L’attualità del moderno: Schelling e Heidegger in dialogo sulla contemporaneità

Di: Daria Baglieri
31 Gennaio 2020

 

Io sono io con la mia circostanza;
se non salvo lei, non salverò me stesso.
José Ortega y Gasset

Tra le espressioni con cui in diversi modi e momenti si è cercato di designare la civiltà industriale, c’è anche quella di era della tecnica. In effetti, sebbene sia in verità molto complesso collocare in un preciso momento della storia dell’umanità la nascita della tecnica, e nonostante ogni tesi si agganci a una diversa definizione, non v’è dubbio che la modernità, pur mostrando un’inquietudine derivante dall’acquisita posizione di centralità dell’uomo nel cosmo, abbia in generale mostrato un certo entusiasmo nei confronti del progresso tecnico-scientifico.
E tuttavia, è vero che le radici della tecnica sono ben più profonde e affondano all’alba dell’umanità; in un senso più ampio, infatti, la tecnica è la capacità umana di costruire artifici, cioè di procurarsi ciò che la natura non fornisce direttamente. È chiaro che essa sia nata ben prima del XVIII secolo: tecnica sono infatti anche gli occhiali, inventati nel Medioevo, tecnica è anche la ruota.
La ragione per cui così spesso e così facilmente la nascita della civiltà industriale è associata all’avvento della tecnica in Europa, piuttosto, è che tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento tutte le contraddizioni insite nell’incontro tra la naturalità tecnica dell’uomo e il metodo scientifico-galileiano saltano fuori a preoccupare l’Occidente. Se da un lato l’incedere della modernità era stato caratterizzato da una sicurezza che poggiava prima di tutto sulla rivendicazione della libertà individuale, dall’altro lato l’avvento della produzione industriale e della catena di montaggio prospettavano l’asservimento dell’attività creativa, tipica del lavoro umano, alle macchine. Era ancora possibile abitare la modernità quando premesse e promesse iniziavano a venirle meno? Quanto sarebbe rimasto di naturale nell’umano, e quale natura sarebbe rimasta, sul lungo termine?
La contemporaneità si apriva con questi interrogativi, guardando con sospetto alle proprie spalle e davanti a sé con un ben fondato timore: il Novecento, infatti, avrebbe portato con sé la corsa agli armamenti e il trauma della Grande Guerra, l’eugenetica e la biopolitica dei regimi totalitari, Hiroshima e Nagasaki, ma anche la scoperta del DNA e della fissione nucleare. Oltre alle conseguenze storiche sul piano delle relazioni internazionali, se «la filosofia è il tempo di essa appreso in pensieri»1, qui è d’interesse primario rilevare che queste pro-vocazioni, queste spinte nei confronti della natura verso effetti che altrimenti non si darebbero, sono provocazioni che a pochi decenni di distanza dalla fine dei conflitti armati in Europa si rivolgono alla generalità dell’umano e ne interrogano tanto l’istinto di autoconservazione e di perpetuazione della specie quanto il desiderio di superare la propria natura e trascendere il proprio limite.
A rischio, oggi, non è solo la specificità dell’uomo come animale culturale: prima ancora, sono le radici biologiche a essere messe in discussione nel loro ruolo di presupposti della vita umana. A partire dalla scoperta del DNA cui poc’anzi si accennava, la possibilità di manipolare geneticamente un organismo operando non più sui soli esiti funzionali, ma anche sui presupposti strutturali, ha incrinato la nozione stessa di natura umana. «“Dov’è l’inizio per quell’esserci che sa di averlo?” Se c’è una domanda metafisica, questa è quella domanda»2. Questa è senz’altro filosofia, perché la domanda riguarda l’originario e perché essa è necessaria quando l’esserci è a disagio nel rapporto con sé, con il suo mondo e con il suo ambiente. Di fronte alla situazione-limite per cui l’indissolubile costrutto ontobiosociostorico non è più originario, l’umano è in sé turbato da un’angoscia che ne rende necessaria la riscoperta; filosofia è a un tempo vivere nell’angoscia e tentare di comporla.
Sottoponendo la natura alle condizioni dettate dalla propria mente, l’uomo mira a svincolarsi da essa, a oltrepassare prima di tutto il «muro della finitezza»3, cioè il corpo, procedendo per esperimenti, perdendo di vista che «per un esserci siffatto, sempre esposto al cammino, i metodi sono le vie della salvezza, ma anche ciò cui non deve mai consegnare l’essenza stessa del suo cammino»4. Se il primo prodotto della tecnica in senso lato non è la casa, che la natura può anche mettere a disposizione, ma la tomba – che in natura non c’è perché essa nulla ha predisposto per l’eternità –, allora la morte rimane il primo motore della riflessione sulla precarietà del nostro stare al mondo, e nel rapporto con essa continuiamo a riconoscerci: nella nostra resistenza al tempo e alla finitudine avvertiamo non solo la condizionatezza, ma anche la condizione del nostro stare al mondo. Oggi, nel XXI secolo – e senza attendere il 20495 – stiamo forse già inseguendo il nostro limite, cacciatori di vita non tanto perché consapevoli della morte, ma per trovare un argine o una vittoria davanti allo spegnersi di questa vita, senza più nutrire reverenza e compunzione verso la nuda vita.
Questo è ciò che fa problema: che la vita non può proteggere sé stessa perché lo spazio della libertà è troppo ampio per essere gestito, e così la vita oscilla tra successo e fallimento dell’esercizio di tale libertà. Persa di vista la nostra natura, niente più è avvertito come naturale. Tutto è artificio, tutto ha bisogno di trovare legittimazione nel diritto positivo, compresa l’estinzione dell’umanità in quanto tale, nell’oblio di quel diritto naturale che è non «il non poter essere uccisa, ma il non dover essere uccisa nel suo essere come essere in vita»6.
Da queste ragionevoli premesse prende le mosse la riflessione di Heidegger sulle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di Schelling. Nel 1936 come nel 1809, in contesti storici radicalmente mutati, sorge la necessità di recuperare la naturalità dell’umano e con essa la consapevolezza che l’uomo è prima di tutto natura: distruggere l’umano in quanto libertà nella finitezza e distruggere la natura significa distruggere due emisferi che si coappartengono in un unico mondo.
Per Schelling, infatti, la natura è ancora il modo in cui funziona una sostanza e perciò quella umana consiste nella libertà non come volontà incondizionata, che appartiene unicamente a Dio, ma come «facoltà del bene e del male»7. Libertà come governo delle condizioni che consentono il proprio essere liberi è quindi prima di tutto possibilità della libertà. L’umanità, la cultura, lo Spirito, si dispiegano a partire dalla natura, e a essa si volgono senza contrapporvisi perché con essa condividono l’origine in un Dio che è figura della loro stessa unità. Allo stesso modo, per Heidegger la natura è questa infinita attività di pro-duzione, cioè del continuo “portar fuori” le possibilità in essa insite, e di ciò le pro-vocazioni della tecnica costituiscono una forzatura destinata a compromettere «questa comune possibilità biologica come […] possibilità di divenire ed essere, cioè restare divenendo»8.
Ora, nonostante il motto delfico – che qui è declinato nella definizione dell’umano come essere consapevole della sua intrinseca libertà – costituisca una soluzione trascendentale ancora valida, nondimeno essa sola non è più sufficiente per rispondere alla domanda metafisica sull’origine e sul destino dell’esserci. «Che l’inizio sia nel suo saperlo»9, infatti, non toglie che l’umano sia inesauribile e pertanto non può ridursi nemmeno alla sua storia, alla sua temporalità; anche da questa si può uscire, in virtù di un conatus sese conservandi per cui il singolo perisce, ma la specie può perpetuarsi.
Nella finitudine, tuttavia, non c’è solo un chiaro limite, ma anche la via d’uscita, la via come metodo, come cammino per la riscoperta dell’essenza dell’umano. Il paradigma tecnico dell’inarrestabile autoaccrescimento, infatti, vede una sua rivoluzione – cioè un rivolgimento all’indietro, un ritorno sui passi percorsi – nel recupero del paradigma del mantenimento della vita che diviene restando ciò che è: finita. Qui abita l’identità dell’umano e la sua possibilità di autoriconoscimento: poiché infatti siamo un progetto naturale con una data di scadenza, la nostra finitezza ontologica costituisce un ancoraggio con funzione catecontica, cioè conservativa di trattenimento sul terreno della nuda vita.
Quel che oggi sembra occorrere per preservare l’umanità dalla minaccia di estinzione è quindi un’etica che tenga conto che sia la tecnica come capacità dell’artificio quanto la libertà come facoltà di disporre della propria persona sono tratti naturali dell’umano. Una presa di responsabilità in questo senso andrebbe pensata non tanto, sulla scia di Jonas, nei confronti delle prossime generazioni, ma prima di tutto nei confronti di quel mondo-ambiente (Umwelt) che costituisce il presupposto di ogni esserci, di ogni dimorare in esso. Una simile etica si manterrebbe fedele al suo doppio significato greco: ἔθος come abitudine di comportamento, cioè come specifico modo di abitare il nostro spazio vissuto – e primo fra tutti il nostro corpo come Leib e non solo come Körper – e ἦθος come dimora, habitat, circostanza, lo spazio, l’aria che respiriamo.
Questo è oggi l’impegno più urgente per il pensiero, la questione «più degna di essere pensata […] il pensiero stesso, ma non in una sua idealistica curvatura autoreferenziale […], bensì come l’essere-in-vita della vita che risponde di sé – e nell’epoca della “morte di Dio” può solo ormai rispondere di sé a sé, rispondendo al mondo»10. In quanto prodotto della riflessione sull’immediatezza del “nudo” stare al mondo, la filosofia resta il primo prodotto della natura umana, il primo sapere, anche cambiando forma, riformandosi: non più «teoria dell’eterno o del soprasensibile […] ma cura del proprio accidente, della propria occorrenza come vita»11.
Per salvaguardare l’essenza dell’umano e preservare la disponibilità della natura e della propria natura, occorre inserire l’esercizio della libertà individuale in una prospettiva di progettualità sociale. Il problema, infatti, non è solo la dispersione dell’individuo in una celata solitudine che lo conduce a perdersi di vista, ma anche il progressivo allentarsi dei legami con il mondo culturale, cioè la comunità nella quale si trova inevitabilmente inserito venendo al mondo, e con il mondo naturale. È infatti sempre più evidente che una libertà di disporre dell’abitabile – come corpo e come ambiente – senza un “freno di emergenza” come l’auspicava Benjamin, è la libertà di un esserci che, se anche corresse verso la vita, correrebbe nella direzione opposta alla vita umana:

il compito etico che l’uomo della civiltà tecnologica ha di fronte è di restare in questa originaria bontà della sua essenza […] consegnare a chi viene dopo di noi […] lo stesso orizzonte di possibilità per vivere e per morire di cui siamo stati equipaggiati venendo al mondo12.

Il pericolo non sono i prodotti della tecnica, non è la cultura umana con tutti i suoi artifici; l’errore sta nel tentativo di sussunzione della natura nella cultura quando potrebbe darsi, al massimo, il contrario. La natura è l’ineliminabile fondodisposizione dell’umano, come Heidegger mostra bene di riconoscere tra le righe di Schelling, e nella pretesa di “invertirne i principi” si radica la smoralizzazione del mondo13. Quest’ultima è probabilmente la definizione più calzante: l’epoca in cui pretendiamo di dare e togliere una vita sul cui essere non abbiamo facoltà di decisione, una vita che in verità non potremmo né togliere né dare se essa non fosse già in qualche misura data e se a essa non fossimo indecidibilmente assegnati, consegnati, affidati.
L’oblio di questa condizione illogica, non detta, non pensata, non scelta, dell’uomo che preferisce fondare ogni valore su sé stesso anziché riconoscere la sua incapacità di pianificare la vita nonostante l’abilità a modificare tutto ciò con cui interagisce, è il nichilismo. Ridotto a valore di sé, l’uomo non si riconosce più come «mero evento del “senso” come “caso” del mondo umano nell’accadere indifferente del cosmo»14. L’autoattuazione della vita come senso, la rosa dell’esistenza, può darsi solo in una prospettiva temporale: sapendo che dobbiamo morire, ma non sapendo quando, la nostra urgenza dev’essere preservare la vita anche a costo di esserne nel frattempo feriti e angosciati. L’essere-alla-morte heideggeriano risuona forte e chiaro nelle parole di Roy, la «statua di sale inscioglibile nel fiume della vita»15 del primo Blade runner: «preparati al gioco, ti dovrò uccidere: se non sei vivo, non puoi giocare». La morte riguarda i vivi, non gli avi né i posteri. Per essere-alla-morte bisogna essere-in-vita.
Nell’epoca della “morte di Dio”, allora, il sapere primo, la metafisica, è il sapere della trascendenza non come accesso a un mondo altro, ma come riemergere della φύσις e disporsi innanzi a essa nell’apertura dell’evento. Nel distaccarsi della volontà dal fondamento Schelling trova la più teoretica spiegazione di ogni mito delle origini, a cominciare da quello adamitico che egli stesso menziona e che, non a caso, tanto caro fu anche a Hölderlin. Essere cacciati fuori dal paradiso è essere cacciati fuori dall’intimità della natura, è il ripiegarsi nella soggettività e il cadere della vita su sé stessa, ma in nessun modo è un abbandono. Adamo esce dall’Eden con il bagaglio della poieticità, la nostra risorsa prima e ultima per reggere il peso della trascendenza che abbiamo disancorato da Dio. L’installarsi dell’uomo nella propria trascendenza, nella propria capacità di travalicare il limite, non ha il significato esclusivo di dover fare tutto quello che si può fare; è piuttosto giungere nel campo dell’autodisvelatività della φύσις e riconoscervisi come sua implicita articolazione finita. Riconoscersi nel proprio limite è «stare sulla croce del tempo, là dove fiorisce la sua rosa»16.

 

Note
1 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto [Grundlinien der Philosophie des Rechts, 1821], a cura di G. Marino, Laterza, Bari 2016, p. 15.
2 E. Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, il melangolo, Genova 2004, p. 13.
3 Ivi, p. 71.
4 Ivi, p. 64.
5 Il riferimento è a Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve (2017).
6 E. Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, cit., p. 112.
7 F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi [Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit, 1809], a cura di G. Strummiello, Rusconi, Milano 1996, p. 107.
8 E. Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, cit., p. 109.
9 Ivi, p. 14.
10 Ivi, p. 22.
11 Ivi, p. 30.
12 Ivi, p. 119.
13 Cfr. E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La «smoralizzazione» del mondo, Quodlibet, Macerata 2017.
14 Id., Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, cit., p. 93.
15 Ivi, p. 152.
16 Ivi, p. 165.

 

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