Ontologia ed Estetica

Di: Elvira Gravina
8 Luglio 2021

 

In filosofia le domande che vengono poste sono fondamentali. In uno dei suoi saggi più difficili ma anche più interessanti, Heidegger comincia a interrogarsi sull’arte e sul rapporto che quest’ultima intesse con le cose: in che senso l’opera possiede essenzialmente il carattere di cosa?
Per rispondere a questa domanda Heidegger si appella al metodo fenomenologico. Infatti, quando si chiede come sia possibile evitare che il concetto abituale di cosa, ossia ciò che noi pensiamo che la cosa sia, possa comprendere la cosa al punto tale da far svanire la sua essenza (che non è di certo pensiero), Heidegger risponde che ciò è possibile

solo a patto che noi, in certo modo, garantiamo alla cosa un campo libero in cui essa possa manifestare immediatamente il suo carattere di cosa. A tal fine dev’essere eliminata ogni sorta di concezione e di asserzione che possa frapporsi fra noi e la cosa. Solo a questo patto possiamo abbandonarci alla presenza trasparente della cosa.1

Qui sembra importante chiarire che non è soltanto la risposta, ossia l’invito a lasciare che le cose si manifestino al nostro sguardo e alla nostra corporeità tutta nei limiti in cui si offrono e spoglie da ogni concezione e giudizio, a essere impregnata di fenomenologia, ma lo è innanzitutto la domanda. Fenomenologicamente Heidegger richiama l’attenzione su un modo abituale di fare filosofia, facendo emergere il classico problema di come conoscere la realtà senza sopraffarla con i concetti in modo che, vagando per gli Holzwege del pensiero, non ci si dimentichi di partire dal fenomeno e dalla percezione immediata che se ne ha. Proprio come suggeriscono sia la fenomenologia, sia l’utilizzo del termine greco a indicare la percezione sensibile e quella artistica, «la cosa è l’αἰσθητόν»2 e non ciò che arriva tramite i sensi. Mentre percepiamo la cosa, essa si presentifica dinanzi a noi nella sua materialità ma non nel senso di semplice (Heidegger scriverebbe “mera”) materia. Ad esempio, il tempio si manifesta nella durezza, nella maestosità e nell’intransigenza e infrangibilità della pietra, nella sua storicità, ed è per queste considerazioni che tale pensiero non può mai essere riduzionistico. La cosa è sempre materia formata, viva, relazionale perché è materia intrisa di tempo. Proprio perché la materia ci si offre nella sua “materialità”, ci offre immediatamente quelle che Gibson avrebbe chiamato successivamente affordances, ossia proprietà specifiche delle cose che sono tali, però, proprio in relazione alle caratteristiche di chi vi si relaziona. Ad esempio, l’acqua possiede delle caratteristiche tali da offrire l’affordance del lavarsi, del rinfrescarsi, del bagnarsi, del nuotare e così via. In termini heideggeriani:

questa usabilità [delle cose] non è aggiunta e attribuita in un secondo momento agli enti suddetti. […] Essa è invece quel tratto fondamentale in base a cui questo ente ci si presenta, ci sta davanti e in tale modo ci è-presente [an-west], essendo così l’ente che è3.

Ciò significa che nella durezza e infrangibilità della pietra emerge anche la sua utilizzabilità come lancia. In tal senso osserviamo che, così come la materialità è intrinseca agli enti, la tecnica lo è per gli individui umani. La pietra è dura a prescindere dall’utilizzo che ne fa l’uomo, lo è naturalmente. Allo stesso modo, però, anche l’uomo è naturalmente predisposto a cogliere (in entrambe le accezioni di capire e di “sfruttare”) la maniera di manifestarsi degli enti e le possibilità che questi offrono. Qui nasce la tecnica e si erge come assenza di distinzione e di dualismo tra soggetto e oggetto perché nel momento in cui è stata creata una lancia essa smette di essere mera pietra e diviene un’estensione del braccio umano. Allo stesso modo, il braccio smette di essere mera carne e diviene braccio armato. Inoltre, il processo non termina qui perché, dal primissimo momento della sua esistenza, la lancia non farà altro che stimolare l’intervento umano in modo che venga sempre più perfezionata e meglio utilizzata. Questo significa che tra uomo e ambiente si inserisce un’attività autopoietica secondo cui l’individuo agisce e pensa in maniera partecipativa e attiva ma soprattutto si riprogramma e ricostituisce in seguito all’interazione con il mondo.
A questo punto vien da chiedersi se anche l’arte possa rientrare in tale processo. Se da un lato l’arte conserva un aspetto della tecnica che è quello del produrre, dall’altro non è propriamente un’attività tecnica in questo senso, in quanto non crea strumenti che debbono necessariamente integrarsi al nostro contesto di vita. Inoltre, l’arte produce artefatti che, contrariamente a tutte le altre cose, non sembrano avere un determinato fine. Questo non crea alcun problema sulla riflessione dell’arte e, al contrario, ci permette di poter analizzare più in profondità l’ente estetico e il suo rapporto con il reale. Il metodo fenomenologico e l’analisi heideggeriana ci mostrano come non sia il fine a determinare il mezzo, ma è l’ente che, manifestandosi, offre all’osservatore e fruitore quell’utilizzabilità intrinseca, ciò che Heidegger chiama “il tratto”4. Gadamer, il cui scopo è quello di riconoscere lo statuto ontologico dell’opera d’arte in modo da delinearne il proprio metodo di comprensione, riferendosi allo storico dell’arte Richard Hamann, parla di “significatività propria della percezione”5, ossia quel significato intrinseco che non ha nulla a che vedere con l’attribuzione di un significato esterno. Questo significato è colto dal soggetto semplicemente tramite l’immediatezza della percezione perché «la percezione coglie sempre un significato»6.

Il tempio, tornando all’esempio presentato da Heidegger, si manifesta anche al suo interno, con la statua del dio e dunque con la sua sacralità, ma anche con i ricordi della storia di un popolo, di una civiltà. Il tempio fa emergere dunque la stabilità della pietra che con la sua struttura permette l’aprirsi del cielo, delle nuvole e delle stelle su di esso e si erge sulla terra; è circondato da alberi o sovrasta il mare; permette dunque l’apparire e il manifestarsi della natura. Ma fa sì che a manifestarsi sia anche la cultura: il capitello si mostra insieme all’eleganza, all’ornamento, alla semplicità, in poche parole a uno stile; la vista dell’insieme delle colonne riporta agli antichi riti sacrali e alla presenza imprescindibile del dio; camminare nei pressi di un tempio non può non ricondurci alla storia e alla civiltà del popolo greco, tramandondoci e facendoci percepire quella cultura di cui siamo intrisi, senza che questo avvenga con una mediazione. Possiamo dunque affermare con Heidegger che «stando nella vicinanza dell’opera, ci siamo trovati improvvisamente in una dimensione diversa da quella in cui comunemente siamo»7. Il tempio non ci rappresenta la sacralità, la storia o la civiltà. Il tempio permette il mostrarsi del divenire temporale di tutti questi eventi. Il tempio non è da questo punto di vista un mero mezzo che rappresenta qualcosa o che serve a uno scopo, ma è il corpo stesso della storia e della civiltà. La stessa cosa si può dire della poesia, la cui essenza sono le parole in quanto tali, in quanto enti e non in quanto mezzo comunicativo. La poesia non è un atto di comunicazione, ma di presentificazione dell’essere e della verità. La parola permette che l’ente si manifesti, che ci appaia, che venga illuminato dal suo nascondimento, che emerga dal silenzio della sua assenza. La parola permette che gli eventi avvengano, che si realizzino, essa crea la realtà. Per queste ragioni, l’opera d’arte non si distingue dalla tecnica esclusivamente perché rispetto a quest’ultima è disinteressata, ossia priva di scopo, né in quanto manifestazione del bello piuttosto che del funzionale, ma perché non è più una mediazione tra la nostra corporeità e il mondo, bensì è corpo e mondo essa stessa. L’opera d’arte non è altro da sé, non sta al posto di qualcos’altro ma è disvelamento del proprio esser-ci: è λήθεια, il non essere nascosto dell’ente, la sua verità, la sua presenza più pura.
Ciò che l’arte preserva rispetto alla tecnica (e dunque ciò che l’opera preserva rispetto al mezzo) è proprio la materia, non sacrificandola a un significato astratto che le viene attribuito da una convenzione o da un’idea. In tal modo, tentando di rispondere alla domanda da cui è partito Heidegger, l’opera d’arte non può essere paragonata alla cosa tanto che anche Merleau-Ponty scrive che

 

un romanzo, una poesia, un quadro, un brano musicale sono individui, cioè esseri in cui non si può distinguere l’espressione dall’espresso, il cui senso è accessibile solo per contatto diretto e che irradiano il loro significato senza abbandonare il proprio posto temporale e spaziale. In questo senso il corpo è paragonabile all’opera d’arte8

e, viceversa, l’opera d’arte è corporeità. Ciò significa che per Merleau-Ponty l’arte non si limita a far vedere concetti o una prospettiva della realtà, ma permette di accedere a ciò che non si potrebbe percepire altrimenti. La specificità dell’arte consiste nell’esprimere l’inesprimibile (nel caso della pittura l’invisibile) ossia non la cosa in sé, ma la cosa nel suo manifestarsi, la datità della cosa. Heidegger chiamerebbe questo aspetto Lichtung, l’apertura dell’ente che fa in modo che l’ente si manifesti nel suo essere e non nel suo nascondimento. In questo modo l’arte pone in essere la verità, rivelandoci il senso del reale. Heidegger è così passato dal voler comprendere quale fosse la verità dell’ente a interrogarsi sul rapporto tra arte e verità.
Per Cézanne la pittura era ricerca della verità «come pura, disinteressata ricerca, simile a quella dello scienziato o del filosofo»9. Più precisamente la pittura era concepita dall’artista come ricerca della metodologia che serve a costruire l’immagine del mondo, ma non a imitarla. Infatti, «sulla tela di Cézanne il mondo visibile non è semplicemente rappresentato. È ricreato»10. È importante sottolineare questa differenza in quanto per imitare l’immagine bisogna prenderla dalla realtà, mentre per costruirla bisogna cercarla nella coscienza. L’arte si configura così come τέχνη, da intendere, però, come un sapere che è un «produrre11 [vollbringen] nella misura in cui trae fuori [vorbringen12 e, poiché «per il pensiero greco l’essenza del sapere consiste nella ἆλήθεια»13, l’arte è un produrre che permette il disvelamento dell’ente e lo storicizzarsi della verità. È il procedimento artistico (il divenir-opera dell’opera) che, contrariamente alla ricerca scientifica, ci conduce alla verità. Nella scienza non si può mai giungere al disvelamento della verità in quanto essa si basa sull’elaborazione di una teoria e l’osservazione di fenomeni all’interno, però, di un paradigma predefinito. La ricerca dell’artista, invece, avviene perennemente nell’apertura dell’ente, ossia nella sua verità.

Ma la manifestazione principale della nostra epoca è sicuramente la scienza moderna e, se è vero ciò che si è detto precedentemente, ossia che l’essenza della scienza è una ricerca come modalità della conoscenza che risiede già in un ambito specifico, questo significa che è la ricerca scientifica stessa a stabilire il proprio confinamento e il proprio ambito e che, proprio per queste ragioni, non può non essere esatta nel senso di perfettamente adeguata «in linea di possibilità e di necessità»14. L’esperimento è l’espletamento necessario di tali procedimenti. Infatti, anche l’esperimento viene realizzato a partire da un’ipotesi che deve essere confermata o meno. Così l’esperimento fa in modo che la scienza possa essere esatta, non in quanto consente misurazioni precise, ma perché è nella sua natura confermare o meno qualcosa e valutare fino a che punto la legge possa essere applicata; è dunque la scienza ad avere il carattere dell’esattezza.
Una volta spiegata l’essenza della scienza, verrà da sé comprendere l’interpretazione dell’ente che se ne ricava. L’ente è qui un oggetto, quell’oggetto della natura che bisogna comprendere all’interno delle leggi naturali. Ne viene fuori una rap-presentazione dell’ente e non una presentazione (o una fenomenologia immediata) dell’ente. L’individuo lo pone innanzi a sé in maniera che ne possa essere certo, che possa misurarlo, introiettarlo all’interno di un sistema, costituire l’ente come “immagine”. Ed è così che nasce il soggetto cartesiano, inteso come ciò che permette la rappresentazione dell’ente e, di conseguenza, il centro di riferimento affinché le immagini degli enti, ossia gli enti pensati o idee, siano conformi agli enti stessi; «il che significa: la cosa sta così come noi la vediamo. Aver un’idea [immagine] fissa di qualcosa significa: porre innanzi a sé l’ente stesso così come viene a costituirsi per noi e mantenerlo costantemente così come è stato posto»15. Ma oltre che a pensare l’ente, l’uomo comincia ad accorgersi che riesce anche a porsi innanzi a se stesso, a pensarsi cioè come ente pensante. E allora l’intuizione cartesiana secondo cui l’unico fondamento e l’unica certezza che può avere l’uomo rispetto a ciò che pensa, riguarda il fatto che indubitabilmente egli pensa e si riconosce come esistente soltanto in quel pensiero, ossia in quella immagine che ha di sé. La “straordinarietà” del fatto che l’uomo esiste ed è compresente al suo pensiero ha creato la seguente concezione: se un ente è l’unico capace di permettere la compresenza di pensiero ed essere, allora sarà e dovrà divenire un ente particolare e privilegiato fra gli altri; «ha così inizio quel modo di esser uomo che consiste nel prender possesso della sfera dei poteri umani come luogo di misura e di dominio dell’ente nel suo insieme»16. Nasce l’antropocentrismo ontologico. Se la posizione dell’ente e del mondo è riassumibile come “immagine”, allora quella dell’uomo viene assunta come “visione del mondo”, espressione ormai radicatasi nel linguaggio comune.
Il dominio del modello conoscitivo della scienza moderna ha fatto sì che l’arte fosse considerata un epifenomeno da affiancare alla realtà come sua imitazione o da contrapporre a essa come apparenza, illusione o sogno. Inoltre, considerando l’ente come oggetto calcolabile e assumendo il dato scientifico come unico valore di verità, il compito della filosofia di interpretare il pensiero (la storia, il linguaggio e l’arte) tramite il vaglio e il confronto delle fonti è stato spogliato di qualsiasi rigore metodologico.
Così come in filosofia, anche in arte le interpretazioni sono gli strumenti fondamentali della ricerca estetica. Riferendosi inizialmente alle opere teatrali o musicali, ai balletti o al teatro dell’opera (a ciò che potremo definire oggi arte performativa), Gadamer afferma che tutte le varie interpretazioni e messe in scena di una stessa opera d’arte vanno a costituire una tradizione che unifica e dà sfondo comune a tutte le sue riproduzioni. Noi siamo temporalmente immersi in tale tradizione e, per questo motivo, essa crea le premesse fondamentali per una nostra comprensione dell’evento. Allo stesso modo, la tradizione di quella determinata opera crea le condizioni per la nostra percezione e comprensione di senso dell’opera stessa. In questo senso la riproducibilità dell’opera d’arte non è mai qualcosa che si allontana dall’originale ed è, anzi, momento costitutivo dell’opera che ci è trasmessa. Ogni interpretazione deriva da interpretazioni già date e confluisce in quelle future, dando vita a una fusione di orizzonti che non va vista solo da un punto di vista gnoseologico (ossia non è solo una condizione a priori affinché noi comprendiamo l’interpretazione e, di conseguenza, l’opera), ma stabilisce lo statuto ontologico degli enti e degli eventi artistici. L’identità dell’opera d’arte è data proprio dalla continuità della tradizione e dal fondarsi e fondersi in essa delle nuove interpretazioni. Tutte le interpretazioni appartengono ontologicamente all’opera d’arte affinché essa sia tale e ciò significa che sono contemporanee ad essa. In questo modo la temporalità dell’estetico garantisce e permette tale continuità della tradizione nell’opera. La questione della temporalità dell’opera d’arte innesca la dinamica di identità e differenza. Infatti, l’opera è identica perché rimane identica la sua “struttura”, potremmo dire in termini fenomenologici la sua “Gestalt”; ma è anche diversa perché differenti sono le prospettive da cui si diramano le varie interpretazioni o perché differenti sono i contesti storico-culturali a cui si vanno adattando volta per volta. La temporalità non è «una possibilità tra le altre di comprensione dell’esistenza, e si dimentica per di più che qui è proprio il modo d’essere della comprensione quello che viene scoperto come temporalità»17. Questo è pienamente visibile nella letteratura, la cui esperienza è necessariamente temporale. Infatti, non vi può mai essere letteratura senza scrittura e tantomeno senza lettura. La lettura è un momento costitutivo della letteratura. Prima si è parlato della rappresentabilità dell’opera e della partecipazione di uno spettatore come parti fondamentali delle arti performative; ricordiamo inoltre l’importanza di tutte le varie rappresentazioni e l’importanza del loro ricorrere. Senza le interpretazioni non si comprende l’opera nella sua unità. Allo stesso modo, è impossibile l’esperienza estetica della letteratura senza la comprensione e, dunque, l’interpretazione del testo: «ogni lettura che sia anche comprensione è sempre già una forma di riproduzione e di interpretazione»18. Ma è evidente che, mentre la durata della partecipazione a un’opera performativa è stabilita dall’autore, nella lettura (e comprensione!) di un testo questo tempo è immensamente variabile e libero. La letteratura è diacronicamente temporale, soprattutto perché il fatto di poter possedere fisicamente l’opera fa sì che vi si possa ritornare per rileggere e, soprattutto, ricomprendere e dunque re-interpretare il testo. Poiché la disciplina che si occupa della comprensione dei testi è l’ermeneutica, ciò significa, come ha ben espresso Gadamer, che

l’estetica deve risolversi nell’ermeneutica […] e ciò significa che, a sua volta, l’ermeneutica nel suo insieme deve definirsi in modo da render giustizia all’esperienza dell’arte. Il comprendere deve esser pensato come una parte dell’evento del significare, in cui si costruisce e si realizza il senso di ogni enunciazione – di quelle dell’arte e di quelle di ogni altro tipo di comunicazione19.

Ma il comprendere è un fatto temporale ed è stato Heidegger con la sua «ermeneutica dell’effettività» a fare il passo decisivo nei confronti della fenomenologia, pensando alla soggettività non più come un cogito – seppur inserito all’interno dell’orizzonte temporale della coscienza – ma come un esistente la cui essenza è il comprendere attraverso il linguaggio, dove la temporalità non è più della coscienza ma è un orizzonte dell’essere: «il significato dell’essere doveva determinarsi in base all’orizzonte del tempo. La struttura della temporalità appariva come la determinazione ontologica della soggettività. Ma essa era qualcosa di più. La tesi heideggeriana era che l’essere stesso è tempo»20.
Il problema della modernità, dunque, consiste nell’aver confuso il carattere dell’esattezza della scienza con quello di verità dell’Essere, nell’aver appannato l’ente considerandolo oggetto conosciuto e dominato, nell’aver ricondotto l’arte e la filosofia a semplici contingenze culturali eclissando il loro carattere e destino di fondamento originario della storia e disvelamento della verità. La critica fenomenologica di Heidegger e Merleau-Ponty ha ristabilito lo statuto ontologico proprio dell’arte e dell’opera. Come scrisse Gadamer, «l’esperienza dell’arte costituisce, insieme all’esperienza della filosofia, il più pressante ammonimento rivolto alla coscienza scientifica perché essa ammetta e riconosca i propri limiti»21, e il compito di un’ermeneutica fenomenologica è proprio quello di ristabilire il primato dell’esperienza filosofica e artistica. Per riuscirvici, però, è fondamentale inserire entrambe queste esperienze all’interno del fenomeno del comprendere che differisce nettamente da quello del descrivere o definire caratteristico della scienza. Quella della comprensione non è, infatti, una metodologia da seguire per ottenere un risultato, ma è una struttura ontologica del linguaggio, della storia e dell’arte. Come spiega Gadamer rifacendosi al concetto heideggeriano di precomprensione, affinché si possa realizzare la comprensione di un testo, di un interlocutore o di un’opera, è fondamentale che vi sia una apertura, ossia la disponibilità al farsi dire qualcosa. Ma questo qualcosa non esaurisce mai se stesso, esso è sempre – come direbbe Merleau-Ponty –  il visibile di un invisibile che sta dietro. Come si è visto precedentemente, nella percezione del tempio non si dà soltanto l’insieme architettonico della pietra, ma si danno anche storia e cultura.
Ma ciò che conta di più all’interno del fenomeno del comprendere è quello di capire l’esigenza di quel determinato esprimersi, ossia la domanda che viene posta. Il compito dell’artista, ad esempio, va sempre più definendosi come una ricerca che si effettua perché non si possiede ancora quella determinata risposta; perché «il pittore in se stesso è un uomo al lavoro che ogni settimana ritrova nella figura delle cose la stessa interrogazione, lo stesso richiamo cui non ha mai finito di rispondere»22. Affermando ciò Merleau-Ponty avvicina l’arte a quella filosofia che si pone delle domande per ottenerne altre e la cui ricerca non può fermarsi dato che non è la risposta quello che preme al filosofo, ma il perpetuarsi della domanda. La domanda è ciò che consente l’apertura necessaria affinché si possa comprendere perché «l’essenza della domanda è il porre e mantenere aperte delle possibilità»23 e dunque delle altre domande. In questo senso, «l’arte del domandare è l’arte del domandare ancora, ossia l’arte stessa del pensare»24. Essa è la filosofia in tutte le sue declinazioni, tra cui anche l’estetica, ed ecco perché l’arte e la filosofia devono essere individuate come esperienze comprensive con un proprio statuto ontologico ben distinto da quello scientifico ma non per questo con meno valore. Ed ecco perché sia nell’esperienza artistica che in quella filosofica le domande, in quanto strutture ontologiche della comprensione ermeneutica, sono fondamentali.

 

Note

1 M. Heidegger, Sentieri interrotti (Holzwege, V. Klostermann, Frankfurt am Main, 1950), tr. it. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 11.

2 Ibidem.

3 Ivi, p. 14.

4 Ibidem.

5 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo (Wahrheit und Methode, J.C.B Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1960), tr. it. G. Vattimo, Bompiani, Milano 2000, p. 203.

6 Ivi, p. 207.

7 M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 21.

8 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945), tr. it. A. Bonomi, Bompiani , Milano 2017, pp. 215-216.

9 G.C. Argan, L’arte moderna di Giulio Carlo Argan, Milano 1990, p. 89. Si vedrà più avanti in che modalità la ricerca dell’artista è vicina a quella del filosofo ma non a quella dello scienziato.

10 M. Shapiro, Paul Cézanne (Paul Cézanne, Harry N. Abrams, New York 1952), tr. it. L. P. Maccia, Garzanti, Milano 1964, p. 8.

11 Vi è il termine tedesco “verstehen” che significa “comprendere” ma indica anche l’avere una determinata capacità pratica. Nella fenomenologia il concetto di schema corporeo può aiutare a dare l’idea di un tale comprendere “pratico”. Esso è una conoscenza di tipo pratico, un “know how” che non ha bisogno di un riferimento concettuale per attuarsi. Ad esempio, quando svolgiamo azioni come quella di guidare una bicicletta, la nostra attenzione è più rivolta alla strada che non alle movenze e alle forme che il nostro corpo assume mentre svolge l’azione e, in generale, non è necessaria una costante percezione del nostro corpo né per muoverci né tanto meno per assumere e mantenere una postura. È come se il corpo, tramite lo schema corporeo, venisse fornito di un’auto-organizzazione che lo pone in una certa relazione con l’ambiente tramite l’acquisizione di una determinata postura o la messa in atto di alcuni movimenti eseguiti a un livello non-riflessivo e subpersonale. Insomma è un conoscere che è allo stesso tempo un fare in quanto coscienza della possibilità di progetto e azione. In questo senso l’arte è un tipo di comprensione pratica. Per approfondire lo schema corporeo cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 151-203 e S. Gallagher, How the body shapes the mind, Oxford 2013, Oxford University Press.

12 M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 44.

13 Ibidem.

14 Ivi, pp. 46-47.

15 Ivi, p. 87.

16 Ivi, p. 93.

17 H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 267.

18 Ivi, p. 343.

19 Ivi, p. 353

20 Ivi, p. 533.

21 Ivi, p. 21.

22 M. Merleau-Ponty, Segni. Fenomenologia e strutturalismo, linguaggio e politica. Costruzione di una filosofia (Signes, Gallimard, Paris 1960), tr. it. G. Alfieri, Net, Milano 2003, p.85.

23 H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 619.

24 Ivi, p. 755.

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