Il diritto all’inutilità nella società del funzionamento

Di: Massimo Vittorio
31 Gennaio 2020

 

«L’umanità potrebbe diventare una razza di mostri economici, che mercanteggiano spietatamente con la natura e l’uno con l’altro, annoiati dal tempo libero o capaci soltanto di dissiparlo in maniera ostentata o stravagante»1.

 

La vita legalistica

L’8 Giugno 1978 Solženicyn teneva un memorabile discorso a Harvard, nel quale distillava paure e speranze per un Occidente lanciato verso traguardi impensabili. Solženicyn era lieto di verificare quanto l’Occidente si reggesse su un sistema di diritto certo, che non avesse bisogno di ricorrere alla repressione, alla coercizione e alla rieducazione operate dalla GULag. Ciononostante, in quello stesso discorso, Solženicyn denunciava una pericolosa tendenza che, a suo modo di vedere, stava contrassegnando l’Occidente: il legalismo. Ora, in filosofia morale per legalismo s’intende una specifica prospettiva etica in cui il fine dell’azione non è più il bene, ma il giusto. In altri termini, il giudizio morale scaturirebbe dalla valutazione di un’azione che, per essere morale, dev’essere meramente conforme al precetto.
In un senso più preciso, e per meglio comprendere la preoccupazione di Solženicyn (e di molti filosofi morali), il legalismo è inteso come una distorsione della morale, che viene spesso ridotta da tale atteggiamento a uno pseudo-diritto (o giuridicismo, come per la casuistica gesuitica). L’etica, senza la prudentia, smette di essere quella scienza pratica che Aristotele lasciò in eredità al figlio Nicomaco2;  i seguaci di Cristo in Giudea accoglievano la sua indicazione, quel “in verità vi dico”, con cui la lettera della legge si faceva carne nella guarigione dell’idropico al sabato3 o col perdono della prostituta in casa del fariseo4.Ma perché Solženicyn e perché il legalismo? Tornando al suo discorso a Harvard, egli a un certo punto affermò: «La legge applicata alla lettera è troppo fredda e formale e non può avere un influsso benefico sulla società. Se il tessuto della vita è un tessuto di relazioni legalistiche, si crea un’atmosfera di mediocrità spirituale che paralizza gli impulsi più nobili dell’uomo»5. Oltre a presentarci degli echi nietzschiani, questo brano segnala la distruzione di ogni possibile principio di responsabilità, con buona pace di Jonas: non c’è più spazio per il pensiero, per il semplice atto di osservare il mondo e di comprenderlo: «La mentalità legalistica induce la paralisi e impedisce di comprendere il peso e il senso degli eventi»6.

 

La società del funzionamento e il diritto all’inutilità

La contemporaneità, specie quella della parte di globo più “sviluppato”, sembra aver realizzato le premonizioni dello scrittore russo. Molti se ne sono accorti. Benasayag, per esempio, è uno di quegli intellettuali che più ha colto l’emergere pressante di queste preoccupazioni: «Viviamo oggi un presente defraudato in nome di un progetto che non è l’assetto di una struttura di promessa o di utopia, ma l’instaurazione di un mondo dal funzionamento senza intoppi. Dobbiamo funzionare. Ecco la perversione della civiltà attuale»7. L’onda lunga del razionalismo, che segna l’avvento dell’età moderna, fatta di sperimentazioni, esplorazioni, nuove libertà di intrapresa, orienta l’essere umano verso un futuro illuminato e illuministico, utile e utilitaristico, positivo e positivistico, prima di precipitarlo nelle angosce esistenzialistiche di sapore kierkegaardiano e kafkiano.
L’individualismo è la vera eredità che le epoche del progresso secolare consegnano all’uomo contemporaneo: ma senza che questi sappia dove e come individuare l’individuo, cioè se stesso e gli altri. In un mondo di grandi sistemi di credenze e di forte oggettivazione, l’individuo era facilmente individuabile: si stagliava su uno scenario di norme, precetti, abiti e tradizioni, spesso fortemente consolidati e raramente posti in discussione; «gli uomini si trovavano spesso confinati in un dato luogo, in un ruolo e in una condizione che erano propriamente i loro, e dai quali era praticamente impensabile allontanarsi. […] Nel mentre stesso che ci limitavano, questi ordinamenti davano un senso al mondo e alle attività della vita sociale»8. Lo stesso Bauman ci ricorda che «l’avvento della società liquido-moderna ha segnato la fine delle utopie incentrate sulla società»9.
Siamo sicuri che sia così? Che la fine dell’ideologia tout court – profetizzata da Bell – potesse essere essa stessa un’ideologia poco importa qui; ciò che conta è che siamo dinnanzi a una nuova, imperante ideologia: l’ideologia del funzionamento, i cui capisaldi – come fossero novelle virtù cardinali – sono l’utile, il profitto, lo standard e la valutazione. Alcune di queste sono elevate a veri feticci e si configurano come tirannie: per esempio, la “tirannia della valutazione”, retta sull’equazione «valutato, dunque sono»10. Quest’ideologia produce svariati effetti a cascata: l’individualismo, l’omologazione, l’atomismo, la frammentazione, l’isolamento, l’apatia, dei quali alcuni verranno trattati a seguire. Dunque, è in atto una progressiva e pervasiva economizzazione dell’esistenza umana, contro la quale rivendico il diritto all’inutilità. Si badi bene: non si tratta qui di difendere un neghittoso e stanco trascinarsi nella quotidianità dell’esistenza – su cui Sartre aveva già avuto modo di sintetizzare11 e sul quale ciascuno deciderà da sé – ma si tratta del riconoscimento di una complessità tutta umana, che mai può ridursi a un far di conto da ragionieri delle umane cose.
Qui si vuole sostenere il profondo inutilitarismo dell’esistenza umana e il fatto che la dignità umana non sia subordinabile ad alcun criterio di utilità. L’inutilità è uno dei temi centrali del taoismo: come recitava in uno dei capitoli interni Jie Yu – uno dei personaggi preferiti di Zhuangzi – dinnanzi a Confucio, «il grasso della torcia alimenta il fuoco che lo brucia; l’albero della cannella viene scorticato per via della sua corteccia commestibile; l’utilità della lacca fa sì che l’albero che la produce venga tagliato. Tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma nessuno conosce l’utilità dell’inutile!»12. Senza soffermarsi su quanto l’inutilità sia preziosa qualità per la filosofia stessa – memorabili le parole di Aristotele nella Metafisica13, nell’Etica Nicomachea14 e nella Politica15 – è l’uomo ad essere inutilitario. Prima dei contributi di Damasio, Churchland o Tomasello – per menzionarne alcuni – era già chiaro con Freud, verrebbe da dire, che la comprensione dell’essere umano andava configurandosi sempre più all’interno di un paradigma della complessità (o un principio d’integralità, secondo il conio di Campodonico16). Il fatto di dover considerare l’essere umano come una combinazione di elementi razionali e di elementi emozionali, di calcolo e di intuito, appariva sempre più plausibile. Insomma, qui emerge l’idea di un essere umano non riconducibile a formule, né a parametri; non riducibile a standard valutativi e a griglie di misurazione, perché nel suo Esserci autenticamente e radicalmente non sono previsti calcoli, né scorciatoie. Anzi, bisognerebbe sempre ricordarsi che

l’incontro degli uomini è umano proprio perché è complicato e complicatore, aperto alla rischiosità del provocato imprevisto. La storia dell’uomo è, per tanta parte, una complicazione inutile, nel grande e nel piccolo; ma è storia proprio per questo. […] Ridotta a termini di stretta funzionalità utilitaria, la storia umana non sarebbe. Se veramente l’umanità avesse ubbidito al principio del minimo sforzo, la civiltà non si sarebbe formata. L’uomo è il meno semplice degli animali; perciò è complicante. Le sue azioni incomprensibili sono infinite; ma spesso in queste azioni incomprensibili è l’origine di grandi comprensioni17.

Il che significa, forse brutalmente, ma assai inequivocabilmente, che «c’è un profondo inutilitarismo della storia dell’uomo»18, che va difeso, preservato, perfino alimentato. Anche perché

il problema oggi consiste nel fatto che […] si vorrebbero separare in modo del tutto artificiale i processi del funzionamento da quelli dell’esistenza, pervenendo a negare di fatto questi ultimi. […] Uno dei sintomi oggi più evidenti di tale indistinzione tra il funzionamento e l’esistenza è il modo in cui sono considerati gli anziani, trattati ormai come “vecchi”. In realtà, i nostri corpi, le nostre vite, le nostre società non possono essere compresi attraverso la griglia utilitarista del funzionamento: le dimensioni dell’esistenza, le nostre esperienze di vita implicano processi molto più complessi19.

La contemporaneità, che ci pone dinnanzi all’aridità delle relazioni interpersonali, in quanto votate all’economicità, all’ottimizzazione o, peggio, al profitto, non nega soltanto l’imperativo kantiano: finendo per considerare l’altro sempre solo come mezzo e mai anche come fine, lo squarcio nel tessuto co-esistenziale è inevitabilmente aperto. Gli altri si stagliano su uno sfondo strumentale, meramente pragmatico, e appaiono come oggetti, strumenti, accessori di cui servirsi nel quotidiano sforzo di raggiungere la (propria) felicità. Gli altri sono, appunto, utili; anzi, essi sono in quanto sono utili e fintantoché sono utili.
Perfino l’educazione viene sottomessa alla logica del funzionamento dettato dal mercato del lavoro, in cui non vi è spazio per istanze alternative: fuori dalle valutazioni e dagli standard non si funziona (e magari uno studente eccellente si perde perché la griglia che applichiamo su di lui non funziona). E nell’epoca dei beni di consumo e dell’obsolescenza, ciò che non funziona diventa uno scarto, un rifiuto, qualcosa di cui disfarsi – perché ripararlo costerebbe di più. Il guaio è che se gli altri sono per noi solo mezzi e strumenti, alla stregua di dispositivi e utensili, gli altri sono destinati a finire presto nella discarica perché non più utili. E se non ci finiscono gli altri, ci finisco io.

In una società “liquido-moderna” l’industria di smaltimento dei rifiuti assume un ruolo dominante nell’ambito dell’economia. La sopravvivenza di tale società e il benessere di coloro che ne fanno parte dipendono dalla rapidità con cui i prodotti vengono conferiti alla discarica e dalla velocità e dall’efficienza con cui gli scarti vengono rimossi. In una società simile a nulla può essere concesso di restare più dello stretto necessario. La costanza, la resistenza e la vischiosità delle cose, inanimate e animate, costituiscono il più sinistro e grave dei pericoli, sono la fonte delle peggiori paure e il bersaglio delle aggressioni più violente. La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi. Ciò che bisogna fare è correre con tutte le forze semplicemente per rimanere allo stesso posto, a debita distanza dalla pattumiera dove gli altri sono destinati a finire20.

E questa è la più grave minaccia che la società contemporanea presenta agli individui: non più la morte, ma la discarica. Perciò i “vecchi” non sono più visti come i depositari di saggezza ed esperienza, bensì come il decadimento del funzionamento. Vi è in tutto ciò un dominio della sfera biologica e medica, che finisce per ridurre l’esistenza a un fisicalismo meccanizzato, protesico, multivitaminico e rassodato. «Corollario di questa trasformazione: la morte come la nascita diventano specializzazioni mediche. Esiste ormai un buon modo di morire […]. È l’idea difesa dai mercanti del transumanismo […]. Nessun salto qualitativo separa più il vivente dal funzionamento tecnico. […] Si è quindi vecchi in una società in cui si è giunti a pensare che morire sia un difetto tecnico»21.
La morte non è più la preoccupazione primaria del vivente nella società dell’immediatezza, che vive una temporalità non più ciclica – o pseudo-ciclica, come faceva notare Debord22 – né lineare, bensì un tempo puntillistico23, schiacciato sul presente e ridotto a mero istante. L’ebbrezza di una futura coscienza digitalizzata, di un possibile mind uploading, di un’umanità aumentata, di ibridazioni potenti e persistenti, non solo risponde all’ancestrale umano desiderio di hybris, come mente-corpo senza limiti, ma dona nuovo vigore al sogno di eternità: «Il trucco sta nel comprimere tutta l’eternità fino a contenerla nell’arco della vita di un individuo. Il problema della mortalità dell’esistenza in un universo immortale è stato finalmente risolto: non ci si deve più preoccupare di ciò che è eterno, non si perde nessuna delle meraviglie dell’eternità e, anzi, nell’arco di una vita mortale diventa possibile esaurire tutto ciò che l’eternità abbia da offrire»24. A patto di non finire nella discarica.

 

Individualismo e omologazione

Il paradosso della contemporaneità è che, individuo tra individui, l’omologazione crea un mare indistinto di gocce, quella «notte in cui tutte le vacche sono nere»25, che dimentica che lo Spirito compie se stesso solo superando se stesso, ignorando che una salvezza per l’individuo è possibile solo trascendendo se stesso; ma perché ciò sia possibile, è necessario mantenere consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si è stati, del proprio passato: ricordava, puntuale, Borges, che noi «siamo la nostra memoria»26.
Uno degli effetti dell’immediatezza omologante è, in effetti, l’incapacità di distinguere: barricato dietro al politically correct del perbenismo, del buonismo, e del moralismo, il soggetto contemporaneo non è più in grado di individuare le differenze, di scorgere i dettagli, di cogliere i particolari. Anzi, si affretta a eliminarli, a celarli, senza aver tentato prima di capirli. Il vero compito morale richiede uno sforzo continuo, come un moto perpetuo, diretto a tentare di comprendere l’altro in quanto altro, in quanto diverso, non già in quanto uguale. Il mito egualitario, che ha scambiato l’eguaglianza delle opportunità per una pretesa eguaglianza di fatto, produce nel soggetto un effetto narcotico: se siamo tutti uguali, se tutto è uguale a tutto, non è più richiesta alcuna attività di comprensione, né di interpretazione da parte del soggetto, che è lasciato in una condizione di passività e di superficialità. Le capacità di discernere, di dirimere, perfino l’operazione basica di individuare (peraltro propedeutica al poter distinguere) sono tutte irreversibilmente compromesse.
Il perbenismo porta spesso con sé un parente stretto, l’effetto blasé, che Simmel attribuiva all’uomo metropolitano: «L’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite […] ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti»27. Finiamo in un brodo davvero primordiale, nel quale ogni ingrediente ha diritto di cittadinanza – senza sapere che cosa significhi essere cittadino – e ha diritto di parola – anche quando il suo dire è solo un offendere. Questa non è una ricetta; e se lo è, è una ricetta per un disastro. Democrazia liberale, scienza sperimentale, e progresso tecnologico (a partire da quello medico) hanno tutti contribuito – secondo Ortega y Gasset – a quella ribellione delle masse che finiscono per avanzare il diritto alla mediocrità, alla volgarità, e alla violenza28; di più: avanzano pretese. Una pretesa non poggia necessariamente su un diritto. Una pretesa è, anzi, e solitamente, avanzata perché non vi è alcun diritto da esercitare o – perfino più grave – perché non si conoscono i propri diritti o non si è pronti a lottare per difenderli. È l’«epoca del signorino soddisfatto»29, che è incarnato tanto dal giovane del 1930, quanto dal millennial.
Qui è in gioco la sopravvivenza della civiltà, che ha saputo sempre reagire e rinnovarsi non perdendo mai di vista se non il concetto di “bene comune”, quanto meno un senso di appartenenza ad una qualche forma di comunità – tribù, clan, famiglia – perfino senza voler puntare alla tripartizione dialettica dell’eticità hegeliana (famiglia, società civile, stato)30. È quel senso di impegno tipico della nobiltà – perché noblesse oblige31. Ed invece, sperimentiamo frammentazioneatomismo sociale, e apatia:

Il rischio è cioè di trovarsi di fronte a una popolazione sempre meno capace di darsi una finalità comune e di realizzarla. La frammentazione ha luogo quando gli esseri umani giungono a vedere se stessi in termini sempre più atomistici, ovvero come individui sempre meno legati ai loro concittadini da una comunanza di progetti e di fedeltà. […] Questa frammentazione nasce in parte da un indebolimento dei vincoli di empatia, ma in parte si autoalimenta attraverso il fallimento della stessa iniziativa democratica32.

 

Insufficienza di sé e dei legami

L’ossimoro che caratterizza la contemporaneità è dato dalla sperimentazione di un decadimento nonostante il progresso tecnico – anzi, a causa di quello: ciò che Ortega y Gasset chiama «l’aumento della vita»33 finisce per produrre uno scollamento del sé rispetto a se stesso; è la «fatica di esser sé»34. La società liquida, privata di ogni visione escatologica a lungo termine, è una continua epifania dell’immediato, un necessario, inarrestabile, frenetico rinnovamento dell’attimo stesso prima che questo sia ormai passato (quel correre per rimanere nello stesso posto). Retta dal mito del successo individuale, come in quella micidiale combinazione weberiana di protestantesimo e capitalismo delle società nordiche, la contemporaneità rende l’uomo insufficientedepresso, perché incapace di rispondere alle pressanti richieste della società, del partner, dei figli, degli amici, dei figli degli amici, dei colleghi, cioè al «sisma dell’emancipazione»35.
Gli altri, il mondo che mi circonda, le questioni importanti, gli affetti sono diluiti, centrifugati e pronti per essere assimilati senza alcuna operazione preventiva, senza uno sguardo preliminare, senza un cenno di pensiero critico, senz’alcuno sforzo; è a tutti gli effetti la liquefazione: della vita, della società, degli affetti. Parafrasando il titolo (e il contenuto) dell’opera di Musil, L’uomo senza qualità, Bauman ritiene che l’uomo contemporaneo sia senza legami. Nella società accelerata, in cui contano la velocità – non già la durata –, l’immediatezza degli esiti, la facile disponibilità e la pronta reperibilità delle risorse (beni, prodotti, persone), il legame è ormai un impaccio. Ingombrante eredità di tempi più lenti e di società non votate al mero profitto, in cui vi era tempo e spazio per coltivare amicizie e corteggiare lungamente e perdutamente amanti e spasimanti. L’amor cortese richiede un tempo che non abbiamo più: «Nel nostro mondo di individualismo rampante, le relazioni presentano i loro pro e contro. Vacillano costantemente tra un dolce sogno e un orribile incubo»36. La società dei consumi fagocita anche la sfera degli affetti, che vengono analizzati, valutati, calcolati secondo le logiche del capitale e del profitto. Nulla sfugge alla società del funzionamento.
L’epoca dei self-made men distrugge ogni possibile coltivazione di interessi profondi e legami duraturi, perché nega alla base ogni possibilità di trascendenza del sé. Qui non si sta emettendo una sentenza di condanna definitiva nei confronti dell’individualismo o della modernità in blocco, ma solo nei confronti delle loro distorsioni, delle loro derive incontrollate, che dimenticano che il sé è in quanto in relazione ad altro-da-sé. E con ciò non si deve a tutti i costi condividere la fenomenologia orteghiana, che precisa che prima viene il tu e solo dopo l’io (la cosiddetta «sorpresa dell’io»37), ma, semmai, solo il suo presupposto ontologico, per il quale l’uomo è «a nativitate apertura all’altro»38. Ma l’epoca dell’auto-realizzazione «alimenta una concezione dei rapporti interpersonali in cui questi sono messi al servizio dell’appagamento individuale»39.
La ragione strumentale di cui Taylor parla diventa lo strumento al servizio dell’individuo e della società: tutto è strumentalmente calcolato, ottimizzato, valutato e deve rientrare in precisi parametri di “qualità”: un rapporto di lavoro, un matrimonio, un corso di studi universitario, un’intera carriera, un’intera vita. Ma misurare la qualità è un ossimoro: ogni misurazione della qualità è una conversione in quantità, una forzata equivalenza di cose che equivalenti non possono e non devono essere; è cioè una frode. Del resto, i segni del decadimento della società contemporanea – scriveva Dewey nel 1930 – «sono la quantificazione della vita, col suo associato disprezzo per la qualità; la sua meccanizzazione e la tendenza quasi universale ad apprezzare la tecnica come un fine e non come un mezzo, cosicché la vita organica e intellettuale siano “razionalizzate”; e, infine, la standardizzazione»40.
La ragione strumentale che tutto pretende di calcolare, centellinando dispiaceri e dolori e presentandoci i vantaggi di ogni esperienza possibile, perché “questo vuole la società, il mercato”: master, certificazioni, qualifiche, titoli, abilitazioni si sprecano nel curriculum vitae di un neo-laureato o di un professionista. La vita oggi è una corsa a riempire il lavoro di esperienze, la casa di elettrodomestici, la giornata di divertimenti: il tutto con l’obiettivo di aumentare il controllo sul lavoro, sulla casa e sulla giornata, mentre finiamo per essere noi gli assoggettati. Dovremmo imparare a fare i conti col vuoto e con l’incerto: ma la contemporaneità è l’epoca del comfort, dell’agio, soprattutto della sicurezza – a scapito della libertà: «L’impoverimento relazionale […] può essere posto in collegamento con il fatto che la nostra è un’epoca deprivata di qualunque dimensione tragica»41; e ciò perché «la nostra è la prima società che non sa che farsene del negativo»42. La contingenza si trasforma in necessità, costi quel che costi e nella bambagia non sono ammessi intoppi. «La storia umana si ritrova, in questo modo, svuotata di tutta la sua drammaticità e ridotta a un tranquillo viaggio turistico»43. Bisognerebbe essere chiaramente educati al fatto che «la sorte della cultura, il destino dell’uomo, dipendono dalla nostra capacità di mantenere sempre vigile […] la drammatica coscienza dell’insicurezza»44.
Al di là di ogni catarsi, un destino tragico sempre attende chi non è pronto alla tragedia.

 

Note
1 J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, in J. A. Boydston, (ed.), The Middle Works, Vol. 12, SIUP, Carbondale 1976, p. 152.
2 Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 2009, II, 1106b 28.
3 Lc 14, 1-6.
4 Lc 7, 36-50.
5 A. Solženicyn, A World Split Apart, Harper & Row, New York 1978, pp. 17-19.
6 Ivi, p. 39.
7 M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 36-37.
8 C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 5.
9 Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2011, p. XX.
10 A. Del Rey, La tirannia della valutazione, Eleuthera, Milano 2018, p. 11.
11 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 752.
12 Chuang Tzu, Chuang Tzu, Feltrinelli, Milano 2017, p. 38.
13 Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2004, A 2, 982 b 24-28.
14 Id., Etica Nicomachea, cit., X, 7-8.
15 Id., Politica, Bompiani, Milano 2016, VIII, 2-3.
16 A. Campodonico, L’uomo. Lineamenti di antropologia filosofica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, p. 31.
17 P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, Morano, Napoli 1972, p. 107.
18 Ivi.
19 M. Benasayag, Funzionare o esistere?, cit., pp. 10-11.
20 Z. Bauman, Vita liquida, cit., p. XIX.
21 M. Benasayag, Funzionare o esistere?, cit., pp. 42-43.
22 G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 141 e sgg.
23 Z. Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino, Bologna 2009, p. 35.
24 Id., Vita liquida, cit., p. XV.
25 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Einaudi, Torino 2014, Prefazione, §16.
26 J. Borges, “Cambridge”, in Id., Elogio de la sombra, in Id., Obras Completas, Vol. 1, Emecé, Buenos Aires 1974, p. 981.
27 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995, p. 43.
28 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE, Milano 2001, p. 92 e sgg.
29 Ivi, p. 123 e sgg.
30 G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1990, §§ 142-360.
31 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 95.
32 C. Taylor, Il disagio della modernità, cit., p. 131.
33 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 72 e sgg.
34 A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 1999, p. 7
35 Ivi, p. 8.
36 Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2006, p. VI.
37 J. Ortega y Gasset, L’uomo e la gente, Mimesis, Milano 2016, p. 173.
38 Ivi, p. 114.
39 C. Taylor, Il disagio della modernità, cit., p. 51.
40 J. Dewey, Individualism, Old and New, in J. A. Boydston, (ed.), The Later Works, Vol. 5, SIUP, Carbondale 2008, p. 52.
41 M. Benasayag, Funzionare o esistere?, cit., p. 24.
42 Ivi, p. 29.
43 J. Ortega y Gasset, L’uomo e la gente, cit., p. 34.
44 Ivi.

 

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