All’insegna dell’Uomo Armato

Di: Giuseppe O. Longo
8 Marzo 2011

Per condurre l’inchiesta ho ritenuto opportuno trasferirmi nella locanda, dove occupo una comoda stanza del secondo piano. La stanza si affaccia su un vicolo stretto, dal fondo acciottolato. Proprio di fronte, attraverso la finestra, vedo il campanile della Cattedrale, col grande orologio policromo; più a sinistra si stende l’imponente fiancata della chiesa, mossa da finestroni, statue di angeli e santi, archi dentellati e lesene di bionda arenaria. In alto si apre un breve tratto di cielo.

Qui, nella mia stanza, ricevo i testimoni: quelli che ho convocato io e altri, volontari, che ritengono di potermi dare qualche notizia sullo scomparso. L’inchiesta dura ormai da molti anni, e tuttavia non mi sembra che sia ancora giunta a qualche conclusione definitiva.

L’ostessa, che sulle prime era molto diffidente nei confronti di questa mia attività, si è abituata da tempo all’andirivieni dei testimoni e non protesta più quando chiedo alle serve di farmi qualche ambasciata o di andare a impostare una lettera o a comperare qualcuno dei robusti quaderni su cui, conclusa la giornata, trascrivo fino a notte i dialoghi coi testimoni. Anzi, la sera, quando tutti gli altri ospiti si sono ritirati nelle loro stanze, l’ostessa viene a trovarmi. Bussa discretamente all’uscio, e senza aspettare risposta lo socchiude; prima infila cauta la testa e poi, aprendo decisa, s’introduce nella stanza con tutta la sua mole imponente. Richiude piano la porta alle sue spalle e resta lì un momento, come per orientarsi o per controllare che tutto sia a posto: poi avanza, entrando nel cerchio di luce proiettato dalla lampada a braccio sotto la quale lavoro. È in quel momento che dal campanile di fronte giunge il suono dell’ora: dieci rintocchi profondi, lentissimi, che ascoltiamo entrambi in un’immobilità assorta, quasi rituale.

Come ho detto, la stanza è vasta e comoda, i mobili sono antichi e robusti, di legno massiccio. Oltre al letto vi sono alcuni tavoli di varie dimensioni, un vasto canterano con quattro cassetti, un armadio che occupa metà di una parete, presso la finestra, un bel lavabo di maiolica bianca, alcune sedie e tre poltrone di foggia, imbottitura e dimensioni diverse, che dànno a chi vi si siede sensazioni e comodità del pari diverse. Ai muri sono appesi quadri, per lo più nature morte e paesaggi agresti e collinari, che la patina del tempo ha reso quasi indecifrabili, la fotografia di un’alta montagna, forse una cima alpina, e un pesante attaccapanni di quercia. Sopra il lavabo troneggia un grande specchio dalla cornice di legno sobriamente intagliata. Dalle finestre pendono ricche tende di mussola, che però io tengo sempre scostate, perché mi piace vedere l’orologio del campanile e il moto incessante delle sue sfere.

L’ostessa siede sempre sulla medesima poltrona, quella con la fodera di raso giallo operato, consunta ma sempre dignitosa, la poltrona dove, durante il giorno, si sono seduti i testimoni. Mi porta ogni volta qualche piccolezza: un frutto, una fetta di torta (le torte, buonissime, le fa lei, con le sue mani bianche e forti, arrotolandosi le maniche fino al gomito e scoprendo i robusti avambracci, ben piantata davanti al tagliere, bilanciata dal contrappeso dei suoi fianchi badiali da cui scende il ricco drappeggio di una sottana a pieghe di foggia antica). Ancora sotto la malia dei rintocchi, restiamo un po’ in silenzio; poi lei comincia a chiedermi dell’inchiesta:

– Ci sono progressi?

Io faccio un gesto vago e, all’inizio, le do sempre risposte evasive:

– Sì, qualcosa si muove… forse dopodomani sentirò un teste importante, un compagno di scuola che sono riuscito a trovare a Voitsberg tre anni fa.

Lei si meraviglia:

– Come, non l’aveva ancora convocato?

– Sì, – dico io, – ma si è giustificato a lungo… la madre anziana, che vive a Knittelfeld e che è stata molto malata, poi un matrimonio di sua sorella a Judenburg, poi una malattia di lui… dopodomani, finalmente, sembra che verrà…

L’ostessa sta seduta sui suoi fianchi larghissimi, le braccia adagiate sulle cosce monumentali; dalla pesante sottana scura, ricamata a fiori alla moda transilvanica, spuntano solo le punte rosse delle pianelle di stoffa, come due linguettine gemelle che sarebbero anche un po’ indecenti se non fosse che se ne stanno assolutamente immobili, cercando di passare inosservate.

Mi alzo, prendo la fetta di crostata che mi ha portato su un piattino di porcellana azzurra, finissima, quasi trasparente, e comincio a mangiarla (questi piccoli doni, naturalmente, non me li mette in conto: del resto la pago puntualmente e con generosità e largheggio anche nelle mance con le fantesche). Poi, sempre masticando e assaporando questa pasta croccante e odorosa, insaporita da una marmellata scura, asprigna e consistente, vado all’armadio, ne estraggo una bottiglia di barack pálinka e due bicchierini, minuscoli come ditali. Sotto gli occhi subito vigili e luccicanti della donna li riempio; con infinita cautela, per non farlo traboccare, gliene porgo uno, alzo l’altro in un gesto augurale e mormorando egészségedre tracanno la pálinka d’un fiato. Anche lei, abbandonando per un attimo la sua matronale compostezza, dice salute e beve, golosa; poi fa con la lingua un rumore schioccante, anzi non proprio schioccante, bensì lappante, e se la passa due o tre volte sulle labbra, che ha rilevate, unite, d’un rosso cupo quasi vinoso, ombreggiate da una peluria fitta e robusta che potrebbe anche essere un bel paio di mustacchi se non fosse per la circostante dolcezza, soffusa nell’ovale perfetto e florido del viso.

– E i testimoni di oggi, – mi chiede appoggiando il bicchierino sul tavolo, – che cosa Le hanno rivelato?

– Nulla d’importante, – rispondo, mentre un liquido benessere mi s’irradia dal plesso solare in tutte le direzioni, – nulla che non sapessi già, se non fosse…

– Se non fosse?… – mi fa eco lei, con uno scatto minimo ma deciso del capo, lo sguardo subito attento – Se non fosse?…

– Sì, – riprendo, – una vecchia, che aveva conosciuto Meyer da bambino, a Mistelbach e che aveva per un certo periodo frequentato la sua casa come donna di servizio, ha dichiarato che c’era una sorella, più piccola di un paio d’anni, una certa Annelise, o Liselotte, non ricorda bene.

– Una sorella? – l’ostessa è stupita. – Finora tutti i testimoni che avevano toccato questo punto avevano dichiarato che Meyer era figlio unico. Aveva invece due cugine, Anna e Ingeborg (???)…

L’ostessa ha una memoria formidabile, ricorda tutto ciò che le dico, incasella dati e notizie in un suo interno deposito mnestico e non tralascia di aggiornare questo cumulo di notizie eterogenee e spesso contrastanti ogni volta che le rivelo nuovi particolari: cataloga le informazioni, le allinea per concordanze e per opposizioni, le ordina secondo il grado di attendibilità. Queste sue doti memoriose mi sono utili, e talvolta la convoco durante la giornata, a metà di un interrogatorio, per farmi ripetere un particolare o per farmi recitare una deposizione passata che non ho voglia di controllare sui miei quaderni.

– … Anna, – continua intando la donna, con gli occhi socchiusi come se recitasse una lezione, – più vecchia di lui di tre anni e sei mesi, ha studiato al Conservatorio di Salisburgo, diplomandosi a diciotto anni in violino. Ora ha cinquantatrè anni, è sposata con un commerciante, non ha figli, e insegna ancora composizione e contrappunto nello stesso Conservatorio. Ingeborg invece è più giovane di un anno e due mesi…

– Sì, sì, – la interrompo con un lieve moto d’impazienza, – adesso invece salta fuori questa sorella… Bisognerà indagare sul suo conto, anzi bisognerà prima accertarsi che la notizia sia vera. La testimone era volontaria, non aveva nessun motivo per mentire… e poi non aveva l’aria d’un’esaltata… Però può darsi che si confonda, che abbia preso Ingeborg per la sorella di Otto… Molti hanno affermato che da piccole le cugine frequentavano molto casa Meyer, prima che la famiglia si trasferisse a Eisenerz…

Fuori, nel vicolo, il silenzio è assoluto. Attraverso la finestra, dalla mia poltrona, vedo uno spicchio di cielo con una luna infoscata che appare e scompare dietro il galoppo incessante delle nubi. L’orologio, il cui quadrante di maiolica policroma è rischiarato da quattro grandi torce, emette un ronzio trattenuto e possente, poi comincia a battere le undici.

Mi guardo intorno: la stanza è ampia, comoda, è la più bella dell'”Uomo Armato”. L’ostessa me l’ha ceduta dopo avermi fatto alloggiare per qualche tempo in altre camere, più buie e anguste. All’inizio, una decina d’anni fa, dormivo addirittura in una specie di sottoscala, dove a malapena stava il letto, che sporgeva infatti nel corridoio impedendo alla porta di chiudersi del tutto, con una finestrina inferriata lassù in alto che dava su un fetido cortile interno. Poi, con una graduale ascesa che rispecchiava il progresso che venivo facendo nella considerazione dell’ostessa, sono passato, sempre al piano terreno, in una stanza vera, piccola ma dignitosa e dotata di una finestra normale; poi in una, più grande e comoda, del primo piano, che dava però sempre sul cortile; infine ho abitato una dopo l’altra tre stanze del secondo, chiare e ariose, affacciate sul vicolo, per approdare da ultimo a questa, dalla quale, così sembra, non mi sposterò più, fino al termine di questa inchiesta. Ammesso che l’inchiesta abbia termine.

* * *

Certe notti le nubi s’ispessiscono, ricoprono tutto il cielo e sembrano perciò immobili, ma certo continuano a correre verso albe e tramonti lontani: il loro moto è solo mascherato da quella compattezza unita, sulla quale la città immensa proietta un fantasma di sè stessa, etereo e rossastro, generato dalle migliaia e migliaia di lampioni che ardono sfrigolando sommessi fino a quando, nelle ore più mute e gelide della notte, non abbiano esaurito la loro riserva di combustibile. Dalla finestra guardo l’orologio della Cattedrale: con le loro posizioni rigide e angolose, le grandi sfere ieratiche sembrano indicare anni e luoghi remoti, le foreste ondulate della Stiria, i monti coperti dagli abeti gelati sotto la luna, a schiere innumerevoli e compatte dentro la quiete suprema della notte assiderata.

Mi riscuoto: nella camera fa freddo, la stufa è spenta da un pezzo; l’ostessa è andata via poco fa, in silenzio, per non disturbare le mie fantasticherie, lasciandosi dietro il suo composito odore di lavanda, di ascelle, di talco, di miele e di farina, una mistura solleticante di aromi persistenti e felici, che l’accompagnano e l’avvolgno, annunciandone l’arrivo e prolungandone la presenza. A volte, quasi eccitata da questo afrore, o dalle componenti più intime e corporee di esso, mi nasce una curiosità incoercibile e morbosa di sapere com’è il corpo dell’ostessa sotto i suoi ampi vestiti, specie sotto quella larghissima sottana a pieghe pesanti che nasconde le sue cosce forti, colonnari, certo bianchissime, lisce e compatte, d’una levigatezza marmorea, ma di carne soda, cedevole e calda che dà un tuffo al cuore, cosce che altre più fonde e oscure e innominabili intimità nascondono a loro volta, di fronte alle quali anche la mia curiosità si arresta, in preda a un lieve turbamento tinto di disgusto e, spaventata dalla propria audacia, arretra come di fronte alla profanazione di un sentimento di nobile dignità, a un’offesa portata senza ragione a una persona ignara e fiduciosa… Il viso di questa donna imponente, del resto, con la sua dolcezza piena, ombrata di peluria, con le sue carnose pliche, gli occhi scuri e fondi, le orecchie fini, cesellate con delicatezza, sembra lontanissimo non soltanto dalle graveolenti curiosità che inquinano i miei pensieri, ma dalla stessa smisurata sovrabbondanza di quel corpo che le ha generate, nonostante quel corpo regga appunto quel viso e quella bella testa, quella massa di capelli ancora quasi tutti neri, lucidi e composti in un crocchio severo, tirato e minuscolo, che alla percussione dev’essere duro e sonoro come il legno.

* * *

I giorni di mercato, di mattina sospendo le udienze. Scendo nel vicolo a passeggiare tra le bancarelle, che come un mare irregolare riempiono tutte le stradine intorno alla Cattedrale. Vi si vende di tutto: pentole, padelle, vasellame, coperte trapunte, pannilani e broccati, mangimi e civaie, piante, cibi di ogni sorta e di ogni provenienza, dai grassi formaggi bavaresi alle salsicce di Debrecen ai sanguinacci di Köflach. E poi sementi, attrezzi e vesti: sciarpe, brache e camiciotti, berretti di stoffa e di pelo, gabbani, spolverine, farsetti e palandrane; e poi armi per la caccia, strumenti musicali, dai violini fulvi agli organetti alle fisarmoniche italiane lucide di madreperla; e trappole di ogni forma e dimensione, tagliole e reti, uccelli vivi e impagliati, logori e richiami, esche e specchietti; calzature svariatissime: scarpe, stivali, zoccoli, ciabatte, pianelle e calosce; coltelli e forbici di Hodonin; saponi, profumi, distillati dall’odore penetrante e composito, che stordisce; pulcini, oche, anatre, conigli e financo porcellini vivi e rosei, eccitatissimi e strillanti. Un fiume ampio e largo di merci, strumenti, animali, stoviglie che straripa dalle bancarelle per invadere la via, infilarsi nei vicoli, negli anditi delle case, nei cortili, con lingue serpeggianti e inarrestabili.

Molti di quelli che in tempi più o meno recenti sono venuti nella mia stanza a deporre, incontrandomi al mercato mi riconoscono: mi rivolgono saluti ossequiosi e talora troppo ostentati. Queste vistose manifestazioni di deferenza mi sconcertano e un po’ anche m’imbarazzano, sicché non passa molto che torno alla locanda. Quando la porta a vetri, tintinnando leggermente, annuncia il mio ingresso, l’ostessa si affaccia dalla cucina e mi rivolge uno sguardo in cui si mescolano il sollievo per il mio ritorno da un mondo nel quale non può seguirmi e dove la sua autorità attenuata non potrebbe, all’occorrenza, offrirmi gran protezione, e il rimprovero per quelle mie rischiose sortite che, oltre a espormi a mille pericoli, non sono affatto utili al proseguimento dell’inchiesta, al cui esito positivo ella sembra tenere moltissimo.

Mi dirigo senza dir nulla verso la sala da pranzo, alla quale si accede dall’atrio scendendo due gradini. È un locale dal soffitto bassissimo, occupato quasi per intero da un enorme tavolo ovale coperto d’un panno damascato. Il tavolo, su cui per l’apparecchiatura viene stesa una tovaglia di candida tela, è circondato da dodici sedie, tanti quanti possono essere al massimo gli ospiti della locanda. Le sedie di destra sono addossate a una torreggiante stufa di maiolica, d’un verde che sfuma verso toni gialli e arancione; le sedie opposte all’ingresso sono schiacciate fra il tavolo e una monumentale credenza di legno scuro, quasi nero, che attraverso i suoi vetri molati e luccicanti lascia scorgere alcuni servizi di porcellana. Da quanto posso vedere, dovrebbe essere porcellana di Meissen, ma gli sportelli sono chiusi a chiave, i servizi non vengono mai usati e alle mie domande di esaminarli l’ostessa ha sempre risposto con dinieghi cortesi ma fermi.

Io ho sempre avuto un grande interesse, anzi una vera e propria passione per maioliche, ceramiche e porcellane, e davanti a quella vetrina che racchiude i servizi di Meissen, e anche se non fossero di Meissen quei colori delicati, quelle forme squisite sarebbero pur sempre un godimento per i miei occhi, davanti a quelle vetrine serrate mi viene sempre in mente una statuina di porcellana di Limoges che i miei genitori tenevano in camera da letto, sopra il cassettone, appoggiata su un centrino di pizzo bianco. Una coppia di figurine piene di grazia, vestite alla moda del Settecento, un cicisbeo che dà con galanteria un po’ leziosa il braccio a una damina imbellettata e sorridente, leggermente più alta di lui e che su di lui si piega con atto leggiadro, nascondendo parte del viso dietro un ventaglio bianco e vaporoso. L’ampia gonna della dama, di un sognante colore azzurro, gonfiata dalla crinolina, preme sulle gambe del suo damo, fasciate in un paio di lucidi stivali di morbida pelle dai quali escono gli attillati pantaloni d’un bianco immacolato. I visi delicati e coloriti, aggraziati e leggermente stupiti, gli occhi giovani, appena accennati, le bocche rosse, protese come in un bacio appena scambiato oppure inviato a un immaginario pubblico cui la coppia elargisca la propria garbata leggiadria…

Interrompe i miei ricordi l’arrivo, come sempre puntualissimo, degli altri commensali: un generale cieco che occupa l’unica camera del terzo piano, proprio sopra la mia, una maestra anziana e dagli occhi lacrimosi, col viso troppo incipriato e nota per la sua severità con gli scolari, una coppia polacca ancor giovane, che per via della lingua partecipa pochissimo alla vita di pensione, un facoltoso commerciante di Fürstenfeld che per ragioni che ignoro passa quasi tutto il suo tempo qui a Graz, tre pensionati, uno dei quali, quello dall’aria più misera e spaurita, che si rivolge sempre a tutti con piccoli inchini accattivanti, è stato alloggiato nel sottoscala che mi era stato assegnato al mio arrivo.

Il pasto si svolge in un’atmosfera familiare, che a me piace molto: si chiacchiera del più e del meno, il generale racconta qualche episodio della sua carriera, la maestra ci parla dei problemi che deve affrontare con i suoi bambini. Tutti sanno che io sto conducendo un’inchiesta sulla scomparsa di qualcuno, ma con grande discrezione nessuno accenna all’argomento: perciò i miei contributi alla conversazione si riducono a qualche battuta sul tempo o sulle cose che ho visto al mercato. Ogni tanto sulla porta della sala da pranzo si affaccia l’ostessa e controlla con un rapido sguardo severo che tutto proceda secondo le sue disposizioni. Via via che la cameriera porta in tavola le zuppiere fumanti e i piatti di portata, dalla mensa si leva una cortina densa di vapore, che dapprima si raccoglie sotto il soffitto bassissimo e poi comincia a scendere e a gonfiarsi, appannando i calici e le bottiglie, condensandosi sul lampadario di vetro di Boemia, e, da ultimo, offusca l’atmosfera e annebbia la vista, sicché mi diventa quasi impossibile scorgere i visi dei tre pensionati, che siedono di fronte a me, dall’altra parte della tavola sterminata.

In quest’atmosfera ovattata sembra che le parole non abbiano più importanza, sicché ciascuno dice quello che gli viene alle labbra, senza ascoltare troppo gli altri, ed entra in una confidente e ilare disposizione di benevolenza nei confronti dei commensali, delle cameriere, dell’ostessa e del mondo intero. Alzarsi da tavola e por fine a questa gioiosa e rarefatta esaltazione diventa difficile, ma bisogna pur riprendere l’inchiesta: il testimone di oggi mi attende già.

* * *

– … progetti veri e propri direi di no, ma ogni tanto parlava del suo desiderio di andare altrove…

– Dove, precisamente?

– Non so, non diceva niente di preciso, parlava ogni tanto di un viaggio o di uno spostamento progressivo verso occidente. Ma non so a che cosa pensasse… Non so se avesse in mente di andare in America, per esempio, o più semplicemente in Svizzera. Una volta mi aveva parlato della ferrovia del Gottardo, che sale a quote molto elevate, con svolte e risvolte faticose, lasciandosi ora a destra ora a sinistra una chiesa, che si vede dal treno sotto angoli diversi a ogni inversione di marcia, sempre più piccola, laggiù in fondo, tra le nevi…

– Torniamo a Meyer, se non Le dispiace. Voleva dunque andarsene, emigrare?

– No, non dico questo, non mi pare che abbia mai usato questa parola, ma sono passati molti anni e non ci giurerei… Mi è rimasta solo l’impressione, vaga ma inequivocabile, del suo desiderio di spostarsi a ovest, forse verso le montagne, forse verso Paesi più lontani ancora…

– E che altro ricorda, signor Schmuda?

– Che altro? A distanza di tanto tempo non si può ricordare molto… Ah, sì, una cosa ricordo, che mi è tornata alla mente quando un conoscente comune, poi deceduto, mi informò qualche anno fa della scomparsa di Meyer. Io l’avevo perso di vista, dopo la fine del liceo ci eravamo incontrati sì e no un paio di volte… sa, io mi ero trasferito a Voitsberg, lui invece era rimasto a Eisenerz…

– E di che cosa si è ricordato?

– Ecco, Meyer, due o tre volte, in occasione di passeggiate che facevamo ogni tanto la domenica, un gruppetto di noi compagni… insomma aveva detto che a quarant’anni la sua vita sarebbe cambiata… Le parole esatte non le ricordo, ma disse più o meno “qualunque cosa faccia, a quanrant’anni smetterò di farla e cambierò vita, comincerò a osservare dal di fuori la mia vita precedente” … o qualcosa del genere… Curioso come mi sia rimasto impresso questo particolare, credevo di averlo dimenticato.

– Interessante, direi, visto che Otto Meyer è scomparso proprio il giorno del suo quarantesimo compleanno… Voleva dunque osservare la sua vita precedente da un punto di vista esterno…

– Così disse, e lo ripetè in due o tre occasioni diverse.

– E senta, signor Schmuda, di carattere com’era Meyer, al liceo?

– Ah, era molto simpatico. Aveva un carattere allegro, non si offendeva mai, stava allo scherzo ed era sempre pronto a ridere e a scherzare.

– E nello studio come se la cavava?

– Be’, non era molto brillante, anzi direi che andava decisamente male. Specie in greco e in latino aveva molte difficoltà, meglio se la cavava in matematica.

– Grazie, signor Schmuda, la Sua deposizione è stata molto interessante. Un’ultima domanda, se permette, e poi avremo finito… Otto era figlio unico?

– No, aveva un fratello, maggiore di lui di quattro anni. Dopo la morte dei genitori gli fece quasi da padre. Problemi economici non ne avevano, perché avevano ereditato da una ricca zia, morta a Sopron quando Otto aveva appena cominciato il liceo. Della morte dei genitori Lei è certamente informato…

– Certamente…

– Comunque i due ragazzi, Karl e Otto, non ebbero vita facile, nonostante la loro agiatezza materiale…

La ringrazio, signor Schmuda, non ho altre domande da farLe. Lei è stato veramente molto cortese a venire fin qui per deporre.

* * *

– …no, non ho mai avuto occasione di lamentarmi del professor Meyer. Era molto scrupoloso e anzi, come insegnante di greco e di latino, era rispettato e oserei addirittura dire amato dai suoi allievi. I colleghi lo ammiravano non solo per le sue capacità didattiche, ma anche per la sua grande cultura generale… s’intendeva, e parecchio, di tutto. No, no, caro signore, del professor Meyer non c’era proprio da lamentarsi.

– Certo, capisco, professor Kusolitsch, ma non è solo questo che m’interessa… Vede, vorrei chiederLe se c’è qualche particolare, anche insignificante o del tutto trascurabile, che Lei possa riferirmi e che possa darmi qualche elemento per definire meglio la personalità dello scomparso… perché in fondo di questo si tratta, di definire la personalità del professor Otto Meyer… Lei, come preside del liceo imperialregio di Eisenerz, è certo al corrente di qualche particolare del genere…

– Guardi, davvero non ricordo nulla, e poi è passato tanto tempo, dieci anni, sì dieci anni…

– Per esempio, Lei era presente quando Meyer scomparve. Vuole descrivere in quali circostanze ciò accadde?

– Ebbene, scomparve il due marzo di dieci anni fa, oggi è il primo marzo, quindi domani saranno dieci anni esatti dalla sua scomparsa… La ricordo bene, questa data, perché era il giorno del suo quarantesimo compleanno… Noi colleghi gli avevamo preparato un piccolo rinfresco, nella saletta riservata ai professori, era una tradizione che aveva instaurato il mio predecessore, professor Jammer, e che io ho creduto di mantenere…

– Sì, professore, torniamo a Meyer.

– Ah, sì, certo… Dunque tutto era pronto per il festeggiamento, lui, cioè il professor Meyer terminava le lezioni del mattino alle dodici e noi, eravamo sei o sette, l’aspettavamo nella saletta, dove avevamo fatto apparecchiare un tavolo: due bottiglie di Riesling, qualche pasticcino e una Sachertorte con quattro candeline. A mezzogiorno e un minuto Meyer entrò, sorridente, elegante… era sempre molto elegante, vestiva all’ultima moda nonostante la modestia del suo stipendio, avevo sentito dire che era ricco di famiglia, doveva avere una rendita, oppure c’era stata un’eredità, che doveva essere pingue, perché anche divisa con le due sorelle… insomma, Meyer entrò, strinse la mano a tutti e poi, come ricordando qualcosa all’improvviso, disse “Scusatemi, torno subito…” e, sempre sorridendo, uscì. Da quel momento nessuno l’ha più visto, né vivo né morto.

– E loro, dico, i colleghi di Meyer, che cos’hanno fatto, che cos’hanno pensato?

– Be’, sulle prime abbiamo pensato che avesse dimenticato qualcosa. “I sigari”, disse il professor Strobel, l’insegnante di matematica, e in effetto Meyer, ogni tanto, ma solo nelle occasioni importanti e comunque mai in classe, Meyer fumava un sigaro. Erano sigari lunghi, abbastanza grossi, color paglia …

– Forse i Senator?

– Sì, proprio, li conosce anche Lei?

– Dunque qualcuno pensò ai sigari…

– Sì, qualcuno invece fece allusione a una necessità diversa, di carattere più … biologico. Io ricordo che pensai “Può darsi che voglia farci a sua volta un piccolo regalo”, non sarebbe stata la prima volta, Meyer poteva permetterselo… Ma il tempo passava e lui non tornava, cominciammo a preoccuparci, andammo naturalmente in giro per la scuola, magari, pensavamo, si è sentito male… niente. Dopo un’ora, molto sconcertati dovemmo concludere che Meyer se n’era andato e che al festeggiamento mancava l’ospite d’onore. Perciò ce ne tornammo a casa…

– E dopo, voglio dire, i giorni seguenti?

– Be’, la sua scomparsa mi procurò non pochi problemi: sostituirlo non fu facile, e dovetti io stesso, per un mese, far lezione nelle sue classi, fino all’arrivo del supplente, il professor Altendorf. Dopo un paio di giorni dalla sua scomparsa le sorelle denunciarono la cosa alla polizia, fu molto imbarazzante, sa, una famiglia molto in vista a Eisenerz….

– Lei, professor Kusolitsch, ricorda i nomi delle sorelle del professor Meyer?

– Certo: una si chiamava, cioè si chiama, Waltraut e l’altra Isabel.

– Grazie, la Sua deposizione mi è stata di grande utilità. Mi può ancora dire, scusi, com’era il professor Meyer, voglio dire, di carattere? Allegro, chiuso, condiscendente, superbo?

– Di carattere?… Che Le posso dire, era… era un po’ chiuso, non dava molta confidenza, benché fosse sempre correttissimo, anzi alcuni colleghi dicevano che era un po’ orso, mi scusi il termine… Sì, Meyer aveva un carattere cupo, quasi tetro, amava la solitudine e noi ne avevamo soggezione. Anche i suoi sorrisi, che dispensava con prodigalità, non erano certo cordiali, c’era in essi qualcosa di lontano… d’impassibile, ecco il termine, una fissità impassibile… Del resto, anche il fatto che non si sia mai sposato…

– Grazie… E, per caso, non ha forse qualche fotografia di Meyer?

– Sì, immaginavo che potessero esserLe utili per la Sua inchiesta, perciò Le ho portato le due fotografie che posseggo di lui… Eccole. Una è una foto di gruppo, scattata coi suoi allievi dell’ultima classe, nella primavera dell’anno precedente la sua scomparsa. L’altra fu scattata qualche anno prima, durante una gita nell’Hochschwab. Ci sono anch’io, con l’insegnante di chimica e con quello di filosofia. Le può tenere, se vuole.

– Grazie, professor Kusolitsch, queste foto mi saranno di estrema utilità… Lei ha parlato poco fa di due sorelle… Molti altri testimoni hanno parlato di due cugine che Meyer avrebbe avuto… È sicuro che fossero sorelle, Waltraut e Isabel? Non si trattava forse di cugine?

– No, certamente no. Erano sorelle, le conoscevo benissimo e le vedevo, sia pur di rado… No, erano certamente le sorelle del professor Meyer.

* * *

Ho appena finito di trascrivere sul quaderno il colloquio con il professor Kusolitsch quando l’ostessa viene a trovarmi. Le parlo della deposizione del preside.

– Gli ha chiesto se Meyer era ungherese?

– No, – dico io, – avrei dovuto?

– Secondo alcuni testimoni, – dice lei, socchiudendo gli occhi e inclinando la testa un po’ di lato, ma conservando nel resto del suo corpo piramidale un’immoblità assoluta, – secondo alcuni testimoni, ogni tanto Meyer diceva qualche parola in una lingua straniera che, ragionando per esclusione, non poteva che essere ungherese. Un testimone ha addirittura dichiarato che Otto Meyer in realtà si chiamava Száz Csaba… Ora, se questo è vero, il preside del suo liceo lo avrà certamente udito pronunciare qualche parola ungherese, forse era al corrente di questa faccenda…

– Sì, – dico stancamente, – è vero.. Ma non gliel’ho chiesto e ormai a quest’ora il professor Kusolitsch è sul treno che lo riporta a Eisenerz.

Dopo una pausa, come a scusarmi, soggiungo:

– Però mi ha dato due fotografie di Meyer.

Mi alzo, le estraggo da un cassetto del canterano e gliele porgo. Io ho passato un’ora intera, nel pomeriggio, dopo la partenza di Kusolitsch, a osservarle. Nella foto ricordo con gli allievi si vede un uomo alto, pallido, magro, vestito in modo trasandato, con gli occhiali rotondi cerchiati di nero. Gli allievi che gli sono accanto sembrano fieri di quella vicinanza. Del resto quel viso pallido, senza barba, che emerge dal bianco colletto rigido emana un fascino sottile che la distanza da cui la foto è stata presa attenua ma non cancella. Nell’altra fotografia Meyer è ritratto con tre colleghi, in uno dei quali si riconosce subito, nonostante la dozzina d’ anni che sono passati, il preside professor Kusolitsch. La foto mostra l’abito e il viso di Meyer in ogni particolare: anche qui è vestito in modo goffo e trasandato, senz’alcuna eleganza. Lo stesso viso pallido, un po’ incavato, gli occhi scuri e leggermente sporgenti dietro gli occhiali tondi, cerchiati di nero, la fronte alta, i capelli tagliati piuttosto corti, quasi a spazzola. La bocca è larga, irregolare, vi si legge una tensione concentrata, una prontezza nel dire, nel sorridere, le labbra sono sottili, pallide, frementi. Così da vicino, il fascino di questo viso, che l’altra immagine lasciava solo presagire, si precisa, ma subisce anche qualche cedimento. Sembra che questo fascino si concentri soprattutto nella tensione e nella mobilità della bocca, mentre intorno agli occhi, un po’ troppo fissi e ovati dietro le lenti tonde, s’indovina un che d’incompleto, un leggiero ottundimento, come se qui, durante l’opera, la natura avesse un po’ rallentato la sua vigilanza. Anche la fronte, per quanto alta e convessa, è forse un po’ stretta e sfugge rapida di lato.

L’ostessa guarda le foto con attenzione, le confronta, se le avvicina e se le allontana dagli occhi. Poi mi fissa, guarda di nuovo le foto e senza dir nulla me le restituisce. La sua bocca stretta e tumida, dalle carnose labbra violacee e ombreggiate di peluria, è impenetrabile. Seguendo il suo sguardo, scruto anch’io fuori dalla finestra. Il cielo è soffuso di un rossore cupo, come se oltre le nubi ardesse un immenso rogo. L’orologio, illuminato dalle fiaccole che si torcono nel vento e creano sulla sua lucida superficie di maiolica fantastici riflessi serpeggianti, segna le undici e un quarto. Verso di nuovo la pálinka e la offro all’ostessa: lei allunga la mano con un sospiro e comincia a bere a sorsi piccolissimi… Quando ha finito, appoggia il bicchierino sul bracciolo della poltrona, si alza e dopo essersi lisciata le pieghe dell’ampia gonna di panno scuro, mi augura la buona notte.

– A domani, – le dico, alzandomi a mia volta per accompagnarla alla porta.

– Domani, – dice soprapensiero mentre già sta abbassando la maniglia, – domani è il due marzo… Auguri al signor Meyer, dovunque si trovi.

Chiudo l’uscio e torno alla finestra. Lo strato di nubi, lassù, si è un po’ sfilacciato, il vento ne sospinge vasti lembi cinerini, dagli orli rossastri, che oscurano a tratti un quarto di luna lontanissima. Sull’immenso quadrante dell’orologio guizzano i barbagli delle torce, incendiando ora questo ora quel colore della lucida superficie invetriata. La sfera dei minuti trascorre con moto lentissimo ma percettibile.

Vado all’armadio dove conservo i documenti della mia inchiesta, una cinquantina di quaderni spessi, dalla copertina rigida di vari colori. Negli anni i disegni e le fantasie delle copertine sono un po’ mutati: i primi erano della ditta Kupka, di Praga, che poi cessò l’attività; allora cominciai a comprare quelli dei fratelli Seifer, di Leoben, un po’ più stretti e lunghi, più spessi e pesanti: ma la qualità della carta è la stessa, il numero delle pagine anche. Su ogni quaderno ho incollato un’etichetta bianca, che riporta l’anno e il mese della sua compilazione. I quaderni sono, in ordine cronologico, allineati sullo scaffale più alto. Li prendo, quattro o cinque alla volta, e li metto in bell’ordine sul tavolo: mi siedo e, partendo dal più vecchio, comincio a sfogliarli.

Che cosa cerco in questi quaderni, che cosa mi possono rivelare su questo Otto Meyer (che secondo alcuni in realtà si chiamava Száz Csaba), questi fitti simboli tracciati negli anni con nitida grafia puntuta per riportare interrogatori dai quali sono emerse notizie distorte, incomplete o dilatate, spesso contrastanti tra loro, se non addirittura incoerenti e stravaganti? Tuttavia qualcosa ne emerge, perché Otto Meyer doveva ben aver contemplato dalla finestra del suo liceo di Eisenerz le cime delle montagne avvampare brevemente nei tramonti invernali e, più in basso, le file, le schiere innumerevoli e sterminate degli abeti, avvolgersi su sè stesse come le onde del mare, sommergendosi e sopraffacendosi a vicenda. Doveva aver contemplato il rapido spegnersi della luce nel cielo limpido, come a un segnale improvviso, quando, finita la correzione dei compiti nella saletta dei professori subito buia, si tratteneva ancora un istante presso la finestra, a contemplare quell’ultimo profilo fragile e luminoso, nel quale sperava forse di leggere un presagio o di rintracciare un ricordo prima di salutare i colleghi e avviarsi a casa. Quella casa situata quasi al centro di un frutteto, alla quale si accedeva dalla strada per un sentiero quasi tutto in discesa, per cui arrivando davanti alla facciata larga e bassissima, davanti alle finestre allineate, al portone sormontato da un incongruo frontoncino triangolare, si aveva l’impressione di essersi calati in un luogo umido e fresco, raramente visitato dal sole e dalla luce, ombreggiato dalle piante che senza regola sorgevano tutt’intorno nel terreno argilloso e si spingevano fin quasi a toccare il muro giallino della casa.

– Era molto elegante – Non aveva nessuna cura nel vestire – Era coltissimo, leggeva sempre – Al di fuori del greco e del latino, che doveva conoscere perché li insegnava a scuola, era di un’ignoranza assoluta – Era un conversatore brillante, amava la caccia, i divertimenti e le donne – Era goffo e impacciato, in compagnia non apriva bocca, non ebbe mai un’amante e neppure fu visto mai corteggiare una donna – Aveva un orrore innato per le armi, sia da guerra sia da caccia – L’ho visto uccidere un gattino appena nato affogandolo in un catino d’acqua – Non avrebbe fatto del male a una mosca – Aveva un interesse profondo per l’arte e addirittura una passione per la porcellana – Non s’intendeva di nulla, di musica letteratura e arte poi non capiva niente…

Che cosa cerco in questi cinquantadue quaderni dalla grossa copertina di cartone a disegni marmorizzati? Che cosa voglio da quest’uomo, la cui immagine mi ossessiona, che è stato visto e descritto dagli altri in modi così diversi e contraddittori? Quando uscì dalla propria vita per contemplarla da un punto diverso e privilegiato, esterno a tutto, quando sospese la propria vita, per volgersi a scrutare con occhi curiosi e nuovi la parte che ne aveva vissuto, come farebbe un morto, se potesse, la sua vita, contemplarla dopo la morte, che cosa precisamente vide Otto Meyer, in quei suoi quarant’anni di vita?

Dalla finestra del suo liceo doveva certo aver contemplato quelle montagne, propaggini di altre e più grandiose, frutto di preistorici corrugamenti, distese a perdita d’occhio e di pensiero fra profonde spaccature e valli tenebrose, coperte di processioni interminate di faggi, poi d’abeti bianchi di neve e di brina, e, più in alto, nude di roccia scabra e tagliente, qua e là gelata, fesa dall’assiduo alternarsi delle stagioni. Quella febbricitante distesa di picchi e giogaie che più a sud, scavalcate le digradanti e ancora ruvide fasce della Carnia e della Venezia Giulia, sbocca finalmente nell’aspra distesa a macchia del Carso e dopo una serie di ondulazioni minori animate nel tramonto invernale di azzurri spettrali, di cangianti e tersi violetti sotto il soffio dei venti orientali, precipita finalmente con un ultimo breve soprassalto nell’azzurro indefinito e indefinibile del mare, ignota meta di sogni e di notti stellate fra i monti.

Certo, accanto alla finestra del suo liceo, fissando quei brevi fulgori delle montagne al tramonto, oppure, durante i suoi rari viaggi, contemplando dal finestrino del treno il lento sfilare dei paesaggi montani incupiti dai boschi e qua e là chiazzati da nevi non ancora sciolte dall’anno prima, opache e indurite, certo doveva aver trovato Otto Meyer una giustificazione e una spinta al suo antico e insaziato desiderio d’occidente, mescolato di slanci incoerenti e sempre rinviati, confondendosi in lui, come in un grande e pacato incendio interiore, il ricordo delle pianure ungheresi alte di grano, delle sponde fiorite del Danubio, quello, successivo, delle dolci colline dei Leiser Berge, e poi delle montagne, sempre più alte, sempre più innevate, sempre più fitte di boschi e dure di pietra e argentee di cascate, in un intenso amore soggiogato per la terra, un amore tenace e incompiuto, che poteva trovare il suo coronamento e la sua pace, forse, solo nella scoperta mai fatta del colore azzurro indefinito e indefinibile del mare levigato dai venti.

Sfoglio i quaderni, leggo qualche pagina, interpolo le frasi che vi ho riportato con stile secco, quasi burocratico, cerco di ricostruire il suono delle voci che le hanno pronunciate, cerco di farmi riecheggiare nella mente le parole che a migliaia sono state pronunciate nelle varie camere che ho occupato in questa locanda e specie in questa vasta e confortevole stanza piena di mobili scuri, di comode poltrone; pian piano, come da un bozzolo coriaceo e catafratto, come da un’armatura ferrea, esce la bianca crisalide, il distillato purissmo dell’anima di Otto Meyer o Száz Csaba.

Una sera, contemplando dal treno quelle colline incombenti che il sole quasi al tramonto illuminava di luce radente, aveva sentito tutta la pesantezza di quella terra bagnata di pioggia recente sotto il tappeto di verdura… Mi sento galleggiare in preda a un greve torpore, che si trasforma in un dormiveglia agitato e pieno di visioni, di ricordi a brandelli grevi e sfrangiati come stracci…

* * *

Mi sveglia la luce del giorno, sono ancora sulla poltrona, vestito; mi bruciano gli occhi, ho la gola secca. Da fuori giungono i rumori del vicolo, i richiami dei venditori, dall’interno della locanda si odono le voci delle serve che vanno su e giù per rassettare le camere. Ogni tanto si sente l’ostessa che chiama l’uomo di fatica o la cuoca e impartisce ordini brevi e perentori.

Chi è Otto Meyer? Non ne so più di prima, sento che l’inchiesta è fallita: forse è giunto il momento di chiudere questa decennale fatica che ho condotto con pazienza e scrupolo infiniti. Nemmeno è riuscita, l’inchiesta, a chiarire alcuni particolari anagrafici e familiari che pure doveva essere facile precisare. Un essere che recede, che si confonde avvolgendosi in un nugolo di asserzioni contraddittorie… Tutto rotea senza senso, prende direzioni divergenti e scoordinate… Forse le due fotografie sono l’unico punto fermo: quella bocca larga e mobilissima, quegli occhiali tondi, cerchiati di nero…

Vado alla finestra, e guardo giù nel vicolo. I passanti camminano frettolosi, incalzati da un vento che soffia a piccole raffiche rabbiose. Questo inizio di marzo ha portato il freddo delle montagne. A sinistra, sporgente sotto di me, si muove debolmente l’insegna di ferro battuto dell’Uomo Armato. Dalla mia posizione la vedo bene: un guerriero protetto in tutto il corpo da una pesante corazza, che tiene in mano una lunga spada diritta e acuminata. Sopra e sotto, in lettere gotiche, è scritto il nome della locanda.

Vado al lavabo e mi sciacquo il viso con l’acqua gelida. Mi sento stanco, deluso, vuoto d’ogni sentimento. Mi accovaccio davanti alla stufa e l’accendo. Prima delle nove le fantesche non vengono mai a rifarmi la stanza, ho ancora quasi un’ora di tempo per prepararmi. Vado davanti allo specchio, scruto i miei occhi stanchi, neri e un po’ sporgenti, mi tocco la barba brizzolata; poi prendo le forbici e comincio a tagliarla, a ciocche piccole che getto via via nel catino. Quando ho finito prendo dal primo cassetto del canterano un pennello che non uso più da dieci anni e m’insapono il viso per radermi a fondo. Sotto la barba rispunta la mia pelle, tenera, delicata, molto pallida. La bocca si rivela, larga, mobilissima, piena di fascino. “Auguri”, mi dico senza sorridere. Gli occhiali tondi cerchiati di nero devono essere ancora nel bauletto che tengo sotto l’armadio, dalla parte della finestra.

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