Fare rete nel caos

Di: Silvia Ciappina
3 Aprile 2021

 

Una descolarizzazione possibile

Prima di affrontare il tema vieppiù emergente della dispersione scolastica legata al disagio esistenziale e sociale di chi subisce, più che agire, i processi formativi, mi sono ricordata, nemmeno troppo in antitesi, di un testo di Ivan Illich, uno dei maestri del pensiero occidentale moderno. Negli anni Settanta, egli sosteneva una mozione controversa ovvero che la scuola obbligatoria e prolungata, il conseguimento di diplomi e certificazioni, l’ossimoro di un’educazione di massa sono sintomi di un falso sviluppo confuso con il progresso, in cui i valori rischiano di essere istituzionalizzati e costringono il singolo a patire conformismo e alienazione qualora non riesca ad adeguarsi ai paradigmi della società dei consumi1.
Si fa credere che per migliorare la salute, l’apprendimento etc, sia sufficiente stanziare somme maggiori per la gestione degli ospedali, delle scuole e degli altri enti in questione. […] L’istituzionalizzazione dei valori conduce inevitabilmente all’inquinamento fisico, alla polarizzazione sociale e all’impotenza psicologica2.
Lo sforzo degli Stati, ancorché quantitativamente consistente, questa è la tesi, non sarebbe in grado di eliminare la dipendenza, la rabbia, la frustrazione e la distruttività intrinseca che le istituzioni assistenziali generano in coloro, più poveri, che queste istituzioni pretendono di istruire, educare e formare, con imponenti conseguenze, diremmo oggi, sul campo della dispersione scolastica, implicita ed esplicita, e sulla cosiddetta povertà educativa.
Certo sono trascorsi cinquant’anni da queste asserzioni (allora sostenute da dati e vigorose argomentazioni), ora ci troviamo di fronte a una società di massa e post-globalizzata, in cui le pulsioni individualiste di matrice liberale e neoliberista costituiscono un dato culturale inconscio, cioè sono pienamente assimilate anche dalle giovani generazioni che aspirano più ai diritti che ai doveri, in ciò ideologicamente assecondate fino a poco tempo fa nelle pulsioni più elementari. Di là da questo dato di fatto, la scuola non riesce a uscire dall’impasse costituito dalla nobiltà delle proprie aspirazioni educative (oggi si direbbe mission) e dalla contingenza delle politiche neocapitalistiche, ora in crisi post-pandemia, in più irrigidita da una struttura mentale gerarchica, che le innumerevoli riforme, anche amministrative, sono riuscite ad intaccare solo in minima parte (anche per scarsa consapevolezza del concetto di leadership). Certo, partendo dall’assunto di Illich e sviluppando le argomentazioni nel senso di un debate pubblico e documentato fra pro e contro, probabilmente arriveremo momentaneamente a una conclusione soddisfacente a favore di una squadra. Tuttavia questa non è la sede. Dobbiamo piuttosto divenire consapevoli dell’urgenza di esplorare ulteriormente il conflitto per innalzare i livelli di apprendimento della comunità educante. E l’esplorazione parte dalle premesse e dalla definizione dei termini, come ci insegna Aristotele: in sostanza cosa intendiamo quando attingiamo a termini come descolarizzazione, dispersione, povertà educativa, istruzione, educazione e formazione?
Siamo veramente certi che vi sia una corrispondenza tra i termini in questione e i fenomeni da essi indicati, inoltre siamo altrettanto sicuri delle correlazioni tra le evidenze empiricamente rappresentate e le molteplici cause che le alimentano visto che, sinora, non abbiamo dati a disposizione a partire da un monitoraggio sistematico sugli abbandoni nell’ultimo anno?3 Come si fa a sostenere la descolarizzazione in una prospettiva multiculturale in cui le disuguaglianze dettano legge per rapporti di forza?
Troppe domande incalzano, i dubbi si accumulano, eppure da questa nebbia è possibile trarre una serie di indicazioni di metodo all’interno di un contesto apparentemente caotico in cui l’esplosione delle attuali contraddizioni appare, paradossalmente, un segnale rivelatore, un’opportunità da cogliere per perseguire il miglioramento.

 

Una riforma perenne

In primo luogo per comprendere il fenomeno, soprattutto in Italia, occorre uscire da una certa logica e da un certo linguaggio, approfondire il senso e la direzione dei cambiamenti che le ultime riforme hanno voluto imprimere a partire dal contesto e dall’ethos di partenza; occorre uscire dall’approccio “riparativo” e “punitivo” di matrice cattolica, traghettato anche nell’umanesimo spiritualistico gentiliano, per arrivare a una sintesi (seguitando la metafora dialettica), di cui il momento negativo è rappresentato dalla matrice anglosassone (basti pensare ai termini “crediti” e “debiti” formativi), introdotta a forza nella nostra didattica e nel nostro ordinamento, senza un adeguato supporto formativo ai docenti e senza che se ne indicassero le ragioni se non dietro formule ideologiche e perciò retoriche. E se non si parte dalla formazione e autoformazione dei docenti, dall’apprendimento permanente degli adulti, non solo in senso professionale, la forbice tra le generazioni sarà destinata ad ampliarsi inesorabilmente. Consapevoli della trama storica passata e presente, non dovremmo tuttavia lasciarci prendere dallo sconforto rispetto al futuro e rimpiangere il passato4, la Storia incalza e segna il cammino, occorre coglierne gli indizi disseminati sul campo.
Questo tenendo sempre ben presente ciò che emerge nel dettato costituzionale negli artt. 3, 33, 34: il concetto di persona umana (contrapposto all’individualismo atomistico di matrice liberale) come condizione in divenire e non mero dato naturale; l’eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini quale orizzonte di senso verso il quale indirizzare le politiche educative e l’esercizio  del diritto allo studio, pur nella specificità dei percorsi di istruzione e formazione. Come sosteneva Don Milani, non vi è nulla di più ingiusto che far parti uguali tra disuguali, per cui occorre introdurre, accanto all’uguaglianza, il paradigma dell’equità come principio di «eguale cittadinanza» poiché introduce il vincolo del raggiungimento dei livelli minimi di competenza sotto i quali sono a rischio il pieno sviluppo della persona umana e la pratica della cittadinanza attiva5.

 

Fare chiarezza

Come ho già detto, a fronte di molti equivoci e dell’assenza di una visione, manca un glossario condiviso, conseguenza è che gli operatori provano a utilizzare un insieme di indicatori e stime in sovrapposizione e, talvolta, in contrasto tra loro, secondo quanto sostiene, ad esempio, la Fondazione Agnelli in un report del 2014 illustrato presso la VII Commissione della Camera dei Deputati. Una denotazione chiarificatrice, più consuntiva che preventiva, ci è fornita dai documenti dell’UE nei quali si parla di Early School Leavers relativamente alla quota di popolazione di età 18-24 anni con il titolo di studio non più alto dell’istruzione secondaria di I grado e non inserita in programmi di formazione. Un approccio del genere interviene a giochi fatti, quando si tratta di recuperare piuttosto che di prevenire, ma, come abbiamo già detto prima, occorrerebbe uscire dalla logica dell’emergenza, dell’esclusione e del danno da riparare, entrando in quella della prevenzione, dell’inclusione e della collaborazione tra competenze afferenti a diversi settori della società.
L’Anagrafe Nazionale degli Studenti fotografa il fenomeno in Italia con il termine di abbandono precoce, con cui si intende lo scarto tra il dato iniziale degli alunni iscritti e quello relativo agli alunni che risultano scrutinati alla fine di ogni anno scolastico, talvolta sostituito dal termine più generico dispersione scolastica, ad esempio adottato nel dossier citato della Fondazione Agnelli presso la VII Commissione. In realtà la locuzione dispersione comprende una costellazione di segnali: abbandoni, ritardi, ripetenze e varie discontinuità di percorso.
La semplice discontinuità di percorso non certifica l’abbandono né sancisce la dispersione. Chi è dentro alla scuola sa bene che l’intero processo non segue un avanzamento lineare, bottom-up, ma è piuttosto spiraliforme, segnato da battute d’arresto, da ritorni, in una tensione dialettica tra istruzione ed educazione in cui la prima si dovrebbe occupare  dell’aspetto tecnico-cognitivo secondo le tecnologie didattiche (ad esempio attraverso gli strumenti della didattica breve di Ciampolini e le competenze di Pellerey) e la seconda dell’aspetto valoriale. Se questa tensione viene sostenuta autenticamente dall’esempio di leader adulti e autorevoli, se viene accompagnata da un’adeguata formazione dei docenti in tale direzione, allora è possibile arrivare a un momento di sintesi che coincide con la formazione della persona, con la possibilità per essa di uscire dallo stato di minorità e disuguaglianza, con un’emancipazione che non le può essere garantita in questa contingenza dal possesso più o meno stabile di certe conoscenze (che alcuni giovani vivono come alienanti) ma dall’opportunità di capire di essere in grado di creare o produrre qualcosa, in ciò acquisendo autonomia e responsabilità.
Proseguendo, in senso non lineare, alla dispersione esplicita si affianca, più insidiosa, quella implicita ovvero il non raggiungimento degli obiettivi minimi atti a qualificare il cosiddetto successo formativo mediante l’acquisizione in concreto di competenze disciplinari e trasversali da parte di studentesse e studenti. Ciò di fatto impedisce l’esercizio della cittadinanza attiva in quanto viene disatteso il principio di equità che dovrebbe essere alla base del patto sociale. Dobbiamo, peraltro, sottolineare che i dati statistici relativi all’abbandono precoce non forniscono una misurazione completa del fenomeno perché non tengono conto degli allievi inseriti negli altri due canali del sistema, la formazione professionale e quella in apprendistato. A ciò si aggiunge, nell’ultimo anno di pandemia, un dato ancora più drammatico, che emerge da alcuni tavoli di lavoro interistituzionali sull’obbligo scolastico: l’aumento delle inadempienze nella scuola primaria e secondaria di primo grado, non dovuto semplicemente alla notoria casistica per la quale si richiede il supporto dei Servizi sociali, ma ora più subdolamente mascherato da homeschooling o istruzione parentale,  in ciò marcando  una totale disaffezione se non ostilità da parte delle famiglie nei confronti del Sistema Nazionale di Istruzione.
Fortunatamente, a partire dagli anni Novanta grazie a strumenti di analisi più sofisticati, l’attenzione si è focalizzata sull’individuazione di indicatori di rischio correlati alla cosiddetta povertà educativa (penuria di opportunità legata a famiglia, territorio, contesto socio-economico nonché culturale); tuttavia la possibilità di mappare questo disagio e di correlarlo a fattori di esclusione incontra una battuta d’arresto di fronte alle norme sulla privacy, soprattutto relativamente alla possibilità di raccogliere dati significativi circa il contesto familiare di provenienza. In sostanza non siamo ancora scientificamente in grado di correlare gli esiti formativi alla capacità discriminante positiva di ciascuna scuola di colmare i divari di partenza, per cui ciò impedisce a livello nazionale l’adozione di adeguate politiche che diano sostanza al principio di equità a partire dall’ascolto e dall’analisi dei bisogni formativi reali di famiglie, docenti e dirigenti.

 

Ipotesi di lavoro

Come dovremmo rispondere ai segnali d’allarme, cogliendo il disagio intergenerazionale, diffuso ormai a quasi tutti i livelli sociali, ma più insidioso dove si annidano le disuguaglianze? Innanzi tutto procedendo al contempo per sottrazione e per addizione ovvero intercettando le criticità, le zavorre formative e culturali che appesantiscono il sistema di istruzione, una tra tutte la logica dell’adempimento fine a se stesso, per poi iniziare a muovere le leve di un cambiamento strutturale che diventi trasformazione. Infatti il cambiamento si rivela spesso superficiale, reversibile. Laddove invece esso si manifesti come cambiamento adattivo, può diventare strutturale, aumentando la consapevolezza circa le cause della situazione problematica e implicando una trasformazione psichica che consente di gestire la complessità e i conflitti secondo un approccio interdipendente.
La gestione del cambiamento presuppone un mutamento degli assetti organizzativi e una preparazione, una formazione di coloro che ne fanno parte nell’ottica dell’empowerment, questa responsabilizzazione costituisce per studenti (cui va dato in primis un ruolo sociale), genitori e docenti il polo opposto verso cui indirizzare il cambiamento rispetto a quello più tradizionale e rassicurante della cura e del paternalismo (o maternalismo).
Riunire istituzioni (enti pubblici, scuole, formazione professionale, terzo settore) e competenze (teoriche, pratico-operative e relazionali) in un mondo in cui gli standard formativi vanno verso una maggiore uniformità di riconoscimento richiede fatica, anche a causa di spinte inerziali e centrifughe di comunità e nazioni. Fare rete in questo caos è uno dei motori del cambiamento insieme alla formazione permanente di chi insegna ed educa. Ma la formazione permanente non va imposta dall’alto, dovrebbe essere sentita come urgenza da parte dei formatori stessi, attraverso una persuasione argomentata e programmata da coloro che dirigono il cambiamento in uno sforzo di condivisione di buone pratiche.
Ma, tornando al discorso iniziale della descolarizzazione, qui ci muoviamo in un’area in cui la scuola non può essere più intesa come luogo in cui si celebrano stancamente le liturgie del sapere trasmissivo. La scuola si deve aprire al territorio e viceversa in un’osmosi in cui fondi e reti per progetti, spesso già esistenti e poco disseminati, costituiscono un supporto indispensabile ai fini della prevenzione della dispersione6. Già l’emergenza ci ha costretto a superare le barriere dell’edificio scolastico, a maggior ragione tornare alla vita ci vedrà impegnati in una sfida di visione, immaginando nuovi perimetri di inclusione, una topografia e una cronografia della scuola che ne esalti la centralità piuttosto che l’isolamento e l’autoreferenzialità. Descolarizzazione, quindi, come costruzione di una rete territoriale e di competenze, che vada oltre la formalizzazione e le occasioni di visibilità date a protagonisti di accordi istituzionali, in cui si possano svolgere anche progetti di ricerca-azione e di crescita professionale secondo una trama di relazioni umane. Tutti siamo testimoni, a partire dal nostro privato, della necessità di irrorare e alimentare i rapporti che ci legano gli uni agli altri, pena il loro inaridimento, così dovrebbe accadere in una scuola che voglia finalmente mostrarsi adulta.

 

Note

1 Cfr. Ivan Illich, Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, Mimesis, Milano-Udine, 2010.

2 Ivi, p. 11.

3 I dati ultimi a disposizione (settembre 2018) relativamente alla scuola secondaria superiore sono stati elaborati nel dossier di Tuttoscuola, La scuola colabrodo, Editoriale Tuttoscuola S.r.l., relativamente al quinquennio 2014-18 a partire da una visione che si estende come base di riferimento ai vent’anni precedenti; ivi (p. 10) si parla di un «mastodontico schieramento di forze» che non sortisce l’output programmato ovvero l’accompagnamento al diploma.

4Testimonianza di questo approccio (reiterato anche negli editoriali più recenti ne Il Corriere della Sera), tipico di un certo clero intellettuale, è uno degli ultimi saggi di Ernesto Galli della Loggia, L’aula vuota, Marsilio, Venezia 2019: si può condividere l’analisi, la pars destruens, tuttavia non è possibile ravvisare una visione di fondo se non una nostalgia verso una scuola che, privilegiando alcuni valori di eccellenza sociale, escludeva coloro che non sentivano di appartenervi per condizioni di partenza .

5 Per avere un’idea dell’approccio e delle soluzioni possibili ho fatto riferimento al testo a cura di M.Rossi-Doria, S.Tabarelli e S. Pirozzi, Reti contro la dispersione scolastica, Erickson, Trento 2016.

6 Si vedano a livello nazionale, i Fondi FAMI per contesti multiculturali (Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione 2014-20), invece nella realtà ligure (Comune di Genova), il progetto Scuola-C.E.L. (Centri di Educazione al Lavoro) per giovani a rischio dispersione nella fascia 16-20 anni.

 

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