Social-Mente

Di: Giusy Randazzo
28 Maggio 2018

Nulla sembra esserci di più antinomico del termine mente, non tanto assumendolo nel linguaggio come suffisso avverbiale – nel senso aggiunto di “modo d’essere”-, ma quando si riflette sull’apparente contraddittorietà del suo essere etimo di mentire, a tal punto da generare un verbo identico al sostantivo: mente. Ma sarà vero? È sul serio questo termine, pur latino, in grado di contenere una doppiezza greca sempre apparentemente vera che per di più non ci si aspetta? La mente, infatti, sembra comprendere in sé la verità: da qui l’apparente contraddittorietà. Chiarisco. Non si tratta di una verità valida per il soggetto universale, ma per quel soggetto pensante: per quel qualcuno la sua mente contiene persino la verità della falsità. Soltanto lui conosce nella sua mente vera-mente la sua verità. Essa non è permanente, però. Non è Verità. Cambia piuttosto nel tempo perché si tratta di un’interpretazione che in un dato momento assume come tale: come vera. Mente a se stesso, ma ancora non lo sa e quando lo saprà assumerà un’altra verità che considererà tale, continuando a mentire a se stesso. C’è dunque antinomia, perché permane nell’individuo uno stato continuo in cui una tesi e un’antitesi convivono: “è vero x” e “non è vero x”. La differenza la fa il tempo.

«Una distinzione centrale è quella fra mente fenomenica –lo spazio dell’esperienza soggettiva- e mente cognitiva, una nozione assai più tecnica che vede la mente soprattutto come un’istanza di coordinamento di varie agenzie di percezione-controllo-informazione»1.

La convivenza tra tesi e antitesi risulterà soltanto nello spazio dell’esperienza soggettiva, nella durata, ma il tempo esclude la compresenza tra le due: il tempo è garante dello scarto veritativo tra una tesi e il suo opposto nella mente di ogni individuo.

Eppure nessuna apparente verità giunge alla mente del soggetto senza il contributo esterno, senza quel condizionamento che arriva dai contenuti sensibili che spaziotemporalizzati rendiamo nostri categorizzandoli attraverso la nostra mente. Se c’è errore, se c’è menzogna nella verità che assumiamo, l’inganno parte da lì: da questa trascendenza che pur se fuori da noi ritorna a noi divenendo nostra. Gli strumenti che si hanno a disposizione per difenderci dalla trascendenza provengono sempre dal linguaggio. Il nostro linguaggio è ciò che noi siamo, si è strutturato nel tempo ed è divenuto la nostra mente. Come non possiamo uscire dal corpo, allo stesso modo non possiamo uscire dal linguaggio. Corpo, mente e linguaggio non possono che essere considerati un unicum imprescindibile, ineludibile. Ma quando questo corpomente2 linguistico sta muovendo i primi passi nel mondo in cui si trova immerso – mi riferisco all’adolescente, al fanciullo di oggi e non all’adulto che stagna nell’infantilismo o in un’ignoranza senza scampo – scopre che quest’epoca gli ha – “proposto (?)” – propinato due mondi: uno virtuale e uno reale. E non si tratta certo della favola di cui parlava Nietzsche, qui i vecchi valori non ci sono più: lo spazio vuoto non ha visto l’arrivo di nessun ‘fanciullo’ pronto a rimpiazzare il vecchio col nuovo. Siamo rimasti leoni, abbiamo spazzato il “Tu devi” con un “Io voglio” che non sa realmente che cosa in verità voglia. Così il nostro fanciullo – che per ben intenderci non è quello nietzscheano, ma quello a cui noi adulti avremmo dovuto indicare nuovi possibili orizzonti – crede di vivere nel mondo vero mentre si muove in quello dei social. E sempre più spesso il social è il ragno della ragnatela che divorerà il nostro fanciullino. È un male il Web? Tutto può essere un male, persino uno scambio epistolare in cui il postino farà da garante del passaggio. Il male dei social è invece l’assenza d’essere: il linguaggio che rinuncia al corpomente, credendo nella sua semplice presenza dietro un monitor. Gli adulti dovrebbero esserne consapevoli e in grado di difendersi dall’inganno e dalle possibili errate interpretazioni che il linguaggio genera, se non lo sono, comunque hanno le armi per farlo in un secondo tempo; i fanciulli sono disarmati. Del tutto.

Li chiamano haters coloro che vivacchiano nel desiderio di uccidere con le parole, di far del male con le parole. Lo chiamano cyberbullismo questo indegno spettacolo in cui i nostri fanciulli sono le vittime di una virtualità iper-reale, iper-comunicativa, mentre noi rimaniamo spettatori inermi. Il ragno si avvicina e il nostro fanciullo è incollato nella trama, non riesce a muoversi e più ci tenta più la ragnatela lo avviluppa, lo avvolge, lo rende bozzolo di se stesso. A volte lo uccide.

«Ho 16 anni. Due anni fa, quando ne avevo 14, un ragazzo decise che io non ero degna di essere trattata come una persona, ma come un oggetto. Ancora oggi mi sento in colpa. Mi sento in colpa per qualcosa che ha fatto lui, che ha deciso lui. E lui ha deciso che io meritavo di essere distrutta. Perché questo mi ha fatto. Mi ha distrutta. Avevo solo 14 anni e lui, 4 anni più grande, mi ha completamente strappato via la dignità, i miei diritti, la mia felicità, la mia salute mentale, la mia serenità»3.

A volte, il nostro fanciullo riesce a salvarsi. Il brano è tratto dalla memoria che una ragazza (una delle tante che sono cadute nella tela del ragno), G. – così la chiamerò da qui in poi – ha voluto scrivere per il PM che durante la prima udienza preliminare avrebbe chiesto la condanna per l’imputato (anch’egli minorenne, ma soltanto per quattro miserabili giorni). Il quasi diciottenne, oggi ventenne, è stato individuato grazie alla denuncia dei genitori di G. alla Polizia Postale che ha compiuto un ottimo lavoro.

«Sembra una cosa da poco, perché effettivamente io sono ancora qui, a parlare, viva. Ma sono viva per miracolo. La mia depressione, i miei disturbi alimentari, la mia ansia e i miei attacchi di panico, non sono ancora spariti. Sono davvero tanto stanca. Stanca, delusa, arrabbiata, esausta. Dopo due anni ancora il senso di colpa non sparisce, insieme all’imbarazzo e alla vergogna. Ma perché dovrei sentirmi colpevole io? Per caso quando un ladro entra in casa vostra e vi ruba i gioielli voi vi sentite colpevoli per averli comprati o per non averli nascosti meglio?».

Ed ecco la storia. G. si iscrive in un social e conosce un ragazzo. Bello come il sole, pronto ad aiutarla nelle sue fragilità. Il linguaggio fa il resto: carpisce la sua fiducia, riesce a farla aprire per la prima volta alle «cose dell’amore», le fa credere nella verità di uno scambio puro, onesto, sincero, autentico. Lui mente. Ma la sua mente sa di mentire. Non c’è nessun’antinomia, nessuna fallacia della ragione. Il corpomente di quel ragazzo non esiste: ha sottratto l’identità a un altro. G. si innamora di una voce, di un linguaggio, di un sogno. Il mondo reale non l’aiuta. Non ci sono appigli che possano superare la bellezza che crede di aver trovato. È un rifugio dal mondo vero, anzi. Un paradisiaco rifugio. Il linguaggio la irretisce, non le importa il fatto di aver sentito sempre e soltanto la sua voce, di aver visto di lui soltanto fotografie. Il linguaggio costruisce l’intero corpomente di un essere inesistente in realtà: la sua mente crede in quella verità e presto crederà nel suo opposto.

«Uscire dal linguaggio però non è possibile, in quanto siamo sempre giàsituati in esso, nella sua rete, nella sua trama. Nel momento in cui si affronta un problema di incertezza linguistica, in quel momento siamo già nel linguaggio e nell’impossibilità di prescindere da esso»4, sostiene Carla Amadio riflettendo su Derrida. L’incertezza che il linguaggio genera è un evento da cui non possiamo fuggire e che decidiamo di svuotare dal dubbio dando un senso che chiamiamo verità. Fuori dal testo nulla esiste e la trama dei social sta proprio in questo evento demoniaco che ha permesso di scindere l’inscindibile: ha separato il corpomente dal linguaggio.

Per G. quel sogno non tarda a divenire incubo. Quando scopre che si tratta di un fake, che tutto è falso, è troppo tardi. Lui l’aveva data in pasto ad altri ragni: pubblica le sue foto sottraendole l’account – scrivendo che aveva dodici anni (perché lui ben sa che attirerà tutti i pedofili che godono di questo nuovo mondo, che consegna loro senza sforzo milioni di vittime) – con il suo numero di cellulare, il suo nome e cognome, e la richiesta volutamente sensuale di contattarla. G. comincia a ricevere centinaia di notifiche e di messaggi sui social e sul cellulare. Per giorni la tormentano in centinaia. Il suo mondo sociale reale è anche quello distrutto. Tutti sanno.

«X mi chiamò su Skype insieme ad un suo amico. Mi insultavano e ridevano, mi prendevano in giro. Io piangevo disperata e gli chiedevo scusa qualunque cosa avessi fatto. Continuavo a scusarmi e a giustificarmi. Loro due dicevano che […] comunque tutti sapevano che ero solo una cagna […]. Io continuai comunque a supplicarli mentre loro si prendevano gioco di me. […] Intanto mi dicevano che se non gli avessi inviato foto sconce o video in cui mi toccavo e altro lui avrebbe continuato […]. Lo bloccai, mi cancellai da (nome di un social), da (nome di un social), cambiai pure e-mail. Provai di tutto».

G., avviluppata al centro di quella ragnatela, decide dapprima di lasciarsi andare: prova a bere la candeggina, prova ad assumere un mix di farmaci, ma rimane in vita.

«Lui continuava a ricattarmi e quindi non ce la feci più, volevo morire. Volevo sparire dalla faccia della terra. Alla fine capii che dovevo dirlo a qualcuno».

Scatta la denuncia dei genitori di G. La Polizia Postale riesce nella sua opera. Lo individua. Il PM indaga e lo rinvia a giudizio. Finalmente arriva il giorno dell’udienza e il Tribunale dei minorenni condanna l’imputato alla “messa alla prova”. Durante l’udienza, la madre di G. mi racconta che il giudice domanda all’imputato se è disposto a chiedere scusa a G.: Ma certo!, risponde ben convinto l’imputato. Il problema arriva quando il presidente si rivolge a G. e le chiede se vuole accettare le scuse stringendo la mano dell’imputato. Lei tentenna. Non conosce quel ventenne. Non l’ha mai visto. La sua voce non è più la stessa ora che appartiene a quel corpomente. Continua a guardare impaurita. Si gira. Riguarda i giudici davanti a lei. Non le arrivano segnali né dalla madre che le sta accanto né dall’avvocato (nessuno di loro due può parlare). La decisione è sua. Si alza. Si strofina le mani sui pantaloni. Vacilla. Si rigira verso la madre, verso il PM che la osserva, verso il suo avvocato. Come un animale che va al macello si incammina, va verso quello sconosciuto e stringe la mano del piccolo uomo che ha fatto la “bravata” e che lo Stato aiuterà a redimersi. Quando G. sta per uscire, dopo la sentenza, il presidente la chiama e le dice che per quanto loro siano lì per permettere a chi ha commesso il danno di riprendere la via della giustizia (sic!), hanno cura anche per la vittima. G. fa un cenno con la testa ed esce dall’aula. Non ci crede lei e non ci crede neanche la madre che le sta accanto. I giudici non hanno letto le prove e la memoria e le dichiarazioni degli specialisti della “parte offesa”. Il PM ha messo sul loro tavolo il fascicolo soltanto in quel momento. Ma chi ha pagato per psichiatri e psicoterapeuti, chi per gli anni di dolore, chi per il Disturbo Depressivo reattivo, chi per i farmaci, chi per i problemi alimentari, chi per il cattivo andamento scolastico, chi per le lacrime, chi per l’autolesionismo di G.? Lo Stato provvederà a far seguire l’imputato da un terapeuta. Lo Stato ha però dimenticato G. Nel Tribunale dei minorenni la parte offesa non può costituirsi parte civile: fa la “parte” e basta, come tutti del resto. Come credere a quelle parole, dunque? La madre mostra il braccio di G. al proprio avvocato: è segnato a sangue dalle unghiate che G. si è autoinflitta per poter stringere la mano all’ormai ventenne condannato al nulla. Il problema è risolto per la giustizia. Il colpevole ha capito e la vittima è soddisfatta. Durante l’udienza preliminare, i genitori e l’avvocato della “persona offesa” non possono parlare. La madre, infatti, è stata rimproverata perché ha tentato di accennare a un no deciso quando il genitore del condannato ha preso la parola e si è profuso in parole di sincero dispiacere per la ragazza e per la famiglia a causa della “bravata” del figlio. Il PM, che ha ripreso la madre quando ha tentato di rifiutare le scuse del genitore dell’imputato, in seguito le dirà di capire quel che sta provando. Eh, no che non capisce, cara la mia PM, le risponde in lacrime la madre.

«Dovevo ancora finire scuola e quindi feci l’ultimo sforzo fino a giugno e poi smisi. Non provavo più nulla. Ero senza cellulare. Non volevo parlare più con nessuno. Non volevo più vedere nessuno. Stetti 3 mesi chiusa nella mia camera, al buio con le serrande sempre chiuse. Non provavo nulla e allo stesso tempo piangevo dal dolore incessante. Non mi lavavo, non mi cambiavo. Avevo paura ad uscire di casa. Avevo la paranoia costante. Quel pensiero di farla finita era sempre fisso nella mia testa. Non facevo altro che dormire e piangere. A voi può sembrare esagerata come reazione, ma mentalmente ero distrutta. Avevo solo 14 anni. Non avevo il supporto di nessuno. Più stavo nella mia stanza più stavo male, perché, ancora oggi, ogni passo che faccio in camera mia, ogni mobile che guardo, mi ricorda quel periodo. Quando ero sul mio letto e scoprii che aveva postato le foto. Quando stavo studiando sulla mia scrivania e vidi che lo aveva rifatto. Quando ero seduta vicino al comodino e lo pregavo piangendo di smetterla. Quando ero per terra vicino alla mia finestra e piangevo disperata pensando a come finirla. Quando ero vicino alla porta e chiudevo a chiave perché non volevo vedere né sentire nessuno. Pure il mio armadio porta brutti ricordi. Mi nascondevo lì dentro quando dovevo piangere ed ero spaventata, perché anche solo guardarmi allo specchio mi faceva schifo, e allora preferivo il buio, in cui io non potevo vedere gli altri e gli altri non potevano vedere me. […] Una sera presi tutti i sonniferi che aveva mia mamma, più di 12. […] Sono viva per miracolo. […] Iniziò la scuola ed ero completamente apatica. Non mi interessava di nulla. Prendevo sempre insufficienze e a scuola dormivo e basta. […] Pensai allora che tutti sarebbero stati meglio senza di me. E quel pensiero allora non lasciava la mia testa. Provai ancora una volta a farla finita. E poi semplicemente continuai a vivere solo perché ormai ero lì e non potevo fare altrimenti. Andavo a dormire e speravo di non svegliarmi. Ogni mattina per me era una delusione. Persi tutti gli amici che avevo. Quindi sparì anche il mio unico motivo per andare a scuola. Tutto questo per colpa di quella persona. Di quel ragazzo. XX [nome del condannato, ndr]. Che mi privò di tutto. Dopo più di un anno di lavoro su me stessa sono migliorata. Perché la mia famiglia mi è vicina […]. Ora prendo un antidepressivo e già cominciavo a sentirmi meglio, finché stamattina non sono arrivati i carabinieri a casa mia [per notificarle l’udienza preliminare, ndr]. Volevo sprofondare. Per me ora è iniziato tutto di nuovo da capo e mi fa solo stare male. Voglio solo che tutto ciò finisca. Non ci voglio pensare, ma devo. Io non gliela voglio dare vinta».

Una piccola donna che tuona pur avendo ancora il caos dentro di sé. Che cosa si può apprezzare di più nella vita? Questa è potenza della volontà, questo è un ergersi al di sopra del gregge dalla mente mediocre. «Io vi dico: bisogna aver ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante»5.

Socialmente siamo un disastro noi adulti e questa simil-giustizia riparativa riprepara al misfatto: alla mente che mente. Sappiamo infatti che qualunque social mente perché consente di scindere l’inscindibile – linguaggio e corpomente – illudendo molti di noi ad assumere per vera un’iper-interpretazione i cui contenuti sensibili provengono da Οὐτοπεία che i più fragili credono trattarsi di Εὐτοπεία6.

Ma da maggio sarà applicato il nuovo regolamento europeo: “Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)”7. Adesso siamo salvi. Lo spazio nientificato dal leone sarà ben recintato dai nuovi valori che salveranno il mondo reale e le tante G. che si troveranno domani a dover stringere la mano del criminale di turno che ha strappato loro la fanciullezza. E noi adulti salveremo di nuovo il colpevole, mentre la vittima pagherà con un danno permanente alla sua vita. Social-mente l’adulto mente sapendo di mentire. Ritorniamo al “Tu devi”. Meglio cammelli che adulti buonisti, mammisti, che si spacciano per leoni per far spazio al fanciullo-fake. Social-mente l’unica speranza che rimane per normare il mondo virtuale non è un nuovo diritto positivo né di questa né della precedente generazione, ma sono i fanciulli come G. che hanno il coraggio di dire di sì alla vita, dopo il no al “Tu devi” di draghi e di falsi idoli, dopo l“Io voglio” che spazza la radura dalla bruttezza di erbacce inutili; che seguono la necessità della vita denunciando col linguaggio scritto e orale per mettere in guardia gli altri fanciulli -veri- che riempiranno lo spazio annichilito.

«Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo?

Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì.

Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suomondo.

Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo»8.

Questi sono i miei eroi, questi i miei modelli. Io voglio farmi rapire dall’ultraumanità del fanciullo. Gli altri, che guardano senza far nulla, che osservano senza opporre una sana ribellione, che salvano dimenticando l’innocente, fanno parte di una modernità di mediocri: gente rassegnata che si adatta, che giustifica assolve dimentica compatisce scusa accetta tollera subisce sopporta. Gente, insomma, che batte bandiera bianca di fronte a un esercito selvaggio di fanciulli-fake, adulti o minorenni che siano. Il fanciullo-oltreuomo è altro: è colui che dal caos sa partorire una stella danzante. È G.

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Note

1 A. G. Biuso, «Mente», in AA.VV. Dizionario di Bioetica, a cura di G. Vittone, Villaggio Maori Edizioni, Catania 2012, p. 230.

2 Il neologismo “corpomente” è di Alberto Giovanni Biuso e si trova per la prima volta in: La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci, Roma 2009. Anche il rapporto inscindibile tra corpo, mente e linguaggio è argomentato nello stesso saggio (ripreso peraltro anche in quelli successivi): «In particolare il linguaggio rende possibile la mente e non il contrario. La possibilità di rappresentarci il mondo e di autorappresentarci dipende infatti dal linguaggio, la cui struttura è totalmente immersa nella temporalità, nel divenire del racconto che la mente narra a se stessa. Anche gli animali non umani possiedono una mente, poiché sanno far uso di particolari segni per comunicare. La differenza – fondamentale – con l’uomo consiste nel fatto che la nostra specie non usa segni solo per trasmettere percezioni, impressioni e sensazioni ma pensadirettamente con le parole. L’insieme degli atti somato-mentali si esprime infatti nel linguaggio, che è dunque una forma primaria dell’abitare umano, e produce significati. È sempre il corpo che parla e che pensa. Non si danno prima pensieri chiaramente formulati e poi la loro espressione linguistica» (pp. 65-66).

3 Ringrazio la madre e il padre di G. per avermi permesso di raccontare la storia che li ha coinvolti e di usare i brani della memoria di G. Ma ringrazio soprattutto la coraggiosa e incantevole G. per il permesso che, in primis, lei stessa mi ha concesso dichiarandosi addirittura grata per lo sforzo da me compiuto nel tentativo di diffondere il suo messaggio. Chi volesse comunicare con i suoi genitori e, per il loro tramite, con G., può scrivere al mio indirizzo di posta elettronica: giusyrandazzo@vitapensata.eu.

4 C. Amadio, Il tempo dell’altro in J. Derrida, G. Giappichelli Editore, Torino 2012, p. 146.

5 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen), a cura di G. Colli e M. Montinari,Adelphi, Milano 2008, «Prologo di Zarathustra, § 5», p. 10.

6 Il neologismo Utopia di Thomas More ha lasciato sempre in dubbio per la doppia traduzione che la latinizzazione dal greco poteva dar luogo: Οὐτοπεία o Εὐτοπεία. Nel primo caso la U può essere considerata la contrazione del prefisso οὐ -non- e dunque significare “non-luogo” o “luogo immaginario”; nel secondo caso la stessa U potrebbe essere riprendere il prefisso greco εὐ che significa bene, da cui il senso dell’Utopia moreana intesa come “ottimo luogo”. Talvolta, però, lo stesso suffisso viene usato nel senso di vero. Questo è il significato che qui intendo dare a Εὐτοπεία: “luogo vero”, pur essendo non vero, immaginario.

7 È interessante notare nello stesso Regolamento l’incoerenza dell’articolo 8 – relativo alle “Condizioni applicabili al consenso dei minori in relazione ai servizi della società dell’informazione”- nel paragrafo 1 con l’aggiunta relativa alle possibilità degli Stati membri: “1. Qualora si applichi l’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), per quanto riguarda l’offerta diretta di servizi della società dell’informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. 

Gli Stati membri possono stabilire per legge un’età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni” (il corsivo è mio).

8 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., parte I, «Delle tre metamorfosi», pp. 24-25.

 

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