Verso un’etica sostenibile (I parte)

Di: Niccolo Cappelli
9 Aprile 2011

Oltre che un animale politico, come insegnava Aristotele, l’uomo può a buon diritto essere definito un animale filosofico, ossia l’unico animale impegnato in una ricerca di senso. Di questa ricerca fa senz’altro parte l’indagine etica e morale. Numerose sono state nel corso della storia le visioni, laiche o religiose, concernenti quell’insieme di convenzioni e di valori che prendono il nome di moralità. Ma invece di guardare alla straordinaria varietà di risultati che la speculazione filosofica ha portato sull’ancestrale tema del bene e del male, vorrei prendere in esame alcuni aspetti della morale antica e moderna, attraverso l’analisi di due fondamentali correnti dell’etica occidentale. A questi due filoni della filosofia morale ho attribuito il nome di etica della felicità ed etica del dovere.

L’antichità classica può essere considerata come l’epoca storica caratterizzata dalla genesi e dallo sviluppo di un’etica finalizzata al vivere felicemente (makarion zen), nonostante le diverse scuole dell’epoca possedessero idee anche molto divergenti fra loro circa il significato di eudaimonia, così come per la prassi necessaria a realizzarla.
È a partire dalla filosofia di Socrate che per la prima volta assistiamo alla netta separazione tra felicità e destino. Il saggio si rende indipendente dalle grinfie di un fato avverso, facendo del proprio bios filosofico uno scudo sicuro contro l’insondabile volontà di Tyche, divinità terrifica dispensatrice di doni e sventure tra gli uomini. Le avversità non hanno potere sullo spazio interiore soggetto al dominio della ragione sulle passioni, cosicché il filosofo priva il destino del suo campo d’azione, annullandone le dispotiche pretese sulla propria felicità. La virtù è condizione necessaria e sufficiente a rendere l’uomo felice. Essa è scienza del bene, l’intelligenza che permette di rendere utili alla nostra vita tutte le qualità dell’anima, così come tutte le altre doti di cui la fortuna ci può far dono. Il «desiderio di essere soli con la propria anima»1 , quando essa si ritrova tutta sola con se stessa (haute kath’auten), è la condizione di massima felicità a cui l’essere umano possa auspicare e che il filosofo persegue per tutta la vita, cercando di concentrarsi sull’unico obiettivo di separarsi dai vincoli rappresentati dai bisogni e dalle passioni del corpo, per giungere a quella condizione in cui si è compiutamente liberi di disporre di sé.
Nel Socrate della Repubblica, Platone si preoccuperà di rendere questa virtù socialmente spendibile, districandola da quell’avvitamento solipsistico in cui rischiava di rinchiudersi. La temperanza, il coraggio e la sapienza, e ancora più la giustizia, diverranno le virtù fondamentali socialmente fondanti, mentre la capacità di contribuire al bene pubblico sarà il solo banco di prova su cui l’uomo potrà misurare la propria moralità.

Ma uno spiraglio d’antica luce si riaprirà nuovamente verso la fine dell’opera: la virtù quale possesso autarchico del filosofo tornerà a fare breccia nel pensiero di Platone. Difatti, se la kallipolis non dovesse realizzarsi in tempi modici, se le parole del filosofo non trovassero eco tra la sordità dei corrotti, sarebbe sconveniente continuare a discutere sulle ombre per colui che ha penetrato con sguardo tagliente l’inganno delle apparenze: al filosofo basterà abitare la bella città del suo pensiero.
Ancora più marcata sarà la posizione degli stoici nei confronti dell’autosufficienza della virtù e del suo rapporto con la felicità. Come sosteneva Zenone di Cizio, fondatore della scuola stoica: «Per vivere felice, la virtù basta a se stessa»2. Il sommo bene viene così a coincidere con la sola virtù, che come conseguenza diretta porta a colui che ne segue il sentiero la massima felicità possibile per l’uomo, l’apatheia. Ciò che comunemente chiamiamo bene e male, riferendosi con questi termini agli accadimenti fasti o nefasti decretati dal destino, è frutto dell’ignoranza. Il bene coincide con la virtù e il male con il vizio. Al di là del male morale non ne esiste di altro tipo. Il destino, per il saggio stoico, produce soltanto fatti indifferenti. Nonostante il soffrire non abbia alcuna incidenza sulla felicità del virtuoso, è comunque qualcosa da respingere, se possibile, perché «aspro, contro natura, difficile da sopportare, cupo e duro»3. In definitiva, la scuola stoica non era certo promotrice di un bieco masochismo. Ciò che aveva a cuore consisteva semplicemente nel porre un limite ben preciso fra ciò che è di competenza dell’uomo (oikeion) e ciò che non può esserlo (allotrion). La sfera morale è la sola che propriamente rientri in tali competenze; le bizze del destino gli sono indifferenti perché al di fuori del campo d’azione della sua volontà. L’essere umano è nella sua essenza un essere razionale e morale. Per lui, dunque, bene e male avranno unicamente un significato etico.
Vi è negli stoici un’iperbolica pretesa di razionalità. Naturalizzare la ragione e investirla di un’autonomia capace di decretare in modo oggettivo le valutazioni etiche, saranno le massime pretese della scuola ateniese. Il vivere coerentemente o il vivere secondo natura di cui parla Zenone, sono un chiaro riferimento a uno stile di vita centrato sull’esercizio della capacità razionale quale manifestazione della natura propria dell’uomo. Le passioni non sono altro che errori da estirpare, malattie della ragione che impediscono il sano dominio della parte razionale. Come scriverà Seneca: «Il sommo bene è la fermezza di un animo saldo»4. Bastare a se stessi è la regola aurea della scuola stoica. Ogni esercizio filosofico tenderà a forgiare un io capace di sentirsi totalmente sicuro di se stesso e in se stesso: un uomo «comincia ad essere in balia della fortuna se va a cercare anche una sola parte di sé fuori dalla propria esistenza» 5. Torna qui la sostanziale differenza tra bios e tyche inaugurata da Socrate e di cui gli stoici si sentivano i diretti depositari.
A differenza, però, del Socrate presentatoci da Platone, per gli stoici la massima aspirazione del saggio non consisterà, necessariamente, in un ritorno nella caverna. Una vita ritirata, lontana dai turbamenti della politica e dalle masse incolte, permetterà al saggio stoico di proteggere la sua cittadella interiore dalle sollecitazioni delle passioni umane. Non mancano su tale questione opinioni divergenti, come ad esempio in Crisippo o in Cicerone, secondo i quali lo stoico avrebbe il compito, attraverso il buon uso della ragione, di frenare il vizio ed esortare alla virtù l’intera popolazione.
Comunque sia, in mezzo agli uomini o nella più totale solitudine, il saggio stoico sa che per essere felice non occorre altro che una vita basata sulla virtù e che la ragione è in grado di offrire una guida sicura su tale sentiero. Probabilmente il filosofo che sceglierà di restare in seno alla società dovrà essere ancora più guardingo, perché come insegnava lo stesso Platone, «tutte le cose soggette ai sensi che ci eccitano e ci attirano…non hanno una propria realtà»6. La coerenza interiore e la logica necessitante del mondo saranno per il filosofo stoico i due poli di riferimento del comportamento virtuoso, e con esso, del solo autentico vivere felice.

Non era dello stesso avviso Aristotele, altro filosofo la cui dottrina testimonia nuovamente come per gli antichi il punto di partenza della riflessione etica non fosse costituito in primis dal dovere ma dal significato della vita buona e dalla sua realizzazione, l’eudaimonia. Anche per lo Stagirita, il bene supremo dell’uomo è la sua felicità. Il bene, come afferma nell’Etica Nicomachea, “è ciò a cui tutto tende”, principio che conduce ad una identificazione tra bene (agathon) e fine (telos). Ora, essendoci una pluralità di fini a cui le scienze, le arti e le azioni degli uomini tendono, vi saranno anche una molteplicità di beni. Ma tra essi esiste una gerarchia di valore che vede nella felicità il bene supremo, in quanto essa è l’unico bene che noi ricerchiamo per se stesso, senz’altro fine.
La felicità risiede nell’esercizio eccellente della funzione (ergon) che ci è propria; essendo l’uomo un essere razionale e trovando in questo la sua più intima specificità, la sua felicità consisterà nell’esercizio delle virtù cosiddette dianoetiche, quali la saggezza (phronesis) e la sapienza (sophia). Ricerca razionale e attività contemplativa sono le attività (energheia) proprie dell’anima umana secondo virtù. Queste attività, ancora una volta, divengono un’armatura entro la quale il filosofo si potrà difendere dall’imprevedibilità della fortuna. Ma, a differenza degli stoici, per Aristotele la virtù è condizione necessaria ma non sufficiente per la felicità. Se non è possibile dirsi felici senza essere virtuosi, è altresì possibile essere virtuosi senza essere felici. Le ipotesi estreme avanzate sia dagli stoici che dagli epicurei circa la possibilità di mantenere il proprio stato di felicità anche nel bel mezzo di un’atroce tortura, non sono per Aristotele ipotesi concretamente attuabili. Nonostante, come abbiamo detto, le virtù dianoetiche assicurino l’uomo al riparo dall’incertezza in cui ci getta per sua natura il destino, una certa dose di fortuna sembra essere indispensabile per potersi definire realisticamente felici. Come afferma lo Stagirita, può dirsi felice «colui che agisce secondo virtù completa ed è provvisto a sufficienza di beni esterni, non in un qualsiasi periodo di tempo, ma in una vita completa»7, perché «la felicità ha bisogno sia di una virtù perfetta che di una compiutezza di vita»8. L’amicizia, la ricchezza, il potere politico o la bellezza vengono considerati indispensabili per una felicità autentica. La virtù, d’altronde, saprà sopperire laddove la sfortuna sia lieve, facendo sì che essa non incrini la serenità d’animo del virtuoso.
Dato che non esistono nell’uomo virtù etiche che sorgano spontaneamente, per natura, tutte le virtù necessiteranno di un apprendimento che attraverso l’abitudine permetterà di farle proprie. La natura ci fornisce soltanto una disposizione alla prassi virtuosa; il resto sarà compito di una società educante, attraverso un lungo tirocinio capace di sedimentare in noi una salda abitudine al bene. A differenza di quanto succede per un’azione tecnica, l’apprendimento morale dovrà contare, assieme alla buona esecuzione delle azioni, sulla consapevolezza che accompagna un’azione deliberatamente scelta per se stessa. Ciò che potremmo chiamare “intenzione” diviene attributo imprescindibile dell’azione morale.
Infine, benché Aristotele si sia soffermato a lungo a tracciare un modello di felicità che rimandasse a una compiuta realizzazione nella vita pratica, nell’Etica Nicomachea emergerà in tutta la sua pienezza una felicità coincidente con l’attività contemplativa del filosofo. Dell’intelligenza umana, l’attività teoretica costituisce l’esercizio della sua parte migliore, la sola che possa scandagliare la realtà fino ai suoi fondamenti (l’epistemonikon) e che «per sua natura comanda e dirige e ha conoscenza delle realtà belle e divine»9. Se sia possibile collimare la ricerca solitaria della vita teoretica con una piena realizzazione anche sul piano pratico, questo Aristotele lo lascia in sospeso, anche se un tale perfezionamento individuale, che rende il filosofo uno straniero nella sua stessa patria, sembra allontanarsi dalla koinonia, dalla comunione, che lo Stagirita pone come fondamento della vita sociale.

Il più grande sostenitore della felicità, tanto da essere stato nel corso della storia della filosofia totalmente frainteso, è Epicuro. Per il filosofo è il piacere a coincidere con il sommo bene. Questa identificazione gli costerà cara per interi secoli a venire, dato che i suoi detrattori vedranno in lui un edonista promotore della più bieca lascivia. In realtà Epicuro era ben lungi dall’essere il libertino di cui spesso abbiamo sentito parlare. Il piacere, considerato come «principio (arche) e fine (telos) del vivere felicemente (makarion zen10, è privo di movimento, catastematico, ossia è in ultima istanza assenza di dolore, non essendo possibile trovare uno stato intermedio tra piacere e sofferenza. Assenza di turbamento fisico (aponia) e assenza di turbamento spirituale (ataraxia) sono considerate le forme perfette di piacere, sinonimo di felicità. Dei tre tipi di piaceri –naturali e necessari, naturali e non necessari, innaturali e non necessari– solo quelli del primo tipo rientrano nei piaceri che il saggio, utilizzando la sola vera virtù –la saggezza– cerca di soddisfare eliminando la sua dipendenza da tutti quelli non necessari per la propria felicità. I bisogni inutili finiscono per allontanare l’uomo dall’assenza di turbamento che contraddistingue la felicità del saggio.
La virtù è per Epicuro necessaria al vivere felicemente, perché «non è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e giustamente, né saggiamente e bene e giustamente senza anche vivere felicemente»11. Ma la virtù non può essere fine a se stessa, come volevano gli stoici: «Sputo sul bello morale e su chi stoltamente l’ammira quando esso non procuri alcun piacere»12. Per Epicuro la virtù è utile fintanto che conduce alla felicità, senza la quale perderebbe ogni valore, mentre per la scuola stoica la felicità è una conseguenza della virtù intesa come sommo bene. In tale contesto, la saggezza diviene della massima importanza perché permette al saggio di scegliere quali piaceri conducono l’uomo all’aponia e all’ataraxia, e quali lo allontanano. Lo stoico, al contrario, è indifferente rispetto al piacere e considera buono o cattivo solo ciò che è in relazione alla virtù. Inoltre Epicuro non condivideva affatto il valore che gli stoici tributavano alla ragione. A stabilire quali siano i saldi criteri cui dobbiamo attenerci è la natura stessa, la quale ci parla attraverso la sensazione, unica fonte di verità e di conoscenza. Per questo i bambini si presentano quali testimoni incorrotti della naturalità del telos; essi ricercano i piaceri naturali e necessari, e rifuggono il dolore. Senza alcun bisogno di complesse argomentazioni intellettuali, conoscono la via che conduce al sommo bene. La ragione è inutile a tal fine, anzi, risulta dannosa nell’adulto che rimane imbrigliato nelle superflue operazioni teoriche del logos. Diverrà necessario ritrovare quella che nel bambino è una naturale disposizione attraverso un uso corretto della ragione, ossia attraverso l’esercizio della phronesis.

Per chi ha perduto la via della naturalità, la filosofia si presenta come una terapia dell’anima. Il suo compito è quello di curare le malattie provocate da una smisurata ricerca delle passioni. Senza questo suo aspetto funzionale, di pura prassi, la filosofia non avrebbe motivo d’esistere. Le disquisizioni intellettuali fini a se stesse non possono soddisfare i bisogni naturali e necessari, e quindi risultano in ultima istanza dannose per l’animo umano: «Come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesce ad espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le passioni dell’anima»13.

Una volta divenuto padrone di sé, il saggio epicureo sarà in grado di essere felice anche tra i tormenti, accostandosi a quanto sostenuto dagli stoici e allontanandosi assieme a essi dalla concezione aristotelica della felicità. Paradossalmente sarà proprio un neostoico, Seneca, a rendere giustizia alla dottrina epicurea, dicendo che Epicuro soddisfaceva sì le esigenze degli edonisti, ma mettendoli a dieta, perché nei suoi giardini “gli stimoli della fame non si eccitano, si estinguono”.

Per concludere questo breve excursus sull’etica della felicità, non possiamo ignorare uno dei personaggi più singolari dell’era classica: Diogene di Sinope. Riprendendo i temi cari a Socrate e ad Antistene, Diogene, detto “il cinico”, ripresenterà i concetti di autonomia del saggio inserendoli in una cornice nuova e quanto mai provocatoria. Il bios kynicos diverrà il modello anticonformista di più ampio successo, rispettato persino da un imperatore quale Alessandro Magno, che in un’occasione ebbe a dire che se non fosse nato Alessandro avrebbe voluto nascere Diogene. Una bisaccia, un doppio mantello, un bastone e una botte erano tutto ciò di cui il cinico abbisognasse, sempre in cerca di un continuo miglioramento, di una maggiore naturalezza che lo liberasse dalle pastoie delle convenzioni sociali.

La contrapposizione tra physis e nomos, o come potremmo dire oggi tra natura e civiltà, è il tratto più caratteristico dell’antica scuola ateniese. Vivere secondo natura non significa per Diogene semplicemente vivere secondo ragione, come aveva suggerito Zenone, ma anche vivere al di là dell’artificiosità delle convenzioni con cui l’uomo si è allontanato dalla semplicità della sua condizione originaria. La via cinica è stata definita la via breve verso la virtù e verso la felicità, proprio per l’immediatezza del suo stile di vita. L’aneddotica di Diogene è ricca di esempi a tale riguardo: quando vide un bambino bere nel cavo delle mani gettò via il suo bicchiere, e quando Alessandro gli si parò davanti col suo cavallo chiedendogli che cosa desiderasse, lui lo invitò a spostarsi perché gli oscurava il sole. Al più grande degli imperatori chiese solo questo, perché l’uomo più felice non è colui che ha tutto, ma colui a cui non manca niente. Il suo motto consisteva nell’opporre alla fortuna il coraggio, alla convenzione la natura e alla passione la ragione. La filosofia era vissuta come una prassi, al di fuori della quale non aveva senso alcuno, tratto questo in genere caratteristico di tutta la filosofia antica. La prassi filosofica è il mezzo che permette al cinico di «essere preparato ad ogni evento»14. Il metodo diretto che conduce alla felicità, ossia alla libertà e alla virtù, si riassumeva nei due concetti di esercizio (àskesis) e di fatica (pònos). Fisico e spirito andavano temprati alle avversità imposte dalla natura e, al tempo stesso, l’uomo doveva abituarsi a dominare il piacere, fino al suo disprezzo.
>Rispetto alla società in cui vivono gli uomini sordi al semplice richiamo della naturalezza, il saggio cinico si ritiene uomo superiore ed eccezionale, che si limita a vivere in mezzo agli altri quale kataskopos, un osservatore disincantato delle miserie umane. Attraverso la pratica della libertà di parola (parresia) e della sfrontatezza (anaideia), il cinico si erge nella sua impenetrabile autarchia, un distacco ironico dal mondo dei fantocci imprigionati nelle strette maglie delle convenzioni che essi stessi, stupidamente, si sono creati. Disprezzando la kallipolis platonica, il cinico si considera piuttosto «senza città (apolis), senza casa (aoikos), bandito dalla patria (patridos esteremenos), mendico (ptochos) ed errante (planetes15.

È interessante notare come nell’epoca attuale, definita da Heidegger, e in suolo italiano da Galimberti, l’era della tecnica, in Diogene si possa ritrovare un modello di forte denuncia antropologica e sociale: sarà Seneca che contrapporrà Diogene a Dedalo, vedendo nel primo un saggio che guarda i bambini per imparare a sfrondarsi di dosso tutto ciò che gli adulti hanno aggiunto d’inutile, e nel secondo il mitico inventore del superfluo, creatore, assieme alle tanto ambite comodità, di nuovi bisogni che nella visione di Diogene allontanano l’uomo verso una comoda infelicità.

Credo che a questo punto sia necessaria una precisazione che potrebbe evitare l’insorgere di alcune perplessità. Parlare di etica della felicità non significa che la felicità sia considerata da ogni scuola dell’antichità come il fattore etico più importante o determinante. A dire il vero ciò non sarebbe esatto per la maggior parte di esse, né per Socrate, né per i cinici né tantomeno per gli stoici. Quello che accomuna tutte queste scuole filosofiche e che le differenzia sostanzialmente dalla soprannominata etica del dovere, è la considerazione della felicità come facente parte, direttamente o indirettamente, di una vita pienamente realizzata e realizzabile. Con questo intendo dire che nonostante per uno stoico la felicità non faccia parte del sommo bene e che in definitiva, come sosteneva Seneca, non sia neanche uno fra i beni, allo stesso tempo parlare di un uomo virtuoso e infelice sarebbe niente meno che un paradosso. Lo stesso vale per Socrate, o per Diogene. Una vita eticamente buona è una vita felice, a prescindere da quale considerazione si abbia della felicità come valore. Oppure, nonostante si possa essere virtuosi ma non felici, come in Aristotele, la felicità rappresenta comunque il bene supremo. In breve possiamo affermare che l’etica della felicità considera l’eudaimonia o coincidente col sommo bene, o come bene supremo o come conseguenza diretta di una vita eticamente vissuta.

(Continua nella seconda parte)

Note

1 Platone, Fedone, 67e.

2 H. von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, trad. it. di R. Radice, Stoici antichi. Tutti i frammenti, Rusconi, Milano 1998, pp. 88-89.

Ibidem

4 Seneca, Sulla felicità, 9.4.

5 Id., Epistole a Lucilio, 9.15.

6 Ivi, 58.26-27.

7 Aristotele, Etica Nicomachea, 1101a 14-16.

8 Ivi, 1100a 4-5.

9 Ivi, 1177a 14-125.

10 Epicuro, Lettera a Meneceo, 129.

11 Ivi, 132.

12 H. Usener, Epicurea, Leipzig 1887, 512.

13 Ivi, 221.

14 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 225.

15 G. Giannantoni (a cura di), Socratis et socraticorum reliquiae, Napoli 1990, V B 263.

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