Céline, gli umani, la medicina

Di: Alberto Giovanni Biuso
1 Settembre 2010

Quarant’anni per imparare a lavarsi le mani. Quarant’anni trascorsero dal momento in cui Ignazio Filippo Semmelweis scoprì la ragione semplice e terribile della febbre puerperale, che falcidiava le giovani madri nei reparti di ostetricia di Vienna: medici e studenti passavano dalla dissezione dei cadaveri all’esame delle puerpere senza lavarsi le mani, infettando di morte la vita nascente, la vita data. Quarant’anni trascorsero per l’accettazione della sua scoperta da parte dell’avanzata e illuminata casta medica europea; quarant’anni che ebbero bisogno di Pasteur e delle sue ricerche sui microbi affinché si raggiungesse la sponda dell’ovvietà: prima di passare a un altro paziente il medico si deve disinfettare. Semmelweis l’aveva compreso decenni prima e per questo fu deriso, travolto, squartato dalla scienza del suo tempo.

Un altro medico dei poveri, Céline, ne raccontò la vicenda nella sua tesi di laurea del 1924. Medicina, storia, umanità, escono da questo tremendo e splendido libro per quello che sono: merda. Non a caso l’incipit e l’intero primo capitolo sono dedicati alla descrizione della grande bestia -la massa- che dà sempre sostegno e forza ai propri stessi aguzzini:

Mirabeau gridava così forte che Versailles ebbe paura. Dalla Caduta dell’impero romano mai simile tempesta si era abbattuta sugli uomini, le passioni e le ondate spaventose s’innalzavano sino al cielo. La forza e l’entusiasmo di venti popoli sorgevano dall’Europa sventrandola. Dappertutto non c’erano che sommovimenti, di esseri e di cose. […] L’umanità si annoiava, bruciò alcuni Dèi, si cambiò d’abito e pagò la Storia con qualche nuova gloria. […] E fu tutto una formidabile gara nella carneficina. Si uccise dapprima in nome della Ragione, per dei principi che dovevano ancora essere definiti. I migliori applicarono molto talento per unire l’assassinio alla giustizia. Ci riuscirono male. Non ci riuscirono. Ma in fondo che importava? La folla voleva distruggere, e tanto bastava (pp. 13-14).

Alla fine di quest’epoca di sommovimenti, nel 1818, a Budapest nacque Semmelweis. Il secolo raffinato e progressista lo uccise a Vienna nel 1865.

«Egli era di quelli, troppo rari, che possono amare la vita in ciò che essa ha di più semplice e di più bello: vivere. L’amò oltre il ragionevole. Nella Storia la vita non è che un’ebrezza, la Verità è la Morte» (28).

E la Morte, drago col quale combatté per l’intera esistenza, lo prese già lungo la vita. Lo afferrò con l’invidia senza limiti che il suo genio, la sua immensa pietà verso gli umani, il suo fuoco, non potevano che scatenare, come sempre scatenano quando qualcuno si eleva dalla sterminata pianura della mediocrità. E come sempre l’invidia fu capillare, diffusa, astuta o ebete, e fu esiziale. Essa prese in particolare le forme del primario di ostetricia di una clinica universitaria dentro la quale la febbre puerperale trionfava indiscussa e dove Semmelweis cominciò la sua attività.

Intellettualmente, questo Klin era un pover’uomo, pieno di sussiego e rigorosamente mediocre. […] Non sorprenderà quindi nessuno che sia diventato feroce quando ricevette le prime rivelazioni del genio del suo assistente. Fu affare di qualche mese. Aveva appena avuto il tempo di intravedere la verità sulla febbre puerperale che già era ben deciso a soffocare quella verità con tutti i mezzi, con tutte le influenze di cui disponeva. Appunto per questo egli rimane per sempre criminale e ridicolo davanti alla posterità. […] Nel dramma straordinario che si svolse attorno alla puerperale, Klin fu il grande ausiliario della morte (40-41).

Assieme all’invidia, si scatenarono la stupidità -la cui forza è tra gli uomini indomabile-, l’odio, l’irrisione, la calunnia, il silenzio, perfino il crimine che si spinse sino a infettare di proposito alcune puerpere «per la mostruosa soddisfazione di dargli torto» (88), e sopra ogni altra agì «la formidabile potenza delle cose assurde. Nel caos del mondo la coscienza è solo una debole luce, preziosa ma fragile» (42). Le furibonde potenze dell’assurdo condussero questo amico degli umani e nemico della morte all’isolamento, alla miseria, alla malinconia, alla follia, a un lento suicidio che lo indusse un giorno a correre verso l’ospedale che lo aveva respinto, a entrare nel triste teatro anatomico dove era in corso una dissezione, a tagliare il cadavere, a infettarsi con esso, a morire di strazio della stessa fine che aveva voluto evitare alle donne più disgraziate e più povere del suo tempo.

«Semmelweis era evaso dal caldo rifugio della Ragione, in cui si ritira da sempre l’enorme e fragile potenza della nostra specie nell’universo ostile» (96).

Nel denso saggio che segue il testo di Céline, Guido Ceronetti inserisce la storia di Ignazio Semmelweis «nella non lavabile, nella non labile sporcizia del mondo» (114). E formula una giustissima osservazione sugli sciocchi pregiudizi coi quali la tracotanza “scientifica” copre la propria ignoranza. Quale fu, infatti, la ragione profonda della tragedia che assieme a Semmelweis afferrò soprattutto centinaia di migliaia di donne, condannandole a una morte atroce, sottraendole alla vita mentre davano e perché davano la vita? Nient’altro che la dimenticanza di un tabù persino ovvio presso tutte le culture che non siano il povero positivismo illuminatore e ottenebratore: chi è entrato in contatto con un cadavere deve purificarsi.

Cadaveri e maternità! […] Nella più povera capanna polinesiana, nella più miserabile tenda beduina, un simile vomitamento di materie cadaveriche nelle vulve fertili sarebbe stato punito con la morte. Quale ostetrico egizio, siberiano, tolteco o pellerossa avrebbe mai osato toccare una puerpera con mani fresche di contatto con un parente, uno sciacallo, un cane, un rospo, un topo morto? Solo l’Ostetricia europea del secolo più illuminato e più raffinato (assassini! gridava Semmelweis agli ostetrici europei) è stata capace di elevarsi a tanto (119-120).

Il tabù venne reintrodotto, certo, nella forma dell’antisepsi ma quante sofferenze senza misura sarebbero state risparmiate -alle donne morenti, ai mariti, ai figli- se l’invidia, la stupidità, l’assurdo, l’arroganza medica avessero dato ascolto alla musica dell’evidenza? Ma è che «la civiltà europea si era così bene ripulita degli interdetti arcaici sull’impurità dei morti da restare, di fronte alla forza dei morti, completamente indifesa. […] Libertà assoluta d’impregnarsi le mani di essudati cadaverici e d’introdurle poi tranquillamente -senza pausa, rottura, purificazione, rituale- nelle sorgenti della vita. L’oblio dell’impurità cadaverica, ecco l’origine sacrale, che coincide perfettamente con la verità eziologica, delle epidemie di puerperale nelle cliniche» (118).

Davvero «troppo poco si sa dei morti» (121) ma quello che si sa è sufficiente a capire che i morti sono un dominio altro, sono la grande alterità che va onorata nella memoria e rimossa nella materia, che va bruciata, assai meglio che interrata, che va lentamente obliata affinché il suo essere stato si stagli nella luce della fecondità e non nell’impossibile nostalgia dell’essere ancora. I morti vanno lasciati andare all’enigma che li attende. Essi non sono più niente, sono diventati Körper, impuro spazio senza tempo. Proprio perché sappiamo che il Leib -la materia consapevole e nomade nello spaziotempo che ora siamo, che ora sono- diventerà questo nulla, una salma, ogni contatto con la morte ha bisogno di attente mediazioni simboliche e materiche. Trattati come cose, e cioè come ciò che di fatto sono ma che non accettano ancora di essere diventati, i morti abbrancano i vivi. È anche questo il fondamento dei grandi miti su di loro -dalle ombre omeriche ai racconti dei nativi americani, dai vampiri agli zombie. Una scienza che ignori tali evidenze è soltanto una raffinata forma di ignoranza, l’ennesima espressione del dualismo che separa soma e psiche, ritenendo che il soma possa essere soltanto soma e non ancora forma ed espressione dell’intero.

E soprattutto non ci si illuda, non si pensi che tutto questo sia limitato e limitabile a un momento tragico e isolato della storia della medicina -l’ignoranza dei microbi, Semmelweis, le puerpere-, no, tutto questo è ancora tra noi e Céline lo chiarisce -splendido illuminismo- nel presentare dopo tanti anni questa sua tesi di laurea:

Supponiamo che oggi, allo stesso modo, venga un altro innocente che si metta a guarire il cancro. Manco s’immagina che genere di musica gli farebbero subito ballare! Sarebbe veramente fenomenale! Ah! Meglio che prenda doppie misure di prudenza! Ah! Meglio che sia avvertito. Che se ne stia maledettamente bene in guardia! Ah! Sarebbe tanto di guadagnato se si arruolasse immediatamente in una qualche Legione Straniera! Niente è gratuito in questo basso mondo. Tutto si espia, il bene come il male, si paga prima o poi. Il bene è molto più caro, per forza (11-12).

Tanto più che contro questo “innocente” non sarebbero soltanto le forze ancestrali e miserabili della stupidità e dell’invidia a scatenarsi ma anche quelle più prosaiche ed economiche del circo che ruota intorno ai malati di tumore, a cominciare dalle industrie farmaceutiche: «Nel cuore degli uomini non c’è che la guerra» (71).

Louis-Ferdinand Céline
Il dottor Semmelweis
[Semmelweis (1818-1865), Gallimard 1952]
Traduzione di Ottavio Fatica e Eva Czerki
Con un saggio di Guido Ceronetti: «Semmelweis, Céline, la morte»
Adelphi, Milano 200211 (1975)
«Piccola Biblioteca Adelphi, 30»
Pagine 134

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