Tempo genetico e memoria

Di: Alberto Giovanni Biuso
9 Aprile 2011

Ciò che il corpomente memorizza istante dopo istante, incontro dopo incontro, pensiero dopo pensiero, non sono degli eventi ma dei significati, è il senso che noi attribuiamo agli eventi. Schopenhauer ha ragione: «il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione»1. È altrettanto vero che questa capacità di interpretare gli eventi che ci accadono secondo una Stimmung serena oppure angosciosa dipende da una molteplicità di fattori.
La cronoriflessologia di Vincenzo Di Spazio -medico e ricercatore a Bolzano- ha individuato alcuni tra i più radicali e profondi di tali elementi, quelli che affondano nella memoria corporea non soltanto dell’individuo ma anche dei suoi genitori, familiari, antenati e -alla fine- dell’intera specie e, filogeneticamente, oltre essa:

L’orizzonte temporale del nostro patrimonio genetico si estende così indietro nel tempo evolutivo, da lasciare senza fiato; significa in altro modo che dentro di noi si agita ancora l’ombra della scimmietta Pau, il modo con cui afferrava frutti e bacche, ma forse anche la rabbia delle lotte con i suoi simili per garantirsi la supremazia nel gruppo e per potersi riprodurre, nonché le quotidiane paure di finire nelle fauci di sanguinari predatori. Tutto questo si è stratificato dentro di noi per tredici milioni di anni grazie al lavoro preciso dei geni, che hanno passato il testimone in una staffetta che si perde nella notte dei tempi. (p. 16)

Si tratta di un affresco biologico e psicosomatico che consente di andare alla radice del nostro stare al mondo, del nostro essere tempo in atto. Mediante questa ipotesi -e le pratiche terapeutiche che ne conseguono- facciamo pace con i traumi nostri e di quanti ci hanno preceduto, coloro che sapienze millenarie e rigorose hanno definito Manes, «le loro sofferenze rivivono in noi come se gli eventi accaduti anche in un lontano passato trovassero modo di ripetersi» (p. 46). Il legame del bios di ciascuno, del Leib che siamo, con i corpi e con le vite di coloro dai quali siamo nati è assai più radicale della storia e delle sue memorie documentarie, consapevoli, selettive. È, infatti, il legame del biologico con se stesso. Una continuità e una dipendenza che si strutturano come patomimesi e cioè «l’imitazione della sofferenza di chi abbiamo amato e non c’è più», la condivisione coi quali rimane inalterata «attraverso il tempo delle generazioni» (p. 54). La struttura al cui interno il legame vive è l’intera corporeità, e in particolare i 24 punti spinali bilaterali, «24 aggregati recettoriali, ubicati lungo la colonna vertebrale e in corrispondenza dei processi spinosi, che si comportano come importanti porte di accesso temporale: ogni punto spinale, o meglio ogni singolo sincronizzatore spinale, contiene gli engrammi di eventi traumatici, avvenuti a una determinata età» (p. 14).

Il modo di questa continuità non è semplicemente circolare ma assume la forma di una spirale, la forma forse più universale che si dia nell’universo, dalle galassie ai “ritorni” di Vico, dalla tridimensionalità della materia alla precessione degli equinozi. Il risultato diagnostico -e insieme teoretico- di tali indagini è che il nome stesso degli umani è memoria, una memoria che consiste nell’inevitabile dolore dell’aver vissuto, dell’essere stati, dell’essere morti. «Il ricordo del dolore è il dolore del ricordo» (p. 53), a cominciare dai ricordi che si accumulano sin dalla nascita e che esistono già come memoria genetica dei corpi dai quali siamo scaturiti. Il ricordo delle ferite ci accompagna sempre, anche quando la coscienza desta sembra averle dimenticate. È di questo ricordo che sono fatti i trampoli, i quali -splendida immagine conclusiva della Recherche– crescono col tempo sotto di noi, «comme si les hommes étaient juchés sur de vivantes échasses grandissant sans cesse, parfois plus hautes que des clochers, finissant par leur rendre la marche difficile et périlleuse, et d’où tout d’un coup ils tombent»2 (“come se gli uomini fossero appollaiati su dei vivi trampoli che crescono senza posa, a volte più alti dei campanili, e che finiscono col rendere difficile e pericoloso il loro camminare, e da dove d’un tratto essi precipitano”). Questi trampoli sono i nostri ricordi, sono il dolore che cresce laddove «ciò che ci ha ferito nel passato, sanguina ancora oggi nel presente» (p. 5). E lo fa nella duplice forma della «stratificazione delle passate generazioni in ogni cellula del corpo» (p. 37) e del «tempo-memoria [che] si specchia nell’identità corporea di ognuno di noi e tesse le invisibili trame del destino emozionale. La sfida terapeutica risiede perciò nel riconoscimento incondizionato di questa interdipendenza fra disagio psicocorporeo e sorgente temporale del ricordo doloroso. Diventa indispensabile allora la possibilità di confrontarci con la natura intima del Tempo, che scorre e attraversa le nostre esistenze» (p. 12).
Una medicina statica, incapace di pensare il Tempo, si rivela pertanto incapace di guarire. È dunque non soltanto ai pazienti che la proposta di Di Spazio si rivolge -con le concrete modalità terapeutiche che questo libro illustra in dettaglio- ma alla stessa scienza medica e a ciascuno di noi che vive e ricorda, ricordando soffre, ma comprendendo la radice temporale e mnestica del dolore se ne può finalmente liberare.

Note

1 A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena (Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, 1851). Edizione italiana a cura di G. Colli, Milano, Adelphi 1981, vol. I, p. 426.
2 M. Proust, À la recherche du temps perdu, Édition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Gallimard, Paris 1999, p. 2401.



Vincenzo Di Spazio

I 24 Chakra del Tempo.
Come sciogliere i dolori del passato

Dispazioebook
Bolzano, 2011
Pagine 96

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