Wende mich nicht um
A proposito di un detto della Fenomenologia dello Spirito di Hegel

Di: Giuseppe Raciti
3 Agosto 2010

1. Nel primo capitolo della Fenomenologia dello spirito Hegel esclude la sensibilità dal commercio con la verità: la sensibilità ha rapporti con la certezza, non con la verità; a rigore, non esiste una verità della sensibilità, come non esiste certezza del vero. Si tratta, con le parole di Georg Andreas Gabler, del «modo primitivo di sapere qualcosa»1, o anche, lo si è ribadito di recente, del «modo primario e primitivo» in cui il soggetto sperimenta se stesso2. Questa sfera ‘primaria’ o ‘primitiva’ non ha tuttavia niente a che fare con una ipotesi di filosofia della storia, o sia con vaghe affermazioni circa lo stadio del mondo anteriore alle grandi civiltà; al contrario, essa riguarda in guisa diretta la grecità. «La vérité de cette certitude, suggerisce con voce ferma Jean Hyppolite, n’est pas autre chose […] que l’être de Parménide»3.

Questa visione della grecità, così polemicamente riduttiva, si avvita tuttavia su un paradosso: per quanto relegata al di qua del vero, la certezza coltiva una tenace ‘volontà di verità’, in virtù della quale «appare [erscheint] come la cosa più vera»4. Dunque la certezza commercia con la verità in apparenza, cioè nell’apparenza; ma una volta penetrata nel territorio del vero, trattiene «solo l’essere della cosa»5.

Una dopo l’altra affiorano tutte le insegne del linguaggio filosofico: Essere, Apparenza, Verità, Sensibilità; ma esse intrecciano qui nuove e sorprendenti connessioni. Cade anzitutto la distinzione tradizionale tra essere e apparenza. L’oggetto che si dà sensibilmente (o apparentemente) «in tutta la sua compiutezza»6, è l’«essere della cosa». Così dalla prima pagina della Fenomenologia apprendiamo che la scienza dell’essere si dipana senza residui sotto il sole della certezza, o sia entro il dominio della sensibilità. Di rimando, l’ontologia non è che un riflesso dell’estetica. È un approdo tipicamente greco e conferma in pieno l’indicazione di Hyppolite.

Ora finché restiamo nell’ambito della coscienza sensibile i due termini del rapporto fenomenologico — l’io e la cosa — non hanno il «significato di una mediazione molteplice»7, ovvero non dispongono dell’energia che alimenta lo sviluppo dell’io «come coscienza»8. In altre parole, la sensibilità indugia al di qua dello sviluppo della coscienza. Con ciò si vuol dire che l’unità della coscienza e della sensibilità non è ancora contraddittoria; non è ancora sorto il problema di assorbire dialetticamente la sensibilità nel dominio della coscienza. Siamo di fronte a una sospensione del processo logico, e questa, si sa, è l’essenza del paradosso.

Contraddizione e paradosso sono dispositivi diversamente congegnati: la contraddizione risolve gli opposti in unità provvisorie, il paradosso li lascia coesistere senza conflitto, cioè pacificamente. La prima è un fattore di movimento, il secondo di stasi. Inerzia e atrofia contrassegnano in definitiva lo statuto della certezza: non tanto perché essa non aspiri alla verità, ma perché il suo sviluppo, come si diceva, è ‘solo’ apparente. Ci sono dunque due criteri di sviluppo: uno reale, l’altro apparente. Il lavoro della dialettica si incarica di unificarli sotto le specie del vero e del falso.

La scabra conclusione hegeliana: «[…] il singolo sa il puro Questo, o sia la singola cosa [Der Einzelne weiß reines Dieses, oder das Einzelne]»9, è ben nota al lettore della Fenomenologia dello spirito. Il singolo sa la singolarità: Der Einzelne weiß das Einzelne. Sostiamo per qualche istante su questa parafrasi del testo. Der Einzelne, das Einzelne. Il sostantivo rimane lo stesso, ma i due articoli, differenziandosi, registrano il cambiamento di genere. L’articolazione sensibile dei generi o, se piace meglio, il processo di differenziazione dell’unità logica del genere, introduce un altro elemento nel plesso della certezza — lo chiameremo l’elemento politico. L’atto che disarticola il genere e riarticola i generi è l’atto politico ricondotto alla sua essenza. Ne discende la semplice impossibilità di istruire una politica dell’unità. La logica della verità non ha punti di contatto con la logica politica della certezza. Spetta all’articolazione sensibile dei generi il compito di spezzare l’involucro astratto dell’unità logica. Tale compito è politico. Tosto che si instaura la visione politica, si apre, nel fatto, il regno della molteplicità. Questo significa che ogni politica è costitutivamente ‘democratica’ ovvero ‘greca’. L’essere, infatti, si dice in molti modi.

Si dipana lentamente lo schema di un rapporto di tipo paritario, in quanto i due elementi polari fanno capo a generi tra loro incomponibili o differenziati. Se sul piano logico o dell’unità il nesso paritario è statico e rientra insensibilmente nell’ambito della tautologia, sul piano politico o della molteplicità esso configura invece un rapporto pacifico. Ma il punto è che un rapporto pacificato non è più, in senso stretto, un rapporto: manca infatti il movimento caratteristico che lo rende possibile, o sia la compenetrazione degli opposti. A sua volta la compenetrazione degli opposti implica l’unità del genere; se questa viene meno, l’io non riconosce la cosa e di conseguenza non ‘diventa’ coscienza. Questo movimento di approssimazione alla coscienza, che si consuma tuttavia nel cavo della coscienza stessa, connota, secondo Hegel, il divenire storico del pensiero, cioè la formazione stessa della realtà.

Nell’orizzonte fisso della certezza la cosa e la coscienza appaiono invece radicalmente separate; potremmo anche dire: platonicamente separate. In effetti è in questione, in un senso al contempo letterale e metaforico, un rapporto platonico. Tra la cosa e la coscienza insiste allora il chorismos. La posizione del giovane Marx10, che denuncia il carattere unilateralmente coscienzialistico del divenire hegeliano, entra misteriosamente in risonanza con questo sottofondo ‘platonico’ della certezza. Per servirci delle parole puntuali e immaginifiche di Th. Mann, ci troviamo qui «nella sfera rappresentazionale dell’elemento mitico e intemporale», o sia «entro una esistenza affetta da simultaneità e separatezza»11.

Si assuma ora che due enti possono insistere immediatamente solo ignorandosi, cioè solo instaurando un rapporto ‘a distanza’, nella distanza. Secondo questo schema, la natura della immediatezza è tale da escludere preliminarmente il rapporto logico. La certezza è con ciò la condizione filosofica in cui il rapporto logico non prevale sulla coesistenza politica. Già Ludwig Feuerbach, occorre rammentarlo, rilevava che l’essere sensibile (o apparente) «rappresenta il contrario dell’essere logico»; e aggiungeva: come la Logica «ha la Fenomenologia dietro di sé», così l’essere sensibile staziona «sempre davanti a noi, e viene anzi necessariamente evocato proprio perché è il contrario della logica […]»12. La moderna rinascita dell’ontologia greca non sarà affatto estranea a queste importanti sollecitazioni. Il richiamo alla «“sana e fresca sensualità”» di Feuerbach, «opposta alla “filosofia astratta”», è un tema ricorrente nei testi nietzscheani13.

Da questa prima ricognizione attorno al nostro problema ricaviamo che il significato della parola ‘immediatezza’ è toto cælo diverso dal significato della parola ‘unità’. Come ha osservato G. Deleuze in una pagina dedicata alla Fenomenologia, l’immediatezza sensibile è piuttosto il luogo deputato della differenza14. Se l’unità presuppone il rapporto logico, l’immediatezza pone la differenza politica. La pacifica coesistenza degli opposti è precisamente la causa della differenza che li separa. Lo stesso concetto può essere espresso anche in questi termini: l’incongruenza logica degli opposti è la condizione politica della loro pacificazione.

2. Una volta identificato il luogo ontologico della differenza, Hegel pone il problema della sua enunciabilità:

Quel che stiamo dicendo è: questo; vale a dire, enunciamo il questo universale. Oppure diciamo: esso è; cioè enunciamo l’essere in generale. In tal modo non ci rappresentiamo [vorstellen] certamente il questo universale o l’essere in generale, bensì enunciamo l’universale; ovvero parlando non ci esprimiamo affatto secondo quanto intendiamo in questa certezza sensibile. È il linguaggio però, come vediamo, a essere più veritiero [das Wahrhaftere]; in esso siamo noi stessi a confutare immediatamente [unmittelbar] il nostro intendere, e poiché l’universale è il vero della certezza sensibile [das Allgemeine das Wahre der sinnlichen Gewißheit ist], e il linguaggio non esprime che questo vero [die Sprache nur dieses Wahre ausdrückt], non c’è assolutamente mai la possibilità di dire un essere sensibile per come lo intendiamo [ist er gar nich möglich, daß wie ein sinnliches Sein, das wir meinen, je sagen können]15 .

Queste parole assai note agli studiosi scolpiscono sulla carta, che il tempo ha reso pietra, la condanna senza appello della sensibilità e dell’immediatezza. La condanna scende dall’impossibilità (logica) di pronunciare l’essere facendo a meno della verità che abita nella parola. «L’essere che crea la parola, sintetizza un brillante filosofo del linguaggio, non è un essere di carne, è un essere di ragione […]»16. Si parla solo il vero, cioè l’universale; e proprio perché il linguaggio articola il vero, la singola cosa rappresenta il falso. È un passaggio decisivo: un falso problema (l’enunciazione della differenza) si trasforma nel problema del falso. Lo stratagemma serve a introdurre entro i confini della certezza la logica della verità, che verte sulla dialettica del vero e del falso. Si tratta di affiliare la certezza alla verità, di trasformare la certezza in un sottoprodotto della verità. In tal modo la politica cede alla logica e accede alla verità. Questa politica della verità (o questa verità della politica) forma la radice di ciò che la tradizione giuridica chiama bellum iustum.

È a questo scopo o in questa direzione che la dialettica innesca il dispositivo della mediazione; la mediazione lavora sulla superficie dell’immediatezza e le conferisce uno spessore inedito. Il risultato è che la superficie scompare a beneficio della profondità. La questione della verità, in altri termini, non riguarda la superficie; la verità non commercia con lo spazio. Verità e falsità si sovrappongono alla semplice presenza, o sia la sdoppiano e la trascendono. In tal modo il movimento che conduce la coscienza dalla certezza alla verità va di pari passo con il passaggio dalle categorie spaziali a quelle temporali. Uno spazio vero risulta altrettanto impraticabile di un tempo certo. All’altezza di questo snodo cruciale, il tempo si rivela «come la verità dello spazio»17.

In sintesi, la cosa non è mai vera perché è passibile di rappresentazione, non di enunciazione. L’enunciazione copre il lato logico del linguaggio; ma il linguaggio possiede anche un lato immaginale. Il nesso della parola e della rappresentazione illustra il lato estetistico del linguaggio. Le lettere, poniamo, non hanno solo un significato, ma anche una forma e persino una consistenza; possiamo rappresentarcele indipendentemente dalla loro funzione logica. L’organo della forma è la rappresentazione. La rappresentazione non concerne la verità — il suo campo di azione è la sensibilità, cioè il mondo delle cose. Le cose non sono vere, sono sensibili, immediate, singolari, apparenti. E sono proprio queste caratteristiche a inibire la loro articolazione linguistica. Nessuno, afferma Hegel, può pronunciare la cosa nella sua immediata datità; o più precisamente — è il punto di approdo del lavoro dialettico —, dire la differenza è affermare il falso. Qui non si tratta, va da sé, dell’idealismo che nega l’esistenza delle cose, del mondo esterno ecc., bensì dell’idealismo che in tutta coerenza svincola il linguaggio dal dominio del sensibile, libera l’enunciazione dalla rappresentazione, la scienza dall’arte; emancipa la filosofia dal dominio dell’estetica. In questa ardita trascrizione hegeliana il pensiero occidentale compie il massimo sforzo per perdere definitivamente i contatti con la costa greca. Come aveva intuito il giovane Marx, il passaggio rivoluzionario dalla teoria alla prassi, implicito in questa direttrice fenomenologica, risponde all’esigenza di fondare la filosofia «su un altro elemento»18. Sulle orme del grande Temistocle, che convinse i Greci a puntare tutto sulla guerra navale, occorrerà spostare il sito della nuova Atene filosofica dall’elemento solido a quello fluido. Di colpo, come in un sogno, ci troviamo in alto mare.

3. Nella legge del vero o dell’universale ricadono tanto l’oggetto quanto il soggetto della certezza sensibile. «Dicendo questo qui» ricapitola nervosamente Hegel,

questo adesso, ovvero qualcosa di singolo [ein einzelnes], dico ogni questo, ogni qui, ogni adesso, ogni singolo; e allo stesso modo [ebenso], dicendo Io, questi, questo singolo Io, dico in generale ogni Io; ciascuno, insomma, è ciò che dico dicendo: Io, questi, questo singolo Io19.

Ma per quanto la dialettica revochi in dubbio l’autonomia dei due poli della sensibilità, cioè l’io e l’oggetto, la certezza non si dà per vinta e sperimenta in limine la loro simultaneità. È «l’intera certezza sensibile […] a mantenersi salda in sé come immediatezza […]», e la «verità di tale immediatezza» non prevede alcuna distinzione «tra l’io e l’oggetto»20. La rinuncia a una distinzione così vitale per la dialettica fa dell’immediatezza una «totalità». Ma la totalità non è l’universale. La totalità si arresta per così dire a un passo dall’universale: lo indica ma non lo dispiega; lo fa esistere come una cosa separata. La totalità è con ciò l’universalità immediata — nient’altro che un paradosso.

Come si affermava prima, il paradosso obbedisce a leggi diverse da quelle che regolano la contraddizione, in quanto lascia coesistere pacificamente gli opposti senza mediarli. La certezza è paradossale perché esprime la coesistenza degli opposti, cioè la compresenza dell’io e dell’oggetto. L’io sussiste indipendentemente dalla cosa, la cosa indipendentemente dall’io. Questo e non altro è il certo. A rigore, si ha certezza non della cosa, ma della sua esistenza separata. La certezza è la separatezza stessa: la theoria implica il chorismos. La totalità è con ciò la parodia dell’universalità, e per conseguenza il soggetto della certezza mette in scena la parodia della conoscenza — indica l’oggetto e non si volta.

Giunti sull’estremo limite della certezza, «io affermo che il Qui è l’albero, e non mi volto [wende mich nicht um21; così facendo, lascio sussistere l’oggetto in piena indipendenza dai movimenti temporali del soggetto — non ha cioè più importanza se il Qui, cangiata l’Ora, non è più albero ma casa, o qualsiasi altra cosa — e «sono puro intuire» [ich bin reines Anschauen]22.

Due elementi del testo ci confermano che il limite logico della certezza segna anche il confine storico-filosofico della grecità: in primo luogo il riferimento alla pura intuizione, e più letteralmente allo spirito della contemplazione o θεωρια; in secondo luogo il cenno all’immobilità fisico-mentale del soggetto della certezza, una condizione che rimanda quasi certamente, come una specie di cripto-citazione, alla prescrizione imposta a quella particolare specie di prigionieri di cui narra Platone nel celebre mito della caverna.

In Resp. VII, 514a ss. Platone racconta che i prigionieri sono chiusi nella caverna «con le gambe e il collo incatenati così da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti [προσθεν μονον οραν], giacché la catena impedisce loro di girare la testa [κυκλω… τας κεφαλας περιαγειν]»23. Platone, è noto, allestisce questo spettacolo ipogeo allo scopo di denunciare la povertà ontologica del così detto mondo visibile. Ma ora Hegel capovolge l’assunto: l’impossibilità di adattare il corpo alle mutevoli esigenze della coscienza è in certo modo il segno materiale, il ‘sintomo’ della persistenza di una condizione ontologica (e patologica) da cui occorre liberarsi. Il punto, cioè, non è quello di avvicinarsi alle ‘idee’, ma di liquidarle una volta per tutte, di scioglierle letteralmente nel mare universale della prassi.

Questa diversità di vedute sulla questione ontologica e in generale sulla natura della certezza non è soltanto un dato verificabile alla luce di un’indagine storiografica. Bisogna considerare con attenzione anche le fratture che incidono e talvolta spezzano le linee diacroniche. A questo proposito il lettore può constatare un fatto significativo: Martin Heidegger ha sviluppato il suo commento al mito della caverna in termini perfettamente compatibili con lo statuto hegeliano della certezza. «L’uomo della caverna», egli scrive, ritiene di essere «in possesso, in modo pieno e inequivocabile, del reale», a segno che «non può neppure supporre la possibilità che il suo reale [sein Wirkliches] possa essere solo un’ombra»24. Orbene, sappiamo che questo è esattamente il punto di vista del soggetto della certezza. La conferma di ciò viene anche dal fatto che Heidegger legge la nozione platonica di ombra sulla falsariga del principio dialettico del falso. Heidegger segue insomma Hegel, non Platone; di rimando, i suoi moderni cavernicoli si ritrovano a lottare contro le insidie (platoniche) della coscienza sensibile. Da una siffatta impostazione del problema discendono conseguenze interessanti. Come questa: benché l’assunzione heideggeriana dell’ontologia greca passi traverso la ripresa esplicita di alcuni dei temi del pensiero presocratico, essa, tuttavia, si avvale implicitamente del dispositivo critico elaborato da Hegel nel primo e fondamentale capitolo della Fenomenologia dello spirito25.

La nostra ipotesi consiste allora nel proposito di riorientare sullo stesso Heidegger il motivo euristico espresso nel prologo alla Platons Lehre. In particolare, se «la “dottrina” di un pensatore è ciò che nel suo dire rimane non detto»26, assumiamo qui che il «“non detto”» del pensatore Heidegger mette capo alla riattivazione non dichiarata della critica hegeliana del platonismo e dell’ontologismo greco. L’ontologismo di Heidegger si baserebbe in definitiva sulla critica dell’ontologismo articolata da Hegel nella Fenomeonologia dello spirito. L’innalzamento heideggeriano della grecità appare pertanto solidale all’affondamento hegeliano della grecità. Adottando la critica hegeliana della certezza, Heidegger non riscopre i Greci, bensì li ricopre definitivamente sotto i loro stessi concetti. Certo, si tratta solo di un altro paradosso, ma se non altro questo significa che la logica del vero e del falso non lo riguarda.

Com’è inevitabile, non tutti gli stili del pensiero moderno seguono la rotta hegeliana. La questione dello statuto estetistico del linguaggio impronta per es. l’intera struttura filosofica della Nascita della tragedia di Nietzsche27, il primo libro e il primo passo della modernità; ma in questa sede dovremo contentarci di un esempio minore, sebbene pregnante. In un passaggio del dialogo tra il diavolo e il geniale musicista del Faustus di Mann la discussione tocca la natura dello spazio infernale. L’inferno, leggiamo, esiste e si vede, ma non ha significato; c’è, consiste, ma non vuol dire niente. L’impossibilità di enunciare la condizione infernale, ragiona il diavolo, muove dal fatto che in questo caso l’«essenziale», o sia l’universale, «non coincide con le parole»28. Ma diversamente che in Hegel, questa mancata coincidenza è fonte di ricchezza, a segno che «la gioia segreta e la sicurezza dell’inferno» sta proprio in questa sua capacità di sottrarsi alla funzione logica della significazione. L’inferno, chiosa Mann nei panni antichi dello Schalk, è «salvo dal linguaggio [vor der Sprache geborgen29.

Anche la certezza è salva dalla verità: grazie al suo statuto infernale, grazie alla costituzione aidetica non riconducibile al modello eidetico o veritativo. Il plesso mitico della certezza si ricompone in un lampo: Ἅιδης, dice il poeta, è un «serbatoio di immagini»30. Come energia produttrice di immagini, la certezza circoscrive un mondo parallelo (l’altro mondo) rispetto a quello della verità e della produzione dei concetti. La certezza è dei morti, della morte; mentre la vita è segnata dalla successione delle verità che scandiscono storicamente la prassi del potere. Sappiamo però che tra politica e potere, come tra teoria e prassi, insiste, salvifico, il chorismos.


Note

1 G.A. Gabler, Critica della coscienza. Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel [1827], a cura di G. Cantillo, Prismi, Napoli 1986, p. 143. Georg Andreas Gabler, allievo della prima ora, sarà il successore di Hegel sulla cattedra di Berlino.

2 R. Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati-Boringhieri, Torino 2004, p. 107.

3 G.W.F. Hegel, Phénomeonologie de l’Esprit [1941], traduction de J. Hyppolite, vol. I, Gallimard, Parigi 1992, p. 81, in nota.

4 Id., Phänomenologie des Geistes, a cura di H.F. Wessels e H. Clairmont, con una introduzione di W. Bonsiepen, Meiner, Amburgo 1988, p. 69.

5 Ibidem

6 Ibidem

7 Ibidem

8 Ibidem

9 Ivi, p. 70.

10 K. Marx, Kritik der Hegelschen Dialektik und Philosophie überhaupt [Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844], in Werke, Dietz, Berlino 1968, vol. I, pp. 568-586.

11 Doktor Faustus. Das Leben des deutschen Tonsetzers Adrian Leverkühn, erzählt von einem Freunde [1947], Fischer, Francoforte s.M. 2008, p. 616.

12 L.A. Feuerbach, Filosofia dell’avvenire [1843], a cura di C. Cesa, Laterza, Bari 1967, p. 67.

13 Cfr., per questa citazione, F. Nietzsche, Nachlaß 1885-1887, in Kritische Studienausugabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, De Gruyter, Berlino-New York 1999, vol. XII, p. 261.

14 Cfr. Differenza e ripetizione [1968], trad. it. di G. Guglielmi, Il Mulino, Bologna 1971, p. 91.

15 Fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 72 (versione leggermente modificata); Phänomenologie des Geistes cit., pp. 71-72.

16 B. Parain, Recherches sur la nature et les fonctions du language [1942], Gallimard, Parigi 1972, p. 47.

17 G.W.F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften [1817], a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Suhrkamp, Francoforte s.M. 1970, vol. IX, t. II, Zusatz al § 257, p. 48.

18 K. Marx, Quaderni sulla filosofia epicurea, trad. it. di M. Cingoli rivista da N. Merker, in Opere, Editori Riuniti, Roma 1980, vol. I, p. 521, testo citato in R. Finelli, Un parricidio mancato cit., p. 84.

19 Fenomenologia dello spirito cit., p. 73 (Phän., p. 73).

20 Ivi, p. 74 (Phän., p. 74).

21 Ibidem

22 Ibidem

23 Si cita dalla versione di M. Vegetti, Rizzoli, Milano 20082 .

24 M. Heidegger, La dottrina platonica della verità [1942], in Id., Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 20024, pp. 170-71; Id., Platons Lehre von der Wahrheit, Klostermann, Francoforte s.M. 19974, p. 17.

25 L’«inizio della Fenomenologia, scrive G. Deleuze, è il tocco finale della dialettica hegeliana» (Differenza e ripetizione cit., p. 91).

26 M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, in Segnavia, a cura di F-W. v. Herrmann, trad. it. di F. Volpi, Milano 2002, p. 159; Id., Platons Lehre von der Wahrheit, in «Geistige Überlieferung», II, 1942, p. 96.

27 A questo riguardo, se mi è consentito, vorrei rimandare il lettore all’inchiesta che ho svolto nel mio MECHANE. Hegel, Nietzsche e la costruzione dell’illusione, Napoli, Guida 2000.

28 Th. Mann, Doktor Faustus cit., p. 328.

29 Ibidem

30 F.G. Jünger, Griechische Mythen [1947], Klostermann, Francoforte s.M. 19944, p. 143.

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