Università sotto tiro. Miti e realtà del sistema universitario italiano (II parte)

Di: Francesco Coniglione
4 Febbraio 2011

(prosegue dalla I parte)

Sognando California

Era questo il titolo di una canzone assai celebre nel ’68, che vedeva nella California lo stato americano più libero, più creativo e più anticonformista, così com’è tuttora. Ma la California è anche lo stato delle più prestigiose università e della mitica Silicon Valley, nella quale è allocata la ricerca di punta degli Stati Uniti. Assumendo la California a simbolo della ricerca avanzata, è anche la canzone che potrebbe essere oggi cantata da molti critici dell’università italiana, che vedono negli Stati Uniti la patria dell’eccellenza scientifica e il modello universitario che si dovrebbe prendere ad esempio nella ristrutturazione delle traballanti istituzioni accademiche italiane. Tale giudizio si basa su tre miti1, e cioè che in America:

  • la ricerca è essenzialmente finanziata da privati;

  • la ricerca è essenzialmente ricerca di eccellenza;

  • che avere ricercatori eccezionali è sufficiente.

Ma vediamo sino a che punto questi miti corrispondano alla realtà e iniziamo dalla ricerca. Per avere un quadro complessivo della situazione è fondamentale stabilire innanzi tutto una distinzione tra spesa per ricerca nel suo complesso (quindi quella effettuata dalle industrie intra muros, da enti di ricerca vari e dal sistema universitario) e spesa per la ricerca effettuata solo nelle università (e quindi escludendo la ricerca industriale e quella di altri enti di ricerca non di carattere accademico). Ciò perché spesso in Italia si fa confusione tra le due e, ad esempio, si sostiene che la ricerca e le università (assunte le due cose in modo indistinto) siano negli Stati Uniti prevalentemente finanziate dal settore privato. Ma se ciò è vero per la ricerca in generale, non lo è per le università e la ricerca in esse compiuta.
E infatti se consideriamo quest’ultima e prendiamo in esame la distribuzione della spesa per R&S nelle università americane relativa all’ultimo anno disponibile, si evince che gran parte dei finanziamenti per la ricerca (il 60%) provengono dal governo federale e che solo il 6% proviene dall’industria. Se si considera che vi è anche un 7% di finanziamenti provenienti dagli Stati e dai governi locali, il totale dei finanziamenti pubblici sale al 67% (vedi la figura 15). È notevole anche il 20% derivante da fondi propri delle istituzioni, ovvero da ciò che le università investono grazie ai proventi che vengono da donazioni e attività economiche di vario genere, come la vendita di brevetti o la partecipazione al loro sfruttamento.

Un indicatore più parziale, ma egualmente significativo per confermare quanto già detto, è quello che concerne gli investimenti per ricerca scientifica e sviluppo nel campo denominato “Science & Engineering” (S&E)2. Secondo i dati più recenti, anche in questo campo, che dovrebbe essere quello a cui è più interessata l’industria, questa contribuisce solo per il 6% del totale della spesa, e ciò malgrado tale voce sia aumentata rispetto al 2008 dell’11,6%. Inoltre apprendiamo che v’è stato un incremento rispetto al 2008 del 5,8% (il 4,2% se si tiene conto dell’inflazione). Benché i finanziamenti del governo federale siano scesi dal 2005 di cinque punti percentuali (dal 64% al 59%), tuttavia esso rimane la fonte più consistente di finanziamento. Infine sotto la voce “Altro” sono inclusi i finanziamenti provenienti da organizzazioni non-profit e da altre entità non governative. Notevole, infine, che il 75% del totale dei fondi sia destinato alla ricerca di base e il rimanente a quella applicata e allo sviluppo (vedi la figura 16). Quest’ultimo dato è comprensibile in relazione al fatto che per quanto riguarda il finanziamento della ricerca scientifica in generale (e quindi non solo nelle università), constatiamo che nel 2008 le spese per R&S del settore privato sono circa il 68% del totale; ed in questo si concentra maggiormente il finanziamento della ricerca applicata e di sviluppo. Proprio questo dato segna la più macroscopica differenza con la situazione italiana, che si caratterizza per il bassissimo tasso di investimento dell’industria e del privato in ricerca, sia intra muros che all’interno del sistema universitario (vedi la figura 17). È questo “il buco nero” della ricerca italiana nel quale sta venendo risucchiata l’Italia dell’innovazione3. La distanza dagli Stati Uniti è abissale, ma anche il distacco dell’Italia dall’EU (nelle sue varie composizioni) è enorme ed è cresciuto progressivamente dal 1981 al 2008, con una timida inversione di tendenza negli ultimi due anni. Anche in rapporto al Pil, l’investimento del settore “enterprise and business” italiano è largamente al di sotto degli Stati Uniti e delle medie europee. Secondo le informazioni tratte dal databank di Eurostat, in Italia il tasso va dallo 0,51% sul Pil del 1998 allo 0,6% nel 2009, con una leggerissima variazione in aumento nel corso di dieci anni; ma sia in valore assoluto, sia in tasso di crescita siamo sempre al di sotto degli altri paesi. Nel periodo 1998-2009 gli Stati Uniti passano dall’1,9% al 2%, l’EU27 dall’1,13% all’1,21%, l’EU15 dall’1,17% all’1,28% e l’area dell’euro dall’1,16% all’1,22%. Insomma siamo alla metà circa dell’Europa e ancora più indietro rispetto agli Stati Uniti. Nell’OECD fanno peggio di noi solo paesi che non hanno una tradizione di imprenditoria privata alle spalle e che in ogni caso non si fregiano di appartenere al G84. Anche i dati forniti dall’OECD sono sostanzialmente convergenti: basti dire che rispetto alla media OECD di spesa sul PIL dello 1,65% nel 2008, l’Italia conferma il suo 0,6%5.

Ritornando al settore dell’università americana il suo finanziamento complessivo (e non della sola R&S – vedi figura 18) comprende ovviamente anche il mantenimento delle strutture, dei servizi e di tutte le facilities per studenti e personale; e una cosa è il finanziamento delle università di ricerca, un’altra quella dell’intero sistema dell’educazione postsecondaria. Per quanto riguarda le “research universities” pubbliche apprendiamo da un rapporto del 2003 del Council on Governament Relations (l’associazione delle università di ricerca) che il 22% dei finanziamenti delle università non private proviene da commesse e contratti di ricerca pubblici e il 31% da finanziamenti non per ricerca federali, statali e locali; così il 53% delle risorse ha origine pubblica. Poi una buona fetta è assicurata da tasse e contributi ed è quindi a carico degli studenti (il 13% – in Italia è stato calcolato che nel 2007 le entrate contributive sono del 7,8%) e un 14% concerne le “auxiliary enterprises” che di solito concernono tutte attività legate alle rette per alloggio, alle gare sportive, alla vendita di libri, gadget e altro, e infine ai servizi mensa, che di solito non ricevono sussidi dall’esterno e che quindi non solo devono essere finanziariamente autonome, ma devono assicurare anche un profitto (con le dovute eccezioni, in quanto può essere ritenuto che questi siano aspetti strategici della missione di una particolare università e quindi essere sovvenzionate). Il 6% delle “vendite e servizi” concerne tutti i ricavi derivati dal processo educativo, di ricerca o di servizio pubblici, come ad es. affitto di film, pubblicazioni scientifiche e letterarie, servizi di test, tipografia universitaria, cure cliniche e mediche e così via. Il 5% delle altre entrate comprende tutto ciò che non è classificato nelle voci precedenti. Le donazioni e finanziamenti privati sono solo il 9% delle entrate e sono possibili grazie al fatto che le università americane sono non-profit e quindi permettono il meccanismo virtuoso della detrazione fiscale. Nel confronto con quelle pubbliche, le università private vedono l’assoluta assenza di finanziamenti federali, statali e locali (un netto 0% che fa scomparire lo spicchio dalla torta), l’aumento delle tasse degli studenti e delle iniziative collaterali e anche leggermente dei finanziamenti per ricerca pubblici, mentre diventano assai più consistenti i finanziamenti privati che salgono al 22%. Insomma le università di ricerca americane (quelle al top che tanto invidiamo) sono per lo più pubblicamente finanziate e solo per una modesta quantità dai privati; ed è anche falso che si mantengono con le tasse degli studenti. Inoltre, altra consistente differenza rispetto al sistema italiano, le università private sono veramente tali e non “private con i soldi pubblici” come invece avviene da noi.
Mi sembra che da quanto abbiamo illustrato risulti sfatato il primo mito sulle università americane, ovvero che esse siano finanziate prevalentemente dal settore privato.

Per quanto riguarda il secondo mito –l’eccellenza della ricerca americana– non v’è dubbio che le università americane siano tra le prime del mondo, come è dimostrato anche dai dati bibliometrici che abbiamo prima esaminato. Inoltre di solito si citano i 270 Nobel vinti da ricercatori americani nel periodo 1991-2002, un numero quattro volte superiore a quello dei paesi che seguono (Gran Bretagna, Germania, Francia, Svezia); ma l’Italia col suo 8° posto conferma nella sostanza le buone prestazioni dei ranking bibliometrici. Tuttavia, come hanno fatto osservare Boggio e Ferraro «il mondo della ricerca negli Stati Uniti è estremamente ramificato, ed include anche piccole università che spesso si occupano di ricerche importanti solo a livello locale. Senza di loro le università maggiori (che poi sono una minoranza) non potrebbero concentrare i loro sforzi sulla ricerca di base, per sua natura molto rischiosa e senza applicazioni immediate»6. E aggiungiamo che spesso in questa miriade di università minori la ricerca è di basso profilo, come del resto stanno a testimoniare i ranking internazionali. Infine è da osservare che il sistema universitario americano è assai vasto in quanto comprende più di 4.000 università che conferiscono una laurea (secondo il National Center for Education Statistics sono 4352 nel 2007-08) e prevede tipologie di università molto differenti, che vanno da quelle cosiddette “di ricerca” (con due tipologie, quelle con “very high research activity” e quelle con “high research activity”) ai “Tribal colleges”, secondo la classificazione della Carnegie Foundation fo the Advancement of Teaching che elenca ben 33 tipologie. Per fare un esempio le università con “very high research activity, cioè quelle al top, sono in tutto 96. Questo quadro conferma quanto prima avevamo detto (e che del resto accade anche per altri settori della vita associata, come ad esempio la sanità): il sistema americano ha una performance eccellente solo per un limitato numero di università laddove quello italiano non ha tali picchi di eccellenza, ma piuttosto riesce a mantenere alti standard qualitativi medi. Ma sorge a questo punto naturale la domanda: e se le università italiane fossero finanziate agli stessi livelli delle università americane, almeno di quelle eccellenti, cercando di qualificare e migliorare quelle che già da ora hanno le migliori performance e di correggerne le storture, cosa accadrebbe? Sarebbero solo soldi “buttati nel forno”?

Infine il terzo mito: avere ricercatori eccezionali è sufficiente. Questo richiederebbe un discorso più articolato e lungo, in quanto sarebbe necessario domandarsi: sufficienti a cosa? È ormai invalsa l’idea che il compito precipuo delle università sia quello di fare ricerca, e possibilmente utile per le sue ricadute tecnologiche e la sua fruibilità sul mercato. Ma come si vede dall’esempio americano, le università di ricerca sono solo una piccola minoranza sul totale e inoltre non fanno solo ricerca, ma anche didattica e preparazione per le professioni; e un docente non viene giudicato solo per le sue qualità di ricercatore, ma anche per quelle di insegnante e di amministratore/organizzatore: sono questi i tre assi che compongono la valutazione che se ne dà. Gran parte del sistema universitario americano non è dedito alla ricerca e difatti viene finanziato pubblicamente perché ha altri scopi ritenuti altrettanto importanti: perdere di vista l’intero sistema per fissare lo sguardo solo sulle università di ricerca al top delle graduatorie (le solite Harvard, Princeton, MIT e così via) significa guardare pochi anche se rigogliosi e splendidi alberi, perdendo di vista il sottobosco che ne permette la crescita.
In secondo luogo non bisogna dimenticare che le università hanno una funzione generale nei confronti della società, che oggi purtroppo viene sempre più trascurata a favore della loro dimensione produttiva e propulsiva dell’innovazione e dell’economia o di semplice preparazione per le professioni; il numero “programmato” che si sta introducendo sempre più massicciamente nelle università italiane ne è un sintomo. Tale funzione si lega a tutti quei benefici non direttamente economici che hanno a che fare con una migliore qualità del capitale umano e con la creazione di una maggiore consapevolezza culturale, che si traduce in benessere collettivo, in migliore qualità della vita, in maggiore coesione sociale, in più consapevole e ampia partecipazione democratica. Non è un caso se l’EU, col programma di Barroso per il 2020, si è posto l’obiettivo di raggiungere il 40% della popolazione di 30-34 anni con la formazione universitaria completata: una meta che sarebbe irragionevole se si dovesse solo puntare a creare un sistema di università di eccellenza, finalizzato solo alla ricerca scientifica e allo sviluppo, con una conseguente riduzione del complessivo numero di laureati.
Ma le università hanno un ruolo cruciale anche in quanto conservano quella che da secoli ha costituito la nostra eredità culturale, perché in esse è possibile conciliare tradizione e modernità: loro caratteristiche fondamentali sono in questo caso resilienza e flessibilità7. Una società guidata dalla conoscenza globalmente intesa necessita di cittadini maturi, in grado di comprenderne la complessità e di orientarsi in essa; altrimenti non faremmo altro che costruire una società di subalterni, di individui schiavi delle altrui decisioni e incapaci di pensiero autonomo. Per tali ragioni istruzione, democraticità, pace, sicurezza e benessere generalizzato, rappresentano fattori strettamente concatenati tra loro e interdipendenti; ma tra di essi, l’istruzione è l’elemento strategico sul quale dovrebbero esser concentrati gli sforzi pubblici internazionali. È dalle università e nelle università che si decide quali cittadini e quale società costruiremo per il nostro domani. Democraticità e ignoranza sono incompatibili; pertanto l’università, preso atto di avere in mano una enorme responsabilità extra-scolastica ed extra-accademica, dovrebbe esser rivalutata e sostenuta da istituzioni nazionali e internazionali. Ma forse proprio tutto ciò è quello che non vuole la nostra classe politica, che sull’ignoranza propria e della gente pensa di poter perpetuare il proprio potere. Come ha sostenuto Sébastien Charles

di fronte all’atomizzazione del sociale, sembra importante preservare un luogo dove venga proposta una riflessione generale e non specialistica, dove sia condiviso un insieme di conoscenze identiche al fine d’abitare un mondo culturale comune e di partecipare a dei valori comuni. In un certo modo può essere che noi oggi abbiamo meno bisogno di esperti che di uomini onesti, nel senso del diciassettesimo secolo, vale a dire di persone capaci di riflettere sulle problematiche complesse che i nostri universi democratici non cessano di creare e di ricreare. E questa formazione è tanto più determinante in quanto l’orizzonte individualista delle nostre società multiculturali rende sempre più problematica la creazione di un mondo comune, o di una cultura comune, favorevole al vivere assieme ed alla tolleranza. La specializzazione e la competenza erudita possono attendere il secondo e terzo ciclo di studi, ma l’acquisizione di una cultura generale da parte di una maggioranza sempre più importante di cittadini è vitale all’esercizio della democrazia8.

Dimenticare questi aspetti e queste missioni dell’università per appiattirla alla sola dimensione produttivistica, cui anche la ricerca scientifica dovrebbe essere subordinata, significa sminuirne il ruolo e non comprendere l’enorme significato che essa ha ancora per una società migliore.

Maledetto sia il barone

Abbiamo più volte rilevato in precedenza come la critica dei mass media e dello stesso Ministro Gelmini (come anche di molti settori della sinistra) si sia incentrata negli ultimi tempi sul baronaggio universitario. È di questi ultimi tempi la contrapposizione tra chi si propone di “tagliare le unghie ai baroni” dell’università, consigliando agli studenti di non farsi da essi “strumentalizzare”, e chi invece ritiene che la riforma Gelmini tutto sommato non ne limiti il potere, ma anzi lo amplifichi. Con la tacita assunzione che questo potere sia comunque da limitare o da liquidare, perché starebbe all’origine di tutte le magagne dell’università: da parentopoli alla decadenza della qualità degli studi universitari. Una singolare coincidenza, questa, con le rivendicazioni dei contestatori del ’68, quel medesimo movimento che oggi viene additato come l’origine di tutte le nequizie nella scuola e nell’università e che si vorrebbe definitivamente superare con la riforma Gelmini. Che i suoi critici siano oggi diventati una reincarnazione dello spirito di quei tempi? Sarebbe proprio paradossale.

Ma una parola chiara sul potere dei baroni è necessaria, specie a beneficio degli studenti, che sono stati anche accusati di volere fare “il loro gioco”, e che in merito spesso hanno idee confuse. Ebbene lo diciamo con chiarezza e senza peli sulla lingua: da che università esiste, ieri ai bei tempi andati come in quest’oggi disperante, in Italia come negli elogiati Stati Uniti (e in tutti i paesi occidentali più evoluti), non si è fatta carriera e non si è avanzati scientificamente senza lo strumento della cooptazione; ovvero senza che i “baroni”, cioè coloro che hanno raggiunto la vetta della carriera scientifica e accademica, decidessero chi fosse meritevole di andare avanti e chi no. Pensare che sia possibile un altro meccanismo “oggettivo”, con parametri, prove, punteggi o qualunque altra diavoleria si voglia inventare, non solo finirebbe per alterare quello che è il meccanismo normale di avanzamento scientifico (applicato in tutto il mondo), ma risulterebbe comunque inefficace, in quanto i “baroni” sono abilissimi nel trovare in ogni caso il modo per eludere le più severe regole che si possono imporre. E anzi troverebbero nel rispetto formale a tali criteri e regole l’alibi per una loro violazione sostanziale e per “preparare” adeguatamente le carriere dei propri famigli, in maniera da essere dal loro punto di vista perfettamente in regola.
I meccanismi che si sono sinora escogitati per evitare le “cordate e le camarille accademiche” rischiano di aggravare la situazione. Si pensi al sorteggio previsto per la formazione delle commissioni nazionali di valutazione nella riforma Gelmini. A parte il fatto che i sorteggiati devono essere tutti tra i professori ordinari (ovvero tra i “baroni”), per cui non si capisce come il loro potere venga limitato, quali potrebbero essere i risultati di simile meccanismo? Due, uno più ragionevole e prevedibile, un altro imprevedibile e di natura selvaggia. Nel primo caso, i settori scientifici disciplinari si accorderebbero in anticipo sui candidati meritevoli di idoneità, in modo che chiunque venga sorteggiato tra coloro che, in possesso degli standard qualitativi prescritti, si autocandideranno sia (nella misura in cui appartiene comunque a una cordata) il semplice esecutore di una volontà assunta altrove, dalla cosiddetta “corporazione accademica”. E questo, tutto sommato, sarebbe un comportamento virtuoso, in quanto le candidature dovrebbero passare il filtro di una valutazione da parte degli studiosi che più contano a livello nazionale. Nel secondo caso, qualora vengano sorteggiati dei cosiddetti “cani sciolti”, questi potrebbero fare il bello e il cattivo tempo, cogliendo l’occasione per far passare candidati improponibili e scarsamente qualificati, che altrimenti non potrebbero mai più ottenere un avanzamento: si potrebbe non essere più sorteggiati anche per venti anni. Si innescherebbe una situazione di “assalto alla diligenza”: approfittiamone ora, perché altrimenti chissà quando ci capiterà una nuova occasione! In entrambi i casi, sempre di cooptazione si tratta, virtuosa o viziosa che sia; e sempre i “baroni” avrebbero l’ultima parola. Inoltre –e forse è questo il punto più inquietante- ottenuta l’idoneità nazionale (che, essendo a numero aperto, risulterà inevitabilmente generosa perché nessuno vuole pestare i piedi al proprio collega di disciplina, a “buon rendere”), la palla passa ai Dipartimenti e alle università: chi ci assicura che queste scelgano con acume tra i molti idonei, preferendo i migliori o quelli disciplinarmente più utili e non i mediocri, ma più raccomandati o appartenenti alla “cordate forti”, sempre formate dai baroni più potenti? O addirittura, non siano protetti dagli eventuali politici o loro rappresentanti che nel contempo è facile che facciano parte del Consiglio di Amministrazione, nella nuova composizione post- riforma?

Il male non consiste dunque nel potere dei baroni, ma nel fatto che questi siano irresponsabili delle scelte che fanno; e che lo siano, a cascata, anche i dipartimenti, le facoltà e gli atenei. Nessun dipartimento risponde a chicchessia per aver dei ricercatori asini o per aver accettato i parenti e le amanti dei baroni: nessuna valutazione, nessuna conseguenza, nessun prezzo da pagare. E fino a quando il comportamento virtuoso non comporterà dei vantaggi consistenti e quello vizioso delle penalizzazioni, sarà del tutto inutile escogitare meccanismi più o meno complessi di avanzamento. Nella tanto lodata America, spesso imitata a sproposito, un dipartimento che assume dei ricercatori scadenti, avrà meno possibilità di ottenere contratti di ricerca e così l’intera università disporrà di minori fondi per finanziare le proprie attività (dato che -come abbiamo visto– dal 40 al 50% dei fondi per ricerca servono per pagare i “costi indiretti”, cioè tutte le spese per strutture, laboratori, biblioteche e quant’altro serva al suo funzionamento). È allora fondamentale accaparrarsi i ricercatori migliori, che con il loro prestigio e le loro capacità siano in grado di attrarre finanziamenti.
Ma in Italia i finanziamenti vengono ripartiti in base al FFO con criteri che nulla hanno a che fare con la qualità della ricerca. E così se in un dipartimento c’è qualche ricercatore bravo o non ce n’è alcuno, poco cambia. Anzi quelli bravi danno fastidio e vengono osteggiati sia perché fanno risaltare le negatività altrui, sia perché “si allargano troppo” e quindi devono aver segate le gambe. I meccanismi che si sta cercando di mettere in atto o che con la riforma Gelmini ci si propone di avviare per rimediare a tale situazione sono così omeopaticamente lenti e diluiti, da far a ciascuno pensare che sia meglio l’uovo oggi (ovvero, sistemare il proprio parente o l’asino di turno subito), che la gallina domani (ovvero i premi o gli incentivi di produttività vagheggiati in un futuro lontano); che sia più conveniente incassare immediatamente e personalmente, che puntare su un impersonale e complessivo miglioramento futuro dell’ateneo. Ecco un punto su cui sarebbe stato necessario più coraggio, magari adottando altre misure che la riforma Gelmini –pur andando nella giusta direzione- lascia per lo più sotto la forma di principi generali la cui concreta attuazione è condizionata, tra l’altro, dalla scarsità delle risorse messe a disposizione.

Ma questo è solo un esempio, che concerne un punto molto specifico: il potere dei baroni e le distorsioni che da esso scaturiscono. Ma siamo sicuri che sia questo il problema dell’università italiana? Che esso si riassuma nel “baronaggio”? Mi pare che questa sia una frontiera ormai arretrata, buona a distogliere da altri ben più pressanti questioni. E mi pare, come si evince da tutto il discorso che abbiamo sinora fatto, che i problemi che deve affrontare il sistema universitario siano in buona parte diversi, in qualità e quantità, rispetto a quelli che sono stati maggiormente sotto la lente d’ingrandimento della pubblica opinione e che hanno motivato un senso di ostilità e un atteggiamento punitivo verso l’università. Forse un’attività di riforma passo passo, di ingegneria istituzionale volta a correggere le varie distorsioni in essa presenti, all’interno di un disegno coerente caratterizzato dagli obiettivi dell’eccellenza, della valutazione e dell’autonomia (oltre che dal diritto allo studio), sarebbe stato più efficace di un tentativo onnicomprensivo che richiede decine di decreti attuativi e che rischia ancora una volta di lasciare l’università in mezzo al guado. E su numerosi punti di questa graduale correzione ormai v’era la sostanziale convergenza di molti settori della società e dello stesso mondo universitario. Sarebbe stato necessario cercare un colloquio, avere una maggiore disponibilità a sentire le voci diverse, per cercare di portarle a sintesi e quindi procedere per piccoli passi correggendo e rettificando ove necessario. Ma è prevalso –così com’era anche accaduto con la riforma Berlinguer– il modello dirigistico, decisionista, che deve dimostrare di saper produrre “fatti” da portare poi di fronte all’opinione pubblica per incassarne l’appoggio. E così ancora una volta si è subordinata a un disegno ideologico una reale ed efficace prassi operativa e riformatrice.

[L’Autore ha preparato una pagina, costantemente aggiornata, nella quale inserisce nuovi dati e ulteriore documentazione.
Invitiamo i lettori a visitarla. NdR]

NOTE

Per una migliore leggibilità delle tabelle consigliamo di aprire le immagini cliccando sopra ciascuna di esse.

1 A. Boggio, F. Ferraro, Tre miti sulla ricerca in America (2007), in: http://www.lavoce.info/articoli/pagina2871-351.html

2 Di questo raggruppamento fanno parte anche la psicologia e le scienze sociali, che in Italia fanno tradizionalmente parte del gruppo umanistico. Sono invece escluse le cosiddette “humanities”, come storia, archeologia, filosofia, letteratura, scienze giuridiche, economia, scienze politiche e internazionali, ecc.

3 Cfr. P. Greco, S. Termini, Contro il declino, Codice, Torino 2007, pp. 62-69.

4 Sono la Bulgaria (0,15%), l’Estonia (0,56%), Cipro (0,15%), la Lettonia (0,15%), la Lituania (0,19%), l’Ungheria (0,53%), Malta (0,35%), la Polonia (0,19%), la Romania (0,17%), la Slovacchia (0,2%), la Croazia (0,4%), la Grecia (0,16% – dato 2007) e la Turchia (0,3% – dato 2007).

5 Cfr. OECD, Measuring Innovation. A New Perspective, OECD, Paris 2010, p. 76.

6 Boggio, Ferraro, Tre miti sulla ricerca in America, cit.

7 Cfr. K. Robbins, “Universities: Past, Present, and Future”, Minerva 41, 2003, pp. 397-406; L. Weber, J.J. Duderstadt (eds.), Reinventing the Research University, Economica Ltd, London-Paris-Geneve 2004, pp. 4, 239.

8 S. Charles, L’ipermoderno spiegato ai bambini. Lettere sulla fine del postmoderno, Bonanno, Acireale-Roma 2009, p. 135.

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