La metafisica del tempo in Spinoza

Di: Alberto Giovanni Biuso
16 Novembre 2020

 

La storia della filosofia è per Yitzhak Melamed un’occasione critica di confronto, analisi e disvelamento delle credenze, dei pregiudizi, delle parzialità spesso insite nel senso comune, nella tradizione, nell’apparente evidenza dell’ovvio. Per chi così intenda anche il lavoro storiografico – e non soltanto quello teoretico – «Spinoza rappresenta una vera e propria fonte dell’eterna giovinezza» (p. 148).
La sua è infatti una «metafisica selvaggia» (108) che è assai più fecondo osservare nel suo habitat naturale piuttosto che costringere all’interno di gabbie precostituite. Spinoza, in altri termini, non va domato ma va compreso, al modo in cui Spinoza invita a comprendere le azioni umane e non a piangere su di esse, a ridere o a detestarle1.
Attraverso questo rispetto per la natura indomabile dello spinozismo, Melamed perviene a risultati ermeneutici molto interessanti. Il fondamento è il PRS, il Principio di ragion sufficiente  assunto in modo radicale e posto all’origine e alla base delle più importanti tesi sostenute da Spinoza. Si aggiunge poi una definizione molto corretta e assai chiara dei tre concetti cardinali dell’Ethica, per la quale «gli attributi possono essere paragonati ai modi spinoziani, in quanto entrambi sono proprietà: i modi sono però proprietà mutevoli che non costituiscono l’essenza della sostanza, mentre gli attributi sono eterni (E1p19) e costituiscono l’essenza della sostanza» (20), la quale ha la caratteristica della eternità atemporale, mentre i modi esistono in una durata temporale infinita. Modo vuol dire dunque e alla lettera una modificazione della sostanza che in quanto modificazione/mutamento non può che avvenire nel tempo ed essere tempo, senza che però questo introduca mutamento in Dio, vale a dire nella sostanza stessa.
Diventa subito evidente che se la questione temporale sembra porsi ai margini dello spinozismo essa in realtà abita nel suo cuore. Lo confermano alcune delle evidenze poste da Melamed a base della sua ricostruzione/interpretazione. Il rapporto tra la sostanza e i modi è una complessa e sempre dinamica relazione di inerenza, causalità, concezione, predicazione, che può essere letta anche come una emanazione che di nulla priva la sostanza e però fa esistere le forme individuali, gli enti singoli, gli eventi parziali, i processi che durano. Gli attributi sono aspetti infiniti e tra di loro causalmente indipendenti dell’unica sostanza. Unicità panteistica che, afferma giustamente Melamed, va intesa non come struttura parti-tutto ma come panteismo di sostanza-modi. Quella di Spinoza non è un’ontologia mereologica ma una assai più complessa e ricca dinamica/struttura di Identità e Differenza. È qui che convergono le critiche di Melamed: all’interpretazione idealistico/acosmista di Spinoza sostenuta da Hegel e dai romantici; al suo fondamento ancora una volta cartesiano che identifica il pensare con l’autocoscienza; alle opposte tendenze materialistiche e, appunto, idealistiche, che impoveriscono lo spinozismo della sua apertura alare assai più vasta della parzialità con la quale si è sempre tentati di vedere e comprendere l’essere.
Non è vero che la conoscenza della propria mente (autocoscienza) preceda e fondi quella del proprio corpo; non è possibile che l’attributo del pensiero sia totalizzante poiché questo ridurrebbe ogni altro degli infiniti attributi al pensiero stesso rendendo impossibile il loro essere concepiti per sé e dissolvendo così la loro struttura di attributi per ridurli a modi del pensiero, per di più anch’essi immaginari e non reali; non è vero che lo spinozismo sia una forma di eleatismo, negante il tempo, il divenire, la trasformazione. E quindi se

secondo gli idealisti tedeschi Spinoza sarebbe stato il grande epigono della tradizione monista eleatica, che affermava l’esistenza esclusiva dell’essere e negava la molteplicità, gli enti particolari, ed il mutamento; questa lettura acosmista di Spinoza, malgrado sia supportata da alcuni elementi del pensiero spinoziano, è in contrasto con almeno due dei principi cardine del suo sistema, e va dunque rifiutata. Non vi è però alcun dubbio che Spinoza sia un monista radicale: un monista della sostanza, che afferma l’esistenza di un’unica sostanza, Dio. Spinoza è però anche un pluralista radicale, in quanto afferma l’esistenza di un numero infinito di attributi della sostanza, irriducibili gli uni agli altri; ognuno di questi attributi costituisce un dominio, infinito tanto quanto il nostro universo fisico. Questo infinito pluralismo degli attributi è rinvigorito dalla barriera concettuale che li separa, e che esclude di fatto qualsiasi possibilità che essi siano riducibili l’uno all’altro; oltre ad essere un monista della sostanza, dunque, Spinoza è un pluralista degli attributi. Il fatto che sia riuscito a conciliare, con successo, queste due posizioni solo apparentemente opposte rappresenta uno dei risultati più affascinanti del suo sistema (304-305).

Il motore dello spinozismo è questo gioco infinito di unità e pluralità, di stasi e movimento, di eternità e durata, di identità e differenza. Gioco che si esprime nel concetto più complesso analizzato dal libro: la moltitudine infinitamente infinita dei modi infiniti.
L’apparente oscurità della formula è in realtà implicita nella definizione stessa di Dio come ‘ente assolutamente infinito’ che esiste in una infinità di attributi e modi, i quali come emanazione/espressione dell’infinità della sostanza devono essere anch’essi infiniti.
Anche da questa struttura discende uno dei risultati ermeneutici più innovativi di questa analisi, il fatto che Spinoza avrebbe sviluppato non una ma due teorie del parallelismo: «il parallelismo tra idee e cose (E2p7) sarebbe dunque una teoria separata dal parallelismo degli attributi (E2p7s); inoltre i due parallelismi presenterebbero caratteristiche indipendenti e separate» (234). È il secondo parallelismo a impedire la riduzione dell’essere al pensare e della materia a un Dio pensato ancora una volta come esterno alla materia stessa. Sembra a volte, e si tratta di accenni estremamente interessanti, che in Spinoza sia implicita una qualche forma di animismo: «Che ogni cosa – il che include gli esseri umani, le pietre, le banane, ed anche ogni modo del ventisettesimo attributo a noi ignoto – sia animata è una tesi che potrebbe sembrare assai controintuitiva, ma data la giustificazione spinoziana, non mi sembra che si possa evitarla. In Dio, infatti, vi è un’idea per ogni cosa; quest’idea è abbastanza per rendere quella cosa animata, o per fornirle una mente» (259-260).
L’essere è dunque uno ed è insieme plurale, è sempre uguale alla propria unità ed è sempre cangiante nei suoi aspetti, è eterno e dura, è sempre identico e sempre diverso. Ecco la natura selvaggia, sempre chiusa e sempre aperta della metafisica spinoziana. È chiaro che una metafisica simile si pone di per sé al di là di ogni antropocentrismo, di ogni antropomorfismo, di ogni teismo, di ogni morale. La metafisica selvaggia di Spinoza è al di là del bene e del male perché è al di là dell’ἄνθρωπος.

È interessante il fatto che Melamed sembra a volte avere difficoltà a rimanere all’altezza di questi risultati e tenda a tornare a un più rassicurante – per molte tradizioni metafisiche e religiose – primato del pensiero. La questione è complessa ma è centrale e anche programmatica. Sin dall’inizio infatti l’autore dichiara che «l’uso del termine ‘metafisica del pensiero’, preferito a ‘filosofia della mente’, è intenzionale […] il dominio del pensiero, per Spinoza, è molto più vasto di qualsiasi categoria che si associ alla mente umana» (23); Spinoza sosterrebbe un dualismo non di mente e corpo ma di pensiero ed essere, dentro il quale «abbraccia la chiara priorità del pensiero senza cadere nell’idealismo che ridurrebbe i corpi a pensiero» (25). È significativo di questa lettura quello che a me sembra un vero e proprio lapsus. Analizzando infatti E2p7s, Melamed scrive che secondo Spinoza «le menti sono individui». E tuttavia lo scolio in oggetto non parla di ‘menti’ ma della loro unità, dei corpimente: «la mente e il corpo sono un solo e identico individuo che viene concepito ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto quello dell’estensione’» (131-132).
Pur criticando ripetutamente, come abbiamo visto, ogni lettura e conclusione idealistica, Melamed ritiene probabilmente altrettanto ingiustificata la tesi di chi, come Charles Jarrett, sostiene non esservi dubbio «‘che la sostanza unica spinoziana sia materia’ e propone che forse bisogna considerare ‘il pensiero come composto di materia mentale o energia, nello stesso senso in cui i corpi sono composti di materia fisica’» (cit. nella nota 13 di p. 113).
La fascinazione verso «il dominio del pensiero», mutuata pur se in modo critico dal suo relatore di dottorato Michael Della Rocca, spinge Melamed a prendere in seria considerazione ciò che non si può non definire un esse est concipi, pericolosamente vicino a quello di Malebranche (si esiste solo perché Dio pensa a noi e a tutto il resto) e al, pur se di segno diverso, esse est percipi di Berkeley: «Per quanto mi trovi d’accordo con Della Rocca riguardo all’assoluta centralità del PRS all’interno del sistema spinoziano, e riguardo al suo slogan ‘essere significa essere concepito’, per quanto mi riguarda questo slogan deve tradursi in un equilibrio non riduzionista tra pensiero ed essere. Mi sento dunque di rifiutare la riducibilità dell’esistenza a mera concezione, dato che questa riduzione sovvertirebbe la barriera concettuale tra gli attributi. […] Questo dualismo è piuttosto sorprendente, perché il pensiero non è altro che uno degli aspetti dell’universo; eppure, per quanto mi riguarda, è una posizione del tutto coerente» (302 e 305).
Talmente importante è nell’economia del testo questa tesi da essere ribadita, in modo più generale e condivisibile, nella conclusione del libro: «Spinoza, non è né materialista né idealista, e nemmeno il termine ‘dualista degli aspetti’ sarebbe capace di definirlo adeguatamente; la sua posizione, infatti, assegna al pensiero una chiara preminenza, senza però sconfinare nell’idealismo riduzionista. Qui, forse, possiamo osservare il vero genio filosofico di Spinoza» (307).

Come si vede, si tratta di uno studio molto serio, ricco e rigoroso. Qualche riserva va espressa sulla forma in cui questi importanti risultati vengono conseguiti. Yitzhak Melamed cerca infatti di conciliare il metodo storico con le modalità analitiche ma questo ha spesso come risultato di implementare gli aspetti più pedanti di entrambe le tendenze, quali un apparato di note francamente debordante, il confronto continuo e ossessivo con alcuni altri interpreti – in particolare Ed Curley e il già ricordato Della Rocca –, una generale complicata oscurità che conferma il fatto che Spinoza risulti quasi sempre più limpido dei suoi interpreti, anche perché ciò che gli Scolastici fecero con Aristotele, gli analitici fanno con Spinoza e con ogni altro filosofo che affrontano, involvendolo in complicazioni linguistiche che rischiano di sconfinare nella illeggibilità.
Nonostante questi limiti formali, la sostanza del libro di Melamed è molto feconda, in particolare là dove mostra la realtà del mutamento e quindi del tempo in Dio, anche perché «per Spinoza le cose finite non sono pure e semplici illusioni: di conseguenza, la diversità e il mutamento sono reali» (139) e sono fondate sulla «distinzione tra eternità (aeternitas), durata (duratio), e tempo (tempus)» la quale «si situa al centro stesso della metafisica spinoziana» (162). In particolare la lettera 12 «suggerisce che la natura dei modi debba essere spiegata in termini di durata, mentre l’esistenza della sostanza debba essere spiegata in termini di eternità» (200).
Tutto questo conferma la dinamica tra eternità e durata, che è il tempo stesso del cosmo: «per Durationem enim Modorum tantum existentiam explicare possumus; Substantiae ver per Æternitatem, hoc est, infinitam existendi, sive, invita latinitate, essendi fruitionem», ‘con la durata possiamo infatti spiegare soltanto l’esistenza dei modi, mentre quella della sostanza richiede l’eternità, cioè una fruizione infinita dell’esistenza o, malgrado il latino, dell’essere’2. Anche sul fondamentale tema del tempo, Spinoza conferma dunque la struttura insieme unitaria e plurale della sua metafisica. Questa «differentia inter Æternitatem, & Durationem», “differenza tra eternità e durata”3 è infatti una delle risposte meglio argomentate e più feconde alla questione del rapporto tra materia e tempo.
Se la sostanza spinoziana è certo in quanto causa sui fuori dal tempo, la sua struttura è tuttavia anche un procedere senza posa nelle infinite forme degli attributi e nel numero infinito dei modi. Lo spinozismo non può essere ricondotto e ridotto a una pura topologia matematica, in esso vive ed emerge piuttosto la sistole e diastole plotiniana dell’emanazione. In Spinoza tale processo è già tutto racchiuso nel gomitolo dell’essere che rimane sempre compreso e perfetto nella sfera senza tempo della sostanza, e tuttavia la sua vera vita si svolge nel tempo che i modi degli attributi non soltanto producono incessantemente ma, assai di più, nei modi che essi sono. Il pensiero di Spinoza è una filosofia della pienezza dalla quale il tempo – materia universale e profonda di tutte le cose – non viene escluso. Fondamentale per comprendere la presenza e centralità del divenire nella metafisica spinoziana è la distinzione, ben argomentata lungo tutto il testo di Melamed, tra tempo, durata ed eternità.
Il tempo è per Spinoza una nozione astratta e matematica, è un ente di ragione che serve come misura della durata, la quale è invece il modo in cui le cose finite esistono, è il continuare di tutto ciò la cui esistenza non è implicita nell’essenza, il permanere di tutto ciò che ha un inizio e una fine. Durata ed esistenza sono dunque per Spinoza sinonimi. Che cosa accade nella Sostanza spinoziana? Il tutto in cui consiste può stare fuori dal tempo se le parti di cui si compone sono evidentemente conatus, tempo in atto, materia che diviene? La metafisica della Sostanza non esclude il divenire e accoglie piuttosto la differenza ontologica tra l’essere e gli enti: temporali i secondi, onnitemporale il primo. La metafisica spinoziana si tende dentro la materia sino al punto da coglierne la struttura di fondo, la quale è da sempre ed è per sempre, ma che intanto, nella complessità sconfinata delle sue modalità, è durata che diviene, è anch’essa tempo4.

 

Note
1 «Sedulo curavi, humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere», Tractatus politicus, cap. I, § 4, in Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2011, p. 1632.
2 Lettera 12 a L. Meyer, 20.4.1663, in B. Spinoza, Tutte le opere, cit., p. 1858.
3 Ibidem.
4 Le riflessioni che chiudono questa recensione sono tratte dal mio «Necessità e tempo nella metafisica di Spinoza», in InCircolo, n. 8, dicembre 2019, pp. 53-68, al quale rimando per ulteriori argomentazioni.

 

Yitzhak Y. Melamed
La metafisica di Spinoza: sostanza e pensiero
a cura di Emanuele Costa
Mimesis, Milano-Udine 2020
Pagine 335
€ 26,00

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