Il Gesù di Pietro Barcellona

Di: Augusto Cavadi
9 Aprile 2011

«Sono stato affettivamente colpito dal Vangelo di Gesù Cristo e dalla sua predicazione nella terra di Galilea. La nascita di Cristo è, infatti, una rottura epocale rispetto al tradizionale modo di vedere il rapporto fra Dio e mondo, fra divino e umano, una discontinuità assoluta rispetto a tutte le ipotesi di configurazione del Dio delle religioni» (p. 26). Dichiarazioni – o meglio, agostinianamente, ‘confessioni’ – di questo tenore non mancano nella letteratura e nella cronaca della nostra epoca. Calciatori promettenti e attrici non proprio castigate, per non parlare di artisti e scrittori in fin di vita, ogni tanto sorprendono il pubblico manifestando sentimenti religiosi sconosciuti. E talora insospettabili.
Meno frequente è il caso di un intellettuale di sinistra che, maturo ma vivo e vitalissimo, decide di raccontare -senza concedere molto al pudore– le ragioni del suo passaggio da Marx a Cristo. Ed è proprio questo che fa Pietro Barcellona, consapevole del rischio mediatico di «entrare nella cerchia delle clamorose conversioni di questa epoca» (specie quando la narrazione assume i tratti del “delirio”), ma convinto di essere protagonista di una vicenda dai risvolti culturali ‘oggettivi’, ben al di là dei travagli intimi soggettivi.
Di che si tratta, in breve? «Nichilismo, evoluzionismo e relativismo conducono tutti allo stesso risultato: la vita non vale niente, è un puro funzionale equivalente a qualsiasi altro fattore che si inserisca nella catena evolutiva ai fini della riproduzione della vita materiale» (p. 25). Ci si può accontentare di questo messaggio egemone nella cultura contemporanea? Barcellona non ci sta: «Sembra naturale che, a questo punto della storia, si torni a riflettere sul tema che ha segnato le vicende dell’Occidente: il rapporto fra l’umano e il divino, poiché solo la presenza del divino potrebbe gettare un ponte tra la nostra dolorosa finitezza e la gioiosa giostra delle galassie e delle stelle» (Ibidem).
Dove lo porta questo cammino riflessivo? Non a un Dio trascendente, che salvi «dall’alto del proprio trono», «figura divina troppo metafisica per non apparire una pura proiezione psicologica degli esseri umani» (Ibidem): bensì a un personaggio storico, in carne e ossa, Gesù di Nazaret. «Quando mi capita di assistere» – ,  spiega ad esempio, il filosofo del diritto catanese– «alla proiezione dello straordinario film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo ho la sensazione che quella figura bianco vestita pronunci frasi e parole che vanno oltre la filosofia greca e la sapienza orientale, per arrivare fin dentro al cuore delle persone, e non ci si può stupire più che quell’uomo sia Dio e che Dio sia un uomo» (pp. 25-26).
Davanti a tanto entusiasmo, la reazione spontanea del lettore è un rispettoso silenzio. Se il lettore non è digiuno di teologia, però, non può reprimere degli interrogativi che lo stesso Barcellona, in fasi ulteriori della sua ricerca spirituale, potrà porsi. Interrogativi che si potrebbero condensare in uno solo, di fondo: questo incontro con Gesù Cristo avviene ‘oltre’ la ragione e su elementi offerti dalla ragione umana oppure mettendo da parte, bypassando, i dati delle scienze storiche e le acquisizioni della stessa teologia critica più aggiornata? La risposta dell’autore mi pare decifrabile in maniera abbastanza trasparente: egli scavalca con disinvoltura tutta una serie di questioni esegetiche (a cominciare dalla questione che Gesù non si è mai considerato un Dio né tanto meno si è presentato come tale ai discepoli) e si pone davanti al vangelo con invidiabile (invidiabile ?) ingenuità. La verità filosofica (necessità logica di una dimensione divina oltre la dimensione materiale) e la verità storica (solo nei secoli successivi alla sua morte in croce il profeta di Galilea è stato trasformato da Messìa, inviato del Padre, in incarnazione unica e irripetibile di Jahvé stesso) non rientrano nell’ambito degli interessi di Barcellona: «la verità psicologica, che soltanto per un’assurda scissione dello Spirito umano si è trasformata nell’astratta verità speculativa e nella triste verità del materialismo scientista, è l’unica strada che si apre davanti a noi nella crisi di tutti i saperi» (p.113). Egli, insomma, crede nel divino -anzi, nella personificazione terrena di Dio in Cristo– per una sorta di esigenza interiore: la vita sarebbe insopportabile senza questa fede. E gli uomini, come per altro dimostrano abbondantemente, si chiuderebbero nei ristretti orizzonti del tornaconto individualistico e nell’orgoglio nazionalistico. Invece, se credessero nel Dio fatto uomo, realizzerebbero quello che Pietro Barcellona confessa di aver invano inseguito per decenni: «il Sogno Rivoluzionario» di Marx senza la degenerazione in «una forma di comunismo rozza e materiale» (p. 124). È insomma, nella sostanza, la posizione di Dostoevskij: dobbiamo credere in Dio perché, se non ci fosse, tutto sarebbe permesso. Una posizione, bisogna aggiungere, pericolosamente ribaltabile da chi sostiene che, affinché tutto sia permesso, si debba necessariamente negare l’esistenza di Dio. Un cristianesimo che non sia basato sulle “ragioni del cuore”, ma che costituisca un appello ragionevole a scoprire che ci sono più cose in terra e in cielo di quanto ne contenga il piccolo mondo delle speranze e dei timori umani, non sembra interessare il nostro pensatore siciliano. Almeno per ora.

Pietro Barcellona
Incontro con Gesù
Marietti
Genova–Milano 2010
Pagine 144

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