità di “salvare i fenomeni”, la caratura ontologica della parola. I veri poeti di questo “tempo della povertà”, i poeti di questa età che Hölderlin annunciava, saranno proprio i poeti della “povertà di mondo”: nessuna salvezza di Narciso nell’aura della parola, piuttosto l’impotenza poetata patita dalla soggettività moderna a dire la “statura vera delle cose”[20]. Ancora una volta una consegna storica, che fa realistica anche la lirica dei moderni, stringendola al suo tempo, alla “realtà” del mondo che gli si dà e che mette e salva in parola, anche quando paia chiudersi nel mantello di difesa dell’espressione “pura”. Dal lato del negativo, del calco vuoto – “vuota trascendenza” – di ciò che si cerca, ancora e sempre un mondo da dire. E qui siamo, ancora una volta, all’enigma del “lirico”, taumaturgia della parola, che mentre dice “Io” dice già “mondo” ed è fuori di sé estatico a “vedere” il dramma su cui è in scena, sintesi tragica dell’esserci, sulla “terra”: in presenza di dèi che partecipano o semplicemente assistono, quando non abbiano lasciato, come nel moderno, il vuoto di una fuga; nel Qohélet, una modernità già venutaa giorno, già fattasi luce vuota, di un giorno dove, per l’auto-riflessività meditativa dell’io lirico, non c’è già “nulla di nuovo sotto il sole”.

 

2. Il carattere di totalità dell’espressione artistica. Il fenomeno del lirico: ferma forma e animo mosso.

 

Questo “carattere di totalità dell’espressione artistica”, in poesia l’universalità dell’espressione lirica, è solidamente argomentato da Croce: «che la rappresentazione dell’arte, pur nella sua forma sommamente individuale, abbracci il tutto e rifletta in sé il cosmo [èfenomeno] assai volte notato», e anzi «criterio per discernere l’arte profonda dall’arte superficiale, la vigorosa dalla fiacca, la perfetta dalla variamente imperfetta»[21]. Ma proprio per questo – checché ne pensi Croce, che ha di mira le sistemazioni idealistiche o romantiche di arte, religione e filosofia – la “conoscenza”, l’intuizione universale che la poesia acquisisce e mette in opera, certo se ne distingue nell’espressione dello spirito, ma non è dissimile – la pareggi o anche la sopravanzi – dalla “conoscenza” di religione e filosofia. Se per questa conoscenza s’intenda non la “teoria” etico-pratica della realtà che esse, religione e filosofia, fornirebbero, e in effetti forniscono – l’utilizzo teoretico-concettuale o etico-religioso della verità vista o sentita[22]–, ma l’originaria custodia di questa verità intuitanella parola che pensa o che prega; se per questa conoscenza s’intenda nell’io la presentazionedel tutto, l’epifania di un’appartenenzaempatiadi una pura comunicazione di esistenza, teoriacome puro stare, e vedersi, – nel vicinissimo del sentimentoe dal lontanissimo della contemplazione al mondo nel mondo[23]. Empatia che trova i suoi segni e le sue parole, descriveagiscein poesia musica pittura, ma sta sempre lì nel “mezzo”, lo hölderlinianoZwischen, tra divini e mortali, tra cielo e terra; nelmezzo del mondo, nel puro stare al mondo che prende la parola. Soffra o (raramente) gioisca[24], questa “conoscenza” è sempre patema fermo nella forma.

Come punto di equilibrio tra “apollineo” e “dionisiaco” (Nietzsche), ovvero tra ferma formaanimo mosso, intuizione contemplativa e sentimento, “espressione o intuizione lirica” (Croce), l’arte, il poeta, la “grande arte”, il “poeta del poeta”, hanno sempre questo ufficio: assistere come la prima volta all’incarnarsi delle cose; nel germinío del mondo – delle cose e di sé – ascoltarne il silenzio e dargli voce: gli “altissimi silenzi” in cui nel suonoil mondo si fa mondo,verità di parola, cioè col mondo noi, quelli capaci – sotto un cielo stellato, sull’infinito di un colle, nel prepararsi degli uomini prima della battaglia, o nel chiuso mondo di sé – di dare voce e ascolto al suono alto della propria mente e al suono basso del proprio sangue “perché il silenzio non esiste”[25]Descrizione lirica che assiste e contempla, nell’incarnazione delle cose la poesia è questa visione del silenzio, della soglia di suono e di luce in cui si viene al mondo, noi e le cose; nel contatto di una carezza e nella ferita di una lacerazione, dall’ingresso amniotico nell’esserci.

La luce posata e vista sulle “nature morte”, gli oggetti di ogni giorno, dei quadri di Morandi, i gialli i verdi gli azzurri i blu lingueggianti dei cieli, delle notti, dei campi dei cipressi di van Gogh, dicono quanto basta di questa co-intuitività di parola e visione, di questa incarnata pulsazione delle cose che la pittura vedee la parola dice. In poesia forse qualcosa di più, perché l’ascolto della parola viene da dentro, dall’interno regime delle fondazioni; dal mondo dell’amniosi, dove non è mai silenzio, anche prima che lo squarci, nell’aria che gli taglia i polmoni, il primo “grido” di chi nasce, di chi viene alla luce. Il motivo per cui l’intuizione lirica non è solo il ritorno dello sguardo su chi guarda – l’intuizione propriamente speculativa– ma il gemito “visto” (il “giardino grande ospitale” di Leopardi) della creazione sentito dall’interno, che sale all’aria e la muove nell’onda della parola suono. Come “creativo” l’io lirico è kenotico– del “mondo” che ha ricevuto restituisce tutto, le sorgenti; si svuota dandosi tutto e consegnandosi al tutto, ma insieme consegna tutto a tutti, li affratella a sé. Fa quello che ha fatto, dando alla Natura un sentimento, un sentire per le sue “creature”, con la teologia della creazione il dio del Nome. Nell’individua intuizione universale di questa kenosi lirica – tutto che si cede di un’esperienza umana – la parola è parola generativa, totipotente; espande e accende ogni esperienza umana che l’avvicini. E, come sintesi estetica a priori (Croce), è anche sempre un giudizio morale: su come si sta al mondo e qual è il proprio posto nel mondo; riconciliazione con la propria necessità. Innalzarsi della vita su di sé, che si guarda dall’alto mentre è “anima”, pathosdella condivisione dove sei tutto e insieme tu; e vedi nell’attimo il destino, la fugacità del momento che si salva e si accetta e prende la parola.

Il lirico è questo portarsi sulla “cima”. Sul colmo, sulla sommità della parola. «Accesso a una soglia di senso», a «ciò che vi è di elevato e di toccante in un’opera d’arte, nel carattere o nella bellezza di una persona e persino in un prodotto della natura»[26]– il motivo per cui la poesia in senso assoluto può ben darsi fuori dal poetico e dall’impoetico letterario, e la possiamo incontrare nell’intera varietà dei generi e delle arti, giusta la crociana distinzione tra poesia e non poesia. Nella lirica, la “poesia” è lo stare della parola su questa soglia, che la fa «meridiano ordinatore o disordinatore del di qua e del di là, meridiano centrale del prima e del dopo»[27], su cui «all’improvviso (facilmente) l’essere o la verità, il cuore o la ragione, cedono il loro senso: la difficoltà appare, sorprendente»[28]. Su questa soglia, tra ciò che viene a sparire fermo nell’istante, la lirica dice l’opera media della vita, «intermedia tra le “opere vive”, nel linguaggio della teologia quelle compiute in grazia di Dio, dunque meritorie, e le “opere morte” compiute indipendentemente dall’ispirazione della fede, per puri motivi umani e perciò prive di merito soprannaturale»[29]. L’elevato e toccante dell’umano, l’operavivadel naviglio dell’io, la parte sommersa e indispensabile necessaria a tenere sulla linea dell’esistenza, in linguaggio marinaro, l’opera morta che emerge dall’acqua, accessoria come la cabina, la coperta e i suoi elementi: l’iodistintoche è pure il suo vessillo, la vela in cui può esserci il vento o può cadere. Se in mare ci fosse un’opera media sarebbe questa tenuta del naufragio fino alla “fine del mondo”, «seguirebbe la linea del galleggiamento; coincidente, più o meno, con la linea dell’esistenza»[30]nell’integrità della parola salvare ciò che accade, perché qualcuno o qualcosa ne dica la grandezza, la sua statura vera.

Nessuno ha colto forse meglio di Leopardi questo “miracolo” del lirico, l’enigma della parola in cui l’io si salva a se stesso, da se stesso, da ciò che ha visto di sé; su cui Nietzsche farà imbarcare, nel mare della volontà, l’io schopenhaueriano della sua giovinezza nella Nascita della tragedia. È sua, di Leopardi, l’osservazione che la lirica è «la cima il colmo la sommità della poesia», e come tale «la sommità del discorso umano» e «dei tre generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni»; e ciò perché «primo di tempo», e «così eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia», sì che la poesia «consisté da principio in questo genere solo», e la sua essenza «sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche»: e che «in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l’età nostra si riavvicina alla primitiva». Ed è sempre sua l’osservazione che «quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come per esempio nella lirica, che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva» – che è il «magistrale effetto della poesia, quando giunge a fare che il lettore acquisti maggior concetto di sé, e delle sue disgrazie, e del suo stesso abbattimento e annichilamento di spirito»[31].

Insieme Ulisse e i suoi compagni, l’io lirico è questo “nonostante tutto” detto al farsi del mondo che si visto. Nel grande gioco dell’eterno farsi e disfarsi delle cose, il dado dell’istante, del momento, che dice io e passa, e pure “tiene”, pesa abbastanza da restare: evento di parola, «l’avvento della verità dell’ente come tale» (Heidegger), «l’accesso a una soglia del senso [in cui] l’essere o la verità, il cuore o la ragione, cedono il loro senso» (Nancy). “Anima” chemisura e pesa, e pondera il proprio peso, l’io lirico è questa “pesa” di sé nella parola, elevata e toccante, sulla soglia dell’esistere, tutto, cui si sta sospesi; ciò di cui si farà carico in “poesia” «il carattere di totalità dell’espressione artistica» (Croce). Ma questo è il fenomeno del lirico, l’arrivo del Sé presso di se stessoArrivo di parola, arrivo nella parola.

 

3. Il fenomeno del lirico e la sua storia

 

Questo fenomeno ha però ha una storia, che dà anche conto degli arcaismi funzionali (il poeta vate, il poeta didáscalos) nel concetto di poesia anche al suo “colmo” come poesia lirica. Anche quando la poesia si sia fatta piena sapienza di sé dell’io e del suo posto nel mondo, e di come lo tiene. Quando la poesia si sia fatta lirica, io lirico, e quelle funzioni arcaiche– istitutive della comunità e del suo sapere – siano passate, nella differenziazione sociale, propriamente al “politico” e alla “scienza”; in linguaggi che si reggono su un’altra episteme dall’empito espressivo della parola.

La lirica come «la cima il colmo la sommità della poesia», e come tale «la sommità del discorso umano» (Leopardi), è in altri termini una sommità conquistata: nella storia della coscienza. Perché la coscienza ha una storia. Se la lirica, l’io lirico, è la prima espressione di una coscienza che ha scalato se stessa, che si è costituita a “io”, accesso espressoal senso, che vi è anteriore a ogni accesso ragionato, anzi suo universale presupposto, questo spiega perché l’espressione lirica – altrimenti dal vaticinio che guida e dalla didascalica che insegna – non tramonti nella scienza e nella filosofia, e tenga il campo dell’installarsi nella verità del mondo, come prima parola che la dice. Il che poi spiega perché «dei tre generi principali di poesia» la lirica sia «il solo che veramente resti ai moderni»; alla coscienza che sia giunta presso di sé senz’altra illusione che quella che, per vivere, nel “vero negativo”, devevolere.

Accesso a una soglia di senso, poesia come coscienza, poiesidel senso, come la coscienza la poesia ha un’origine e una storia. Nella “sommità” del fenomeno del lirico una scala lasciata alle sue spalle; ma su cui sale dalle sue regioni più profonde, dalle regioni della rivelazione interiore, nella sua connessione alla parola religiosa[32]. Può aiutarci a intuirla la trama di questa storia – i suoi arcaismi e la sua foce: epica, dramma, cosmogonico e umano, didascalica e lirica – un testo certamente eterodosso, ma singolarmente importante della filosofia della mente contemporanea. È un testo di Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. Un testo tutto costruito sull’ipotesi che la coscienza quale oggi la intendiamo – ancorata come vita cosciente e nelle sue funzioni linguistiche a uno solo dei due emisferi cerebrali, generalmente il sinistro – sarebbe una “forma” recente della coscienza. Una forma faticosamente conquistata; che si distacca dal fondo arcaico della “mente bicamerale”, dove l’emisfero oggi, in condizioni “normali”, “muto”, persistentemente legato da molteplici nessi all’emozione, era attivo e parlava come la voce del suo dio all’individuo: «I primi poeti furono dèi. La poesia ebbe inizio con la mente bicamerale. Il lato divino della nostra forma mentale antica, almeno in certi periodi della storia, si esprimeva di solito, forse sempre, in versi. Ciò significa che in un certo periodo la maggior parte degli uomini doveva udire, durante la giornata, poesia (una specie di poesia) composta e recitata all’interno della propria mente»[33]. Così Jaynes. Allora? Fosse vera questa ipotesi, poesia era in origine ritmo che facilitava il ricordo dell’imperativo autoritario culturale. La materia poetica fissava il comando, serviva a ripetere o richiamare alla memoria l’ordine tradizionale della comunità, automatismo psichico, racchiuso nella voce del suo Dio. Si era inspirati: la voce dell’interno parlava dall’esterno, noi diremmo comedall’esterno; ma per l’uomo della mente bicamerale da quella voce si era invasi. Poesia è sì poíesis, ma originariamente nel senso imperativo del poiéin. Sentire una poesia era sentire un ordine: “fai così!”, oppure sentire l’ordine: “è sempre stato così”, agisci quest’ordine perché fa parte dell’Ordine.

In questo senso originario la poesia è letteralmente l’organizzazione linguistica del mondo, di un mondo come mondo comune, della coscienza della comunità. La Poesia fa il mondo secondo l’ordine e trasmette un ordine: poíesisoriginaria, essa è instaurazione di un mondo umano come mimesi della sua instaurazione ad opera degli dèi cosmogonici, del regime dei “padri”: originaria cosmologia come racconto della cosmogonia – racconto di ciò che è stato fatto, che dà autorità agli dèi cosmogonici così che possano dire cosa e come farlo. E questa instaurazione della comunità mondana nello specchio della cosmogonia si continua nell’epica, quando si rivolge a un popolo (il poeta è vate) e nella didascalica, quando si rivolge al singolo, alle sue opere e ai suoi giorni (il poeta è maestro): le prime istituzioni della poesia fondano – nel senso che ne riparano nella memoria la vicenda, e la proteggono – i popoli che entrano nella storia.

Ma già questa organizzazione mnemonica della poesia, nel racconto comune e che tiene in comune e raccoglieun popolo nel suo linguaggio, è il germe dell’autoriflessione come posta però esternamente, nella memoria della comunità; nella coscienza della comunità non più già solo come ripetizione irriflessa di una sequenza linguistica che accompagna l’azione, ma come suo ri-cordo, raccoglimento nel cuore collettivo, dei tutti della comunità, previo al suo passaggio nel cuore interiore del singolo – dove comincia la preistoria della vita cosciente in cui siamo a tutt’oggi posti come ‘io cosciente’. Per questo la poesia è in una qualche misura sempre stare al centro al ricordo.

Il passaggio dall’oralità alla scrittura vede già tutto consumato, quanto meno in nuce, questo interiorizzarsi, questo andare nell’interno della poesia come instaurazione linguistica del mondo, il suo rivolgimento propriamente lirico; il monologoche nasce dal dialogodella mente bicamerale, dal suo cadere, crollare, nella coscienza: qui il poeta si pone dalla parte dell’Io, sa sempre dove sta anche quando si ritrae, fa posto al dialogo, si sente ispirato. L’invocazione alle Muse è la coscienza che le voci – il dettato continuo della mente bicamerale – non presiedono più al mondo della veglia. Qui per la prima volta c’è quello che noi intendiamo come poeta: prima il poetaera il dialogo.

Questo dialogo, però, della mente bicamerale non scompare, piuttosto mette la sordina: un basso continuo che accompagna ogni canto, ogni grido dell’Io quando è poetico – strato arcaico della memoria, regime delle fondazioni, che insieme regge sparendo e può venire alla luce sotto l’aratro della memoria, quando l’acuminazionedel Sé, l’io più intenso, il rivolgimento lirico, cerca, cercandosi, il suo fondo, e trova: altro. L’altro della relazione: dio, uomini, mondo; l’accorato staredelle “cose”. Questo dialogo, quest’origine numinosadel linguaggio che si è fatta ctonia, regge la costante dialettica nella poesia occidentale (e forse tutta la poesia oggi abitabile dalla mente cosciente è occidentale, tramonto nella vita cosciente di un’altra coscienza che è stata l’alba e che irraggia da dietro l’orizzonte) tra poesia originariapoesia della coscienza, “lirica”: lo specifico problema storico come fenomenologia concreta della poesia che conosciamo. Nel rivolgimento lirico la poesia originaria come mondo di una partecipazione che rende possibile ogni mondo, anche quello dell’io fuoridall’io – il mondo che emerge alla “coscienza” e la fa “io” –, torna a parlare, detta; epperò non più da fuori come negli arcaismi della coscienza, ma come se da dentro. Originaria possibilità che all’io costituito, all’io “personale” soggettivo, resta di essere personain un ordine fondato: maschera di un altro, di un ordine, una trama che la tiene in commedia e pure quella maschera fa sua. Dove questo non accade, senza questo “rivolgimento” che è il fenomeno proprio del “lirico”, la poesia, scade o resta letteratura, mero romanzo dell’io. Nel fenomeno del lirico, come universale concreto, fin dall’inizio è vero ciò che Adorno scrive per la poesia lirica dell’ultima modernità, l’età della più acuta povertà di mondo: «ciò che solleva la poesia lirica all’universale è l’immersione in una realtà individualizzata»[34].

Ma questo vuol dire che la poesia, la grande poesia che rompe gli argini del paesaggio letterario, è esperienza, non conoscenza, ovvero conoscenza nell’esperienza e non dell‘esperienza; che è l’altra possibilità, quella ragionata della filosofia, dalla filosofia[35]. Imbattersi dell’Io in un ordine originario delle cose e di noi con le cose, imbattersi in qualcosa, imbattersi nel Qualcosa, nell’ordine – anche nel suo “crollo” – del c’è qualcosa. Della pura “meraviglia” – “ed io chi sono?” – che la filosofia custodisce solo come “pensiero”. L’ingresso nel Tempio è qui sempre solo dalla parte delle rovine o dello stupore della sua pianta, del suo ordine non capito.

Questa poesia è in una qualche misura al di là della stessa maternità “linguistica” della lingua. È poesia maschile, eterno traducibile: erompe da un cervello anteriore sotteso ad ogni lingua parlata, sconvolge in ogni lingua, accede ad una risonanza anteriore: “Montagne, solitudini e ogni oggetto,/sebbene io debba morire/ rivelatemi la vostra anima, in modo/ che la mente mi si geli nel capire/ che in effetti esistete veramente,/ che siete fatti, esistenza, cose, esseri”[36]. Dove questa esperienza si dà, la mente si gela in ogni lingua: “que se me gele a mente ai perceber“. La poesia è quest’annuncio dell’attonito: l’attimo-mondoed io che guardo e mi guardo. Detto nella parola, in cui “il reale dal profondo della realtà del mondo trova la voce giusta per enunciarsi”[37].

 

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Bookshelf

Heidegger, Tempo ed essere

Leopardi, Zibaldone

Luzi, Vicissitudine e forma


[1] M.Heidegger, Sentieri interrotti, ed. it. a cura di P.Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 57.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 58.

[4] Ivi, p. 64.

[5] Id., Sentieri interrotti, cit., p. 58.

[6] Cfr. Id., In cammino verso il Linguaggio, ed. it. a cura di A.Caracciolo, Mursia, Milano 1973, pp. 157, 169, 198-199.

[7] Id., Sentieri interrotti, cit., p. 58.

[8] Ivi, p. 316.

[9] Id., In cammino verso il Linguaggio, cit., p. 187.

[10] Ivi, p. 155.

[11] Ibidem.

[12] Id., In cammino verso il Linguaggio, cit., pp. 157-158.

[13] Id., Tempo ed essere, ed. it. a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, p. 127.

[14] Id., In cammino verso il Linguaggio, cit., p. 158.

[15] Id., La poesia diHölderlin, a cura di L.Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 46.

[16] Ivi, p. 50.

[17] Ivi, p. 42.

[18] Ivi, p. 45.

[19] Cfr. A.Berardinelli, Le molte voci della poesia moderna, in appendice a H.Friedrich, La struttura della lirica moderna, tr. it. di P.Bernardini Marzolla, Garzanti, Milano 1989, p. 335.

[20] E.Heller, Lo spirito diseredato, tr. it. di G.Gozzini Calzecchi Onesti, Adelphi, Milano 1965, p. 253: «Nella sua essenza, ogni poesia è celebrazione e glorificazione. La sua gioia non è puro piacere, la sua lamentazione non è puro singhiozzo, e la sua disperazione non è puro e semplice abbattimento. Qualsiasi cosa faccia, la poesia non può che confermare l’esistenza di un mondo significativo, anche quando ne denunci la mancanza di senso. Poesia significa ordine, anche quando scagli l’accusa di caos; significa speranza, anche con il grido della disperazione. La poesia riguarda la statura vera delle cose; quindi tutta la grande poesia è realistica»

[21] B.Croce, Breviario di estetica. Aesthetica in nuce, a cura di G.Galasso, Adelphi, Milano 1990, p. 149.

[22] Manipolazione teoretico-conoscitiva che in poesia e pittura si traspone come mera descrizione, rappresentazione; con le sue leggi dell’arte, i generi e i loro trattati – di qui la felicità della critica di Croce ai “generi letterari”.

[23] Cfr. M.Heidegger, Saggi e discorsi, ed. it. a cura di G.Vattimo, Mursia, Milano 1976.

[24] Perché poco la vita è disposta a cedere della sua “pienezza” alla concentrazione meditativa della lirica, all’espressionelirica della gioia. L’uomo “felice” in una qualche misura, e giustamente, è istupiditonella vita; per stupirseneed enunciarla, dalla sua felicità dovrebbe prendere una distanza; staccarsi dal leopardiano, e nicciano, “piolo dell’istante”, la pura presenza a sé della vita animale. La gioia non si dicesivive. Lo sa chiunque almeno una volta abbia gioito. Nell’espressione lirica la gioia è già affidata solo al ricordo, alla malinconia della nostalgia, all’esperienza della sua “fugacità”. Fuori di questo raccoglimento meditativo nel cuore della sua nostalgia, la gioia lirica può darsi solo come “gioia tragica”, autoaffermazione della vita che dice “nonostante tutto”: il “fermati!” detto all’attimo pieno (“sei bello!”) di Faust. O, nella descrizione lirica, come la “serenità” di un “fuori”, controcanto – che pacifica – all’affezione lirica, al suo patito sentimento di sé.

[25] L’intuizione di John Cage nella camera anecoica dell’università di Harvard, messa “in musica” in 4’33”, uno dei brani più celebri e controversi della musica contemporanea, la cui partitura ha una sola indicazione, “tacet”: una pausa lunga tutta la durata del pezzo, quattro minuti e trentatré secondi di silenzio. Un pezzo scritto dopo un lungo lavoro di sperimentazione, per far ascoltare nella partitura, inserendovi lunghe pause di silenzio, per portare “dentro” la musica quello che per Bach la musica spingeva fuori dall’ascolto (“La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori”). In quella camera, Cage avrebbe dovuto udire il silenzio più totale; invece riuscì a sentire due rumori, uno acuto e l’altro più grave, per sentirsi spiegare da un ingegnere che aveva ascoltato il proprio apparato cardiocircolatorio e nervoso in funzione: «Dopo essere andato a Boston mi recai in una camera anecoica dell’università di Harvard. Tutti quelli che mi conoscono sanno questa storia. La ripeto continuamente. Comunque, in quella stanza silenziosa udii due suoni, uno alto e uno basso. Così domandai al tecnico di servizio perché, se la stanza era tanto a prova di suono, avevo udito due suoni. ‘Me li descriva’, disse. Io lo feci. Egli rispose: ‘Il suono alto era il suo sistema nervoso in funzione, quello basso il suo sangue in circolazione’». Cage così concluse: «Dunque, non esiste una cosa chiamata silenzio. Accade sempre qualcosa che produce suono». Il “rumore”, l’assenza di non suono, domina in ogni istante della nostra vita (non a caso quattro minuti e trentatré secondi corrispondono a 273 secondi, e lo zero assoluto è posizionato a -273.15 °C, temperatura irraggiungibile, come il silenzio assoluto). Il silenzio è l’impossibile su cui si sporge l’ascolto, è l’oggetto proprio dell’ascolto. Parla dalla regione in cui il linguaggio come linguaggio, come “poesia della poesia”, si mette in ascoltoin cammino verso di sé.

[26] J.L.Nancy, La custodia del senso, ed. it. a cura di R.Maier, EDB, Bologna 2017, pp. 15 e 17.

[27] D.Del Giudice, Opera di mezzo, prefazione a E.Mazzarella, Opera media, il Melangolo, Genova 2004, p. 7.

[28] J.L.Nancy, La custodia del senso, cit., p. 21.

[29] D.Del Giudice, Opera di mezzo, cit., p. 7.

[30] Ibidem.

[31] Le citazioni da Leopardi sono dallo Zibaldone, I, pp. 243 e 253, e II, pp. 1283-1284 (ed. Flora, Mondadori, Milano 1953).

[32] M.Luzi, Vicissitudine e forma, Rizzoli, Milano 1974, p. 91: «A un certo livello, verosimilmente il più alto, la parola della poesia tradisce la stessa origine e scaturigine della parola profetica, se dal vocabolario paolino prendiamo il termine profezia nell’accezione non di opposto ma piuttosto di momento ulteriore e sublimato della glossolalia. La letteratura indiana non distingue tra sacro e profano quando parla di “mantra”. La poesia mantrica proviene dalle regioni più profonde della coscienza, o meglio per usare la parola di Aurobindo Ghose, della supermente, ed ha stretta parentela con la rivelazione interiore, quasi verità e armonia che si manifestano al di sopra della logica e della semantica. Solo un’immersione profonda nell’universale può suscitare quel genere di accordi; la concentrazione meditativa che essa presuppone non è diversa da quella richiesta dalla conoscenza religiosa che solo l’Occidente definisce mistica».

[33] J.Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, tr.it. di L.Sosio, Adelphi, Milano 1984, p. 429. È questa struttura mnemonica fondativa della poesia, che può sostenere l’acuta osservazione di Nancy che «la poesia non è scritta per essere imparata a memoria: è la recita a memoria che rende ogni frase recitata almeno ombra di poesia. La compiutezza meccanica dona accesso all’infinitezza del senso. Qui, la legge meccanica non è in disaccordo con la libertà: essa, invece, la libera» (La custodia del senso, cit., pp. 29-30).

[34] T.W.Adorno, Discorso su lirica e società, in Note per la letteratura, tr. it. di A.Ferioli, E.De Angelis, G.Manzoni, Einaudi, Torino 1979, p. 47.

[35] E.Grassi, Esperienza non conoscenza. La poesia, in Introduzione a E.Mazzarella, Il singolare tenace, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1993.

[36] F.Pessoa, Faust, ed. it. a cura di M.J.de Lancastre, Einaudi, Torino 1989, atto III, pp. 102-103.

[37] M. Luzi, Vicissitudine e forma, cit., p. 35.

 

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