Elias Canetti, il nemico della morte

Di: Alberto Giovanni Biuso
3 Agosto 2010

Una mostra allestita nel 1995-1996 al Beaubourg aveva come titolo Elias Canetti,  l’ennemi de la mort. Una inimicizia che parte tuttavia dalla constatazione, fredda e insieme partecipe, che la volontà di morte «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce»1. L’indagine condotta da questo scrittore indefinibile -narratore, filosofo, sociologo, antropologo?- sulla potenza delle forze che guidano gli esseri umani è un tentativo di spiegare la vita che è destinata a finire e la morte che ci deve trovare vivi. Una lucidità assoluta guida Canetti in quel «mondo senza testa» nel quale si muove la «testa senza mondo» di Peter Kien, il protagonista di Auto da Fé, romanzo nel quale la natura parossistica, imprevedibile, irrazionale delle cose è data con una scrittura insieme classica ed espressionistica, endiadi inconciliabile e che pure Canetti sa coniugare:

Un giorno mi venne in mente che il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo, per così dire dal punto di vista di un unico scrittore, il mondo era andato in pezzi, e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua frammentarietà era ancora possibile dare di esso un’immagine veritiera. Ma non per questo bisognava accingersi a un libro caotico nel quale nulla fosse più comprensibile, al contrario, bisognava escogitare con grandissimo rigore dei personaggi estremi, come quelli di cui in effetti il mondo era fatto, e questi individui bisognava raffigurarli in tutti i loro eccessi uno accanto all’altro e ognuno separato dall’altro. Concepii il mio piano di una “Comédie humaine dei folli” e scrissi l’abbozzo di otto romanzi2 .

Di tale progetto venne portato a termine soltanto il romanzo che immaginava «un uomo fatto solo per i libri, l’Uomo dei libri»3 e tuttavia in questo personaggio si riassumono tutti gli altri: «la separazione tra i diversi romanzi si trasformò in separazione all’interno di un unico libro»4.

Peter Kien, sinologo ammirato in tutto il mondo, vive distaccato e solitario nella sua grande casa-biblioteca, fino a quando Therese -che in sé accoglie ed esprime in modo totale le diverse forme della meschinità umana- riesce a farsi sposare e a gettarlo nella nave dei folli che è la vita. Divenuta sua moglie, Therese lo butta fuori dall’appartamento e dalla biblioteca; un nano gli sottrae, con pazienza e metodo, buona parte del patrimonio; un portinaio omicida lo rinchiude al buio in uno stanzino maleodorante. Per una fortunata e fortuita circostanza, arriva Georges, fratello di Kien e celebre psichiatra, liberandolo da Therese e da ogni fastidio. E tuttavia dopo la partenza di Georges il delirio di Kien arriva al suo culmine nella Blendung -il fuoco abbagliante dell’incendio e dell’illuminazione- che è il titolo originario e originale del romanzo. Alla fine, Peter Kien «ride forte, come non ha mai riso in tutta la sua vita»5.

Domina in questo libro una sottile ma costante scotomizzazione, quel processo che chiude ogni umano in se stesso, restringendo la visuale fino a escludere ciò da cui ciascuno viene impaurito o infastidito. Questo atteggiamento è parte di ciò che Massa e potere definisce la forza centrifuga che spinge a conservare l’identità del singolo tramite l’isolamento nel quale ognuno sta come un mulino a vento in una pianura sconfinata. Questa situazione comporta tuttavia un tale peso d’angoscia -il sentimento alla lunga inaccettabile dell’esser soli- da spingere a immettersi nella forza opposta, quella che unisce gli sparsi individui e tramite la quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa [la massa] è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto […] D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo»6. Nascono così gli insiemi fisici, gli aggregati centripeti, la semplice vastità del numero. Ma il momento decisivo nel quale da una raccolta più o meno vasta di individui si passa alla vera e propria massa è la «scarica» nella quale tutti decidono di fare e di essere la stessa cosa, diventano uguali e provano con ciò un enorme sollievo, di carattere appunto fisico, biologico. Alcuni esempi: la paura improvvisa di fronte a un pericolo (un predatore, un’inondazione, l’esercito avversario, le forze dell’ordine) crea la massa in fuga; il rifiuto di un’azione dovuta fa nascere la massa del divieto (lo sciopero); la volontà di uscire a tutti i costi da una situazione giudicata insostenibile forma quella del rovesciamento (rivoluzioni e jacqueries); un gruppo che si autocelebra proiettando se stesso nella natura, in un eroe o in un dio, produce la massa festiva.

Cos’è, oltre la scarica, a unificare tali e altre forme di massa? In primo luogo la necessità di crescere indefinitamente, di penetrare ovunque senza lasciare nulla fuori di sé, di coincidere -alla fine- con tutto ciò che esiste. Poi, una eguaglianza «assoluta e indiscutibile»7, che pervade la massa dando unità alla molteplicità di sensazioni, esperienze, volontà. Ancora: una concentrazione fisica di cui la massa sente comunque sempre l’insufficienza, dato che essa vorrebbe annullare lo spazio fra un elemento e l’altro dei suoi componenti. Infine: la direzione, il muoversi tutti insieme verso qualcosa, unica garanzia contro il pericolo sempre incombente del disgregamento, «e provarono la felicità di volere tutti insieme la stessa cosa»8. La forma-massa davvero originaria, modello e insieme simbolo di ogni altra, sta nella natura e nelle diverse sue manifestazioni: grano, foreste, pioggia, vento, sabbia, mare, fuoco. In Auto da fé la descrizione della massa oscilla fra lo stigma di un potere irriflesso e distruttivo -«essa ribolle, animale selvaggio, ardente e turgido di umori, nelle profondità del nostro essere, più profonda delle Madri»9– e una articolata difesa della sua superiorità sull’individuo anima bella -«erano persone colte, e la cultura è il salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui»10. Peter Kien, infatti, è «un perfetto studioso» che «vive in solitudine per poter essere nello stesso tempo vicino al maggior numero possibile di cose. Come se in tal modo egli potesse essere realmente vicino a una sola di esse!»11.

Di fronte alla massa -suo prodotto? suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto- sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. Nel mondo contemporaneo, tale circuito di afferramento, consumo e digestione per mangiare di nuovo si è trasformato nel culto della produzione che ha sostituito di fatto ogni altro stile di vita, in una indefinita tensione verso l’accrescimento dei beni da produrre, vendere, acquistare, distruggere, riprodurre. Il potere è dunque diventato pura produzione in vista del consumo. Ma in ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza»12. Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine -impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini- è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini»13.

L’obiettivo ultimo sarà la soppressione degli altri «per essere l’unico, oppure, nella forma più mitigata e frequente, il desiderio di servirsi degli altri per divenire l’unico con il loro aiuto»14. Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Un profondo conoscitore dell’animo umano e del potere -il Cardinale Mazzarino- consigliava infatti anzitutto il tacere: «per lo più passatela in silenzio», «parla pochissimo, perché è agevole a sdrucciolare in trascorsi di lingua, quando molto si discorre»15; poi la simulazione, il fingere in ogni occasione «umanità e cortesia», l’acquisire con ogni mezzo fama di uomo virtuoso e magnanimo, perché «se una volta hai guadagnato grado di grand’uomo, anche fallando, i falli stessi ti saranno attribuiti a gloria»16; infine e soprattutto la dissimulazione. In questa parola prediletta dai trattatisti secenteschi si condensano il silenzio e la finzione. Non un’apologia della menzogna ma solo del nascondimento, poiché non è bene apparire sempre ciò che davvero si è. In tal modo, infatti, si offrirebbero troppi appigli ai nostri nemici per conquistare la nostra persona. E dunque «nell’apparenza esteriore vestiti di tutti contrarj affetti, a quei che nascondi nell’animo»17.

Tramite il silenzio, la simulazione e la dissimulazione, la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano […], questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando»18. Il desiderio di dominare come signore incontrastato su un mondo ridotto al silenzio -rimanendo l’unico ad avere parola e vita- è inseparabile dal timore di poter essere a propria volta ridotti a nulla dalla rivolta di coloro che subivano. Ciò crea la necessità di eliminare il pericolo moltiplicando i cadaveri (in senso letterale ma più spesso traslato). È questa per Canetti la spirale –tout court paranoica- del potere.

L’unica forma di liberazione dall’impulso a sopravvivere distruggendo ciò che è diverso da noi «è per propria natura una soluzione riservata solo a pochi» e consiste in «un isolamento creativo che faccia acquistare l’immortalità»19: l’arte, il sapere, la cultura come sopravvivenza che non si nutre della morte altrui, anzi moltiplica e ricrea la vita. Per Canetti, è Stendhal il simbolo più riuscito di tale forma: «ma chi apre Stendhal ritrova lui stesso insieme con tutti coloro che lo circondavano e li ritrova in questa vita. Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio dei morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine»20.

Auto da fé è un romanzo-parodia dei libri ma la sua scrittura è tutta mentale, sino a strutturarsi a volte in un vero e proprio stream of consiousness attraverso il quale sembra esprimersi in modo parossistico e insieme calmo il delirio del mondo. Massa e potere non è un affresco storico né una tipologia sociologica. In esso Canetti tenta piuttosto una fisica e, di più, una biologia del potere. La massa e il comando vengono pensati a partire dalle loro scaturigini nel mondo vegetale e animale. Psicologia, etnologia, storia, antropologia, etologia confluiscono nel magma di un tentativo lucidissimo di comprendere ciò che accade. Canetti non giudica la massa, la descrive come qualcosa che costituisce il mondo, sia umano sia animale e vegetale. Valuta invece il potere, svelandone la vera e propria natura patologica. Ma in questa modalità del giudizio sembra permanere l’idea roussoviana delle masse che autolegittimano il loro potere nella volontà generale, masse che si autocelebrano come Volk e come fonte di una giustizia inappellabile.

Canetti -Premio Nobel per la letteratura nel 1981- è stato un grande maestro della parola. Le sue pagine splendenti offrono una comprensione radicale del potere, che è l’altro nome della Morte. In esse il volto della Medusa ci appare in tutta la sua potenza. Ma attraverso la parola che tale potenza sa descrivere si sopravvive allo sguardo dell’orrore. «Diversi miliardi di uomini qualunque avevano vissuto assurdamente e altrettanto assurdamente erano morti. Mille uomini precisi, non più di mille, avevano edificato la scienza»21. È la scrittura il nemico della morte.

Note

1 E. Canetti, Massa e potere (Masse und Macht, 1960), trad. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981, p. 87.

2 Id., Auto da fé, (Die Blendung, 1935), trad. di L. e B. Zagari, Milano, Adelphi 1985, p. 517.

3 Ivi, p. 518.

4 Ivi, p. 519.

5 Ivi, p. 505.

6 Id., Massa e potere, cit., p. 18.

7 Ivi, p. 35.

8 Id., Auto da fé, cit., p. 353.

9 Ivi, p. 447.

10 Ivi, p. 446.

11 Ivi, p. 453.

12 Id., Massa e potere, cit., p. 273.

13 Ivi, p. 366.

14 Ivi, p. 561.

15 Breviario dei politici secondo il Cardinale Mazzarino, a cura di G. Macchia, Rizzoli, Milano 1989, pp. 66 e 73.

16. Ivi, pp. 11 e 32.

17 Ivi, p. 71.

18 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 373.

19 Ivi, p. 570.

20 Ivi, p. 336.

21 Id., Auto da fé, cit., p. 333

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