Corpi, sacrifici e filosofia nella Grecia antica

Di: Luca Grecchi
4 Gennaio 2022

 

Mi occuperò, in questa sede, dell’ambito ellenico, con riferimento in particolare all’epoca della nascita della filosofia, per quanto anche con alcune premesse relative alle epoche antecedenti. Cercherò soprattutto di collegare il tema del sacrificio, che non è sicuramente uno dei più “praticati” in ambito filosofico, alla nascita della nostra disciplina, per mostrare come fra questi due contenuti vi sia, a mio avviso, un rapporto non di prevalente continuità, ma di discontinuità. Per farlo, tuttavia, saranno necessarie alcune riflessioni preliminari.
Direi innanzitutto che il sacrificio – nonostante una definizione univoca del concetto sia assai difficoltosa –, in pressoché tutte le culture in cui è stato praticato, ha costituito sostanzialmente un atto di sottomissione nei confronti del divino, dal quale, mediante vari riti, gli uomini cercano di ottenere protezione rinunciando a qualcosa di caro. Questa modalità nacque verosimilmente dal fatto che, sin dalle epoche più antiche, gli uomini hanno subìto la presenza di forze fisiche e psichiche – dunque naturali ed umane – apparentemente incontrollabili, o comunque inspiegabili. Delle stesse, l’imputazione al divino è spesso sembrata la più agevole spiegazione, il che induceva, in qualche modo, a tentare una mediazione con il divino stesso.
Col sacrificio, gli uomini rinunciano a una parte della loro potenza per ottenere uno sguardo benevolo da parte del divino. Per questo motivo, ossia in quanto estranei a questa dinamica, non possono essere fatti rientrare nel concetto di “sacrificio” fenomeni come la uccisione rituale di animali per la ripartizione comunitaria delle carni (poiché le carni non sono in prevalenza offerte agli dèi), e nemmeno fenomeni come la uccisione di persone invise alla comunità (poiché la loro eliminazione non costituisce la rinuncia a qualcosa di prezioso).

Svolte queste considerazioni preliminari, vorrei cominciare affermando che, per quanto concerne l’area ellenica, fin dall’epoca omerica, furono presenti credenze di “possessione” divina, mediante le quali l’uomo riteneva di poter parlare o agire per conto del divino. Questo fenomeno può essere posto in relazione col tema del sacrificio, poiché il soggetto sacrificante, che di solito esercita un potere nella comunità, è spesso ritenuto essere in comunicazione col divino. Occorrerà ora cercare di comprendere fino a che punto questo rapporto sia stato rilevante in Grecia, e in quali epoche, in quanto solo una diffusa presenza del fenomeno sacrificale potrebbe porre le premesse per ritenere poi il medesimo come centrale nella riproduzione sociale della comunità.
Per quanto concerne i dati archeologici, i sacrifici umani sono stati in epoca minoica, ossia a partire circa dal XX secolo, nonché nei secoli successivi, assai rari1. Per l’epoca omerica, in cui iniziano le prime testimonianze scritte, nei poemi risultano più che altro descritti sacrifici animali, talvolta finalizzati alla ripartizione comunitaria delle carni2. Il famoso sacrificio della figlia Ifigenia da parte del re degli Achei Agamennone, si trova riportato solo nella letteratura di epoca classica, con differenti versioni del mito, e non nei poemi omerici3. La più nota rappresentazione del medesimo è quella – presente nella Ifigenia in Aulide di Euripide – in base a cui, di fronte alla bonaccia che bloccava la flotta achea nel porto di Aulide, l’indovino Calcante prescrisse ad Agamennone, per porre rimedio alla situazione, l’uccisione della figlia, non esponendo però alcun preciso nesso causale fra i due eventi.
Fermo restando l’episodio mitico sopra riportato, e pochi altri, non mi pare tuttavia che il sacrificio umano cruento, o anche il sacrificio animale non finalizzato alla ripartizione comunitaria delle carni, siano stati fenomeni rilevanti nel contesto sociale ellenico4. Si è affermato spesso che, nei poemi omerici, gli dèi avrebbero assunto un ruolo prioritario nello sviluppo degli avvenimenti. Ciò nonostante, come ho mostrato in un libro di alcuni anni fa, è sempre l’uomo, anche in Omero, a ricoprire il ruolo primario nella storia5. Come il poeta fa affermare infatti a Zeus all’inizio dell’Odissea (I, 32 ss.), gli uomini attribuiscono sovente al divino la responsabilità delle loro azioni, ma sono loro, in realtà, con i propri comportamenti, i veri responsabili delle medesime6. Non è del resto irrilevante, in merito a tale questione, che gli dèi greci non fossero onnipotenti, e che dunque non potevano fare tutto quello che volevano: il pur potentissimo Zeus non poteva, ad esempio, né intervenire liberamente sugli esiti della guerra di Troia, né tanto meno far risorgere i morti.
Il rapporto immaginato con gli dèi, nell’epoca omerica, creò la cosiddetta “religione pubblica”, in cui la realtà iniziò a configurarsi come un intero in cui uomo, natura e divino collaboravano, ciascuno con le proprie funzioni, per l’ordinamento complessivo7. In questo contesto, il fenomeno del sacrificio violento per assicurare l’ordine della comunità non appare, dalle testimonianze giunte fino a noi, avere svolto un ruolo centrale8.

Cerchiamo in ogni caso, per ricostruire il contesto della nascita della filosofia rapportandolo al sacrificio, di analizzare alcune tematizzazioni presenti nella mitologia, spesso molto utili per ricostruire gli scenari di epoche precedenti. Iniziamo accennando alla possibile connessione del tema del dionisiaco con quello del sacrificio. Si tratta di un mito – quello di Dioniso – che vari studiosi, fra cui in Italia Giorgio Colli, hanno addirittura fatto risalire alla Creta minoica, affermando che in quell’epoca «Apollo appare dominato da Dioniso, in quanto l‘atmosfera della divinità, in cui si immerge il mito, non è quella della conoscenza, ma della cruda animalità»9.
Non entro in questa sede nel merito della rilevanza del dionisiaco per la Creta minoica, che mi sentirei però quanto meno di ridurre rispetto a Colli, se è vero che la civiltà minoica ha strutturato per secoli una pianificazione comunitaria della propria attività politico-sociale molto razionale, come ho cercato di ricostruire in un libro recente10. In ogni caso, indipendentemente dalla sua rilevanza, il tema del dionisiaco fu presente alle origini del mondo ellenico. Ciò, tuttavia, non implica affatto la costante presenza in esso della dinamica sacrificale violenta, talvolta tematizzata con il processo di periodico rinsaldamento comunitario presuntivamente operato tramite un “capro espiatorio”11. Non ho le competenze per sostenere quanto questo fenomeno possa essere stato presente in altre civiltà, ma l’impressione è che il sangue sacrificale abbia molto impressionato alcuni interpreti, conducendoli ad attribuire, senza grandi prove, una indebita rilevanza a questo fenomeno anche nella dinamica sociale greca.
Rimane tuttavia vero un fatto: la violenza sacrificale, sia essa stata esercitata, per quanto raramente, in nome di Dioniso, di Apollo (che tutta una tradizione mostra anch’egli “col coltello in mano”)12 o di qualche altra divinità, ha potuto essere effettuata principalmente in epoche in cui i fatti umani e naturali risultavano ancora difficili da spiegare. Quando infatti la realtà è immersa nel chiaroscuro dell’ambivalenza, e l’uomo resta inserito nella “cruda animalità”, il sacrificio violento può ancora esercitare una funzione sociale. Quando la cultura inizia invece a porre al centro la ragione, ossia a richiedere spiegazioni causali di tutti i fenomeni, la dinamica del sacrificio si mostra sempre più insostenibile, tanto che la sua presenza si riduce drasticamente. L’ermeneutica contemporanea ha spesso posto in relazione la ricerca di verità, propria della filosofia greca, con la violenza dogmatica; mi sembra tuttavia, al contrario, che la violenza dominava quando ancora la ricerca filosofica non aveva assunto il ruolo centrale13. La prevaricazione regna infatti soprattutto quando non ci sono spiegazioni chiare di come le cose sono e devono essere.

Proprio per ricostruire le prime fasi della civiltà ellenica, e valutare se in essa può avere avuto rilevanza la tematica del sacrificio in connessione al dionisiaco, può essere interessante riprendere l’interpretazione del nietzscheano Giorgio Colli sulla nascita della sophia e della philosophia. Per Colli infatti, come ricordato, Dioniso era il nume tutelare della sophia, ossia di quella sapienza aurorale volta ad interpretare la strutturale ambivalenza della realtà, da cui poi a suo avviso – sotto la protezione, stavolta, di Apollo – sarebbe nata, come impoverimento di questo spazio originario, la philosophia, luogo della centralità del logos.
Per Colli, ciò che è stato interpretato come un progressivo passaggio dal mythos al logos, ossia dal chiaroscuro del simbolico alla luce della ragione, è stato in realtà un passaggio regressivo, in cui si sono smarrite molte relazioni profonde della realtà14. Occorre dire, in merito, che la lettura univoca della Grecità come passaggio progressivo dal mythos al logos è sicuramente errata. Così è, ormai, per la quasi totalità degli interpreti, sia in quanto il mythos rimase ancora a lungo importante nella cultura greca, sia in quanto, con la riduzione dello spazio originario del mito, si sono effettivamente smarrite molte dimensioni rilevanti. Ciò nonostante, alla luce di quanto diremo nelle prossime pagine, tale ricostruzione, sfrondata dagli eccessi, rimane nell’essenziale corretta: dal chiaroscuro alla luce, nel processo conoscitivo umano, si realizza un miglioramento, non un peggioramento. Tra l’estasi misterica, dominio di Dioniso, e la parola ragionata, dominio di Apollo, vi è complementarità, non opposizione. Vi è però, con Apollo, soprattutto la possibilità di comprendere una quota maggiore della realtà, dato che, a mio avviso, il campo di Dioniso – ossia, fuori dalla metafora mitica, il campo della ambivalenza della realtà – risulta, in estensione, molto più piccolo di quello di Apollo15.
Per Colli, invece, «la follia è la fonte della sapienza»16, che si ritrova, a suo avviso, solo in una mitica fase prefilosofica. Di questa fase sappiamo poco, sicché l’interpretazione di Colli, come quella di Nietzsche e di altri autori che hanno colto in questa epoca aurorale l’apogeo della grecità, si presenta fortemente congetturale. Questa lettura risulta infatti incentrata o su figure mitiche, come appunto il Dioniso primordiale sostanzialmente identificato con la cieca istintività animalesca del Minotauro cretese17, o semimitiche, come Orfeo e Museo, o ancora su alcuni Presocratici, quali Ferecide, Epimenide, Pitagora, Empedocle, Parmenide, Eraclito, interpretati però in maniera univocamente simbolico-aurorale, contrariamente alla multivocità di aspetti della loro opera messa in luce dalle interpretazioni più recenti18.
Colli afferma, in merito al tema per lui originario del dionisiaco, che «Dioniso non è un uomo: è un animale e assieme un dio […]. Qui sta l’origine oscura della sapienza»19. In rapporto ad Aristotele, per il quale l’uomo non è né animale né dio, ma ha proprie essenziali caratteristiche razionali e morali, da cui appunto nasce la philosophia20, vi è una bella differenza. La philosophia, infatti, e soprattutto la sophia, non si trova per Aristotele nell’oscurità ambivalente, ma nel rischiaramento dall’oscurità, ossia nella conoscenza, che passa anche per il necessario rispetto del principio di non contraddizione, per il quale, peraltro, non si può essere insieme animale e dio (non almeno nello stesso tempo e sotto lo stesso rispetto). La conoscenza filosofica consiste, fra le altre cose, nella definizione concettuale delle varie componenti della realtà, non nella indistinzione concettuale che caratterizza l’ambivalenza simbolica delineata da Colli, in cui tutto è indifferenziato.
Non è un caso in merito che Nietzsche, ne La nascita della tragedia, per spiegare il sorgere della civiltà greca, facesse intervenire Apollo insieme a Dioniso. Solo con l’animalità orgiastica di Dioniso, che si trova al di qua della sfera del logos, la vita umana sarebbe infatti stata impossibile in questa fase “prefilosofica” del mondo ellenico. Sarebbe peraltro proprio in questa fase che dovrebbe potersi collocare nel mondo ellenico il sacrificio violento, per lo studioso italiano caratterizzabile, come il dionisiaco, come «ciò che sta sul fondo della “vita”, come la «radice profonda, “oscura” della natura umana21. Come sintetizza R. Cavalli, per Colli questa realtà è «qualcosa che non è logos, né rappresentazione, né espressione»22, in quanto «è abitata da quello stesso cieco scatenamento degli impulsi animali proprio dell’orgiasmo delle baccanti»23.
Nella ricostruzione della fase aurorale della civiltà ellenica, Colli afferma, in sostanza, due tesi: la prima, sul piano – diciamo così – descrittivo, concerne il fatto che la Grecia originaria sarebbe stata dionisiaca. Ammesso e non concesso che questa descrizione sia corretta, tuttavia, la filosofia, almeno per come comunemente intesa, nasce proprio come il superamento di questa fase (superamento per me positivo, per Colli negativo). Mi sembra, peraltro, che ciò non valga solo per la filosofia, ma per la vita in tutti i suoi aspetti. Se mi si passa infatti una generica ricostruzione della storia biologica del nostro pianeta, si può affermare che dalla materia originaria, per via di progressiva differenziazione adattiva – ossia, appunto, superando la indistinzione originaria –, si sono formati i primi microorganismi vegetali e animali, strutturantisi nel tempo in maniera sempre più complessa. A mio avviso, questa tendenza alla crescente strutturazione biologica – in maniera analoga, in filosofia, alla crescente strutturazione ontologica – è qualcosa di progressivo, non di regressivo, così come è progressivo ogni passaggio dall’oscurità alla chiarezza, dalla irrazionalità alla ragione, dalla disarmonia all’armonia, dato che il secondo lato di queste alternative è solitamente quello che favorisce la vita.
La seconda tesi di Colli si situa invece su un piano – diciamo così – valutativo: per lo studioso, infatti, l’auroralità dionisiaca sarebbe non solo stata dominante nella cultura greca arcaica, ma soprattutto desiderabile, tanto da poter essere riproposta come orizzonte di riferimento anche per l’oggi. Ora: ricordiamo che l’indistinzione originaria tematizzata da Colli rappresenta un contesto in cui tutto è possibile (Dioniso è tutto e il contrario di tutto), anche appunto la violenza sacrificale, che peraltro va spesso a colpire soprattutto le persone più deboli o marginali. Ebbene, si potrebbe provocatoriamente chiedere: sarebbero concordi i sostenitori della desiderabilità del dionisiaco, se al posto della vittima sacrificale prodotta dal libero scatenamento della oscura istintività animale, ci fossero loro? Mi vengono in mente, a tal proposito, le considerazioni di Aristotele nella Metafisica contro i pensatori che negavano la validità del principio di non contraddizione: perché, di fronte ad un burrone, se la realtà è così ambivalente, costoro non ci cadono dentro ma ci girano sempre intorno? L’impressione è, insomma, che questo richiamo ad una presunta aurora originaria sia una operazione intellettuale, forse, dettata da quei processi di fuga dalla realtà che ogni modo di produzione crematistico – finalizzato, cioè, alla massima acquisizione privata e mercificata di chremata, ossia di beni materiali – inevitabilmente induce. Una realtà in cui tutto è possibile richiama apparentemente la massima libertà, ma, senza criteri orientativi di senso e di valore, questa libertà si trasforma facilmente in arbitrio da parte dei più forti.

Come ricordato all’inizio, una definizione esaustiva del sacrificio non è semplice, poiché molteplici sono i comportamenti umani che possono essere categorizzati sotto questo nome. Un minimo comune denominatore di questi comportamenti è comunque, come detto, la condivisione della dinamica del sacro, ossia dell’ambivalenza simbolica della realtà, unita al tema della violenza. Ebbene: da studioso della filosofia antica, rilevo che il logos razionale, che appunto caratterizza la filosofia, risulta sostanzialmente opposto alle dinamiche irrazionali del sacro e alla connessa violenza. Non voglio con questo sostenere che nel pensiero greco, e più in generale nella realtà, manchi la penombra, o negare che la razionalità strumentale sia anche utilizzabile per fini cattivi. Ciò nonostante, la nascita della philosophia, in Grecia, segna marcatamente il prevalere della chiarezza razionale sulla oscurità simbolica, con tutto ciò che questo ha comportato per l’incremento della scienza e della tecnica, e per il decremento delle dinamiche del sacrificio, sempre più confinate nella marginalità fin quasi – almeno ufficialmente – a scomparire24.

Cerco di giustificare quanto affermato trattando, finalmente, degli inizi riconosciuti della storia della filosofia. Comincio dalla cosiddetta cultura presocratica. Talete di Mileto, attivo fra VII e VI secolo, si rese famoso, fra le altre cose, per il fatto di avere previsto, in base a teorie meramente naturalistiche, dunque senza far ricorso ad alcun rimando divino, una eclissi di sole. Egli eliminò in questo modo, ossia in base alla spiegazione razionale delle cause, tutte quelle interpretazioni che fino ad allora avevano condotto ad una lettura “sacrale” del fenomeno. Talete inoltre spiegò la caduta di un meteorite presso il fiume Egospotami semplicemente affermando che i pianeti, contrariamente a quanto allora si credeva, non erano divinità, ma pietre, e che quel meteorite non era altro che un pezzo di pietra caduto sulla Terra. La stessa cosa vale per i terremoti, i quali non vennero più addebitati alla imperscrutabile volontà di Poseidone, ma spiegati con cause naturali.

Sulla medesima linea, ossia di una natura che possiede in sé i propri principi esplicativi, non caratterizzata da alcuna divina ambivalenza, si sono posti pressoché tutti i presocratici successivi. Costoro hanno infatti compreso che la realtà non è in sé oscura, ma che rimane oscura solo finché l’uomo non riesce a comprenderla in profondità, come è invece possibile fare. In ogni caso, in un’ottica naturalistica, si situarono non solo i successivi pensatori ionici, fra cui Anassimene e Anassimandro, ma anche il già citato Eraclito, che escluse ogni influenza degli dèi affermando che il mondo è eterno, ossia che «questo ordine cosmico (kosmos), lo stesso per tutti, non lo fece alcuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era ed è e sarà» (B 30 DK). Eraclito iniziò anche, dopo Senofane, a criticare le varie pseudoconoscenze poetiche, ieratiche, iniziatiche non in grado di rendere conto di sé razionalmente.
Lo stesso discorso vale, non più sul piano naturalistico ma stavolta sul piano sociale, per Solone, contemporaneo di Talete. Egli, a differenza del mito proposto da Esiodo in Opere e giorni, che attribuiva i mali degli uomini al vaso di Pandora, nell’elegia Del buon governo affermò che la causa principale dei mali degli uomini era la crematistica, della quale gli dèi non sono responsabili. Sono infatti gli uomini, che non si impegnano nella conoscenza della verità e nella realizzazione del bene – non a caso la verità e il bene, i due contenuti fondamentali della filosofia –, ad essere causa dei loro mali.
Contestualmente a questa maggioritaria corrente del VI-V secolo, vi è certo anche una tradizione minoritaria che passa attraverso l’Orfismo, attribuendo un primato all’oscuro, al notturno, ad un caotico abisso25. Ciò nonostante, all’epoca della nascita della filosofia, la regola era che tutto ciò che accadeva in natura doveva avere una causa naturale spiegabile, così come tutto ciò che accadeva nell’uomo doveva avere una causa umana spiegabile. La physis, insomma, possedeva sempre un autonomo principio di spiegazione, senza che fosse necessario far ricorso, per comprendere le ragioni dei fenomeni, al divino26.
Un analogo approccio, più o meno negli stessi anni, fu seguito dalla scuola medica facente riferimento ad Ippocrate di Cos, probabile autore di un trattato Sul male sacro, ovvero sulla epilessia. Questa malattia, fino ad allora attribuita ad una punizione divina – sicché per guarire ci si sarebbe dovuti sottoporre a purificazioni attuate da personaggi che l’autore definisce, senza mezzi termini, “ciarlatani”, in quanto non in grado di rendere ragione del proprio operato –, fu studiata dai medici ippocratici, come del resto tutte le altre malattie, in relazione esclusivamente alle sue cause organiche. Costoro giunsero ad escluderne ogni origine sacra, affermando anzi che essa ha una causa naturale come tutte le altre malattie, non richiedendo pertanto sacrifici per essere curata.

Lungamente potremmo continuare in questa esposizione del clima culturale del primo pensiero filosofico greco. Ne rimarrebbe confermata la descrizione di un ambiente che, per quanto non totalmente chiuso all’ambivalenza simbolica dei significati, ricercò in primo luogo in maniera razionale le cause naturali dei fenomeni, per rapportarsi alla realtà in maniera efficace. Ci basti, tuttavia, concludere ricordando che tutto ciò è continuato, in maniera amplificata, nella filosofia classica, come dimostra soprattutto l’opera enciclopedica di Aristotele.
Il tema del sacro, quindi anche del sacrificio, è tuttora di grande attualità, e molti autori continuano ad affermarne la centralità all’interno della cultura ellenica. Ciò nonostante, nel pensiero greco, in nessuna delle sue fasi si può attestare che l’ambivalenza del sacro abbia assunto un ruolo primario nella mediazione del rapporto fra l’uomo e la natura. Il divino, certo, occupa ancora, come detto, un posto non marginale sia in Platone che in Aristotele. Si tratta, tuttavia, di un divino sempre più impersonale – emblematico il motore immobile del libro XII della Metafisica di Aristotele –, col quale risulta inopportuno rapportarsi in termini di sacrificio, o anche solo di preghiera.
Una ulteriore differenza fra il contesto culturale del sacrificio e quello della filosofia è che i riti sacrificali risultano mutevoli in base ai tempi ed ai luoghi, mentre la filosofia risulta essere stabile, nei propri contenuti universali, nei vari tempi e luoghi (come il fuoco, avrebbe detto Aristotele nel V libro dell’Etica Nicomachea, che brucia da noi come in Persia). Sacrifici compaiono ancora nei dialoghi di Platone, ma essi sono soprattutto gesti isolati di anziani – ad esempio il ricco Cefalo nel I libro della Repubblica –, ritenenti in tal modo di prendersi cura della loro anima con risultati, tuttavia, molto discutibili27.
Il sacrificio, insomma, smarrì sempre più nei secoli la propria presenza, proprio in quanto non in grado di rendere ragione, sul piano della verità e del bene – i due contenuti fondamentali della filosofia – della propria efficacia.

 

Note

[Il testo è la relazione da me tenuta presso l’Università di Strasburgo il 21 ottobre 2021 nell’ambito del seminario ITI Histoire, Sociologie, Archéologie et Anthropologie des religions Hisaar, Restructurations religiouses. Transformations internes et interactions externes]

1 In generale, sul tema dei sacrifici umani nel mondo greco, rinvio a D.D. Hughes, Human Sacrifice in Ancient Greece, London-New York 2014.
2 Sul tema dei sacrifici animali nel mondo greco si veda anche S. Hitch-F. Naiden-I. Rutherford, eds., Animal Sacrifice in the Ancient Greek World, Cambridge 2020.
3 In Iliade, IX,145, le tre figlie di Agamennone sono Crisotemi, Laodice e Ifianassa.
4 In questa direzione anche G. Mormino (in G. Mormino-R. Colombo-B. Piazzesi, a cura di, Dalla predazione al dominio, Cortina, Milano 2017, p. 36), il quale, contro le interpretazioni che centralizzano il sacrificio violento nel mondo antico, afferma che «le testimonianze ci dicono qualcosa di differente: esistono sacrifici vegetali, sacrifici di oggetti inanimati, semplici rinunce allo svolgimento di un’attività» che costituiscono la maggior quota del fenomeno sacrificale, tanto che la forma cruenta risulta essere una eccezione da dover essere spiegata caso per caso.
5 L. Grecchi, L’umanesimo di Omero, Petite Plaisance, Pistoia 2012.
6 L. Rossetti, Sull’uso greco di incolpare gli dèi per discolparsi, Nova Tellus, 5, 1987, pp. 19-41.
7 Un testo poco conosciuto, ma molto ben documentato su questa tematica, è A. Lo Schiavo, Il fondamento pluralista del pensiero greco, Bibliopolis, Napoli 2003.
8 Di parere differente, come noto, R. Girard, La violenza del sacro, Adelphi, Milano 1997. Rimane il fatto che queste espressioni arcaiche minoritarie di violenza si richiamavano spesso, come poi vedremo, a Dioniso, che lo stesso Girard (id., p. 190) definisce come «il dio del linguaggio riuscito».
9 G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1975 p. 30.
10 L. Grecchi, La filosofia prima della filosofia, Morcelliana, Brescia 2022, con introduzione di D. Lefèvre-Novaro.
11 R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987; G. Fornari, Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo greco e nella civiltà occidentale, Marietti 1820, Torino 2001. Nel caso del capro espiatorio, peraltro, non ci si trova davanti ad un vero e proprio “sacrificio”, poiché l’elemento su cui si opera la violenza è di per sé un elemento problematico per la comunità, sicché non si tratta della rinuncia a qualcosa di prezioso da offrire agli dèi, in base alla concezione prevalente di “sacrificio”.
12 Il riferimento è a M. Detienne, Apollo col coltello in mano, Adelphi, Milano, 1998, nonché a G. Colli, Apollineo e dionisiaco, Adelphi, Milano 2010. Da una parte della tradizione antica, Apollo è infatti “dionisizzato” in quanto, pur essendo dio del sole e della luce, all’inizio dell’Iliade (I,47) scende dall’Olimpo “simile alla notte”. Il suo nome, Phoibos, significa “puro”, ma ai greci ricorda la paura (phoibos). Apollo è anche il dio dell’atto omicida differito mediato dalla freccia. Nietzsche stesso lo presenta come legato alla mania, all’invasamento e alla possessione mistica, tanto che era chiamato Loxias, ossia l’obliquo, l’ambiguo, l’equivoco (come mostra il frammento B 93 DK di Eraclito; ricordiamo anche B 48 DK, in cui si afferma che l’arco, bios, lo strumento di Apollo, è insieme vita e strumento di morte).
13 Mi permetto di rinviare, in merito, a L. Grecchi, Verità, Edizioni Unicopli, Milano, di prossima pubblicazione nel 2022.
14 Come afferma infatti Colli in La nascita della filosofia (cit., p. 21), «la mania è intrinseca alla sapienza, che in origine è divinazione». Per questo a suo avviso, originariamente, la comunicazione della conoscenza nella Grecia arcaica avveniva sotto la forma dell’enigma sapienziale, e per questo le modalità della prosa hanno fatto sempre più smarrire contenuti profondi, trasmissibili solo in maniera poetica.
15 Come ha peraltro notato lo stesso Colli (La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977, vol.I, pp. 23-24), Dioniso non concede la sua sapienza agli altri, mentre Apollo, per quanto non sempre in maniera chiara, lo fa.
16 Così sintetizza, in maniera corretta, A. Santoro, in Cavalli G.-Cavalli R.M., a cura di, Alle origini del logos. Studi su La nascita della filosofia, Accademia University Press, Torino 2019, p. 17.
17 G. Colli, La nascita della filosofia, op. cit., p. 28.
18 Mi permetto di rinviare a L. Grecchi, Leggere i Presocratici, Morcelliana, Brescia 2020.
19 G. Colli, La sapienza greca, cit., vol. I, p. 15.
20 Mi permetto di rinviare, in merito, a L. Grecchi, Uomo, Edizioni Unicopli, Milano 2019.
21 G. Colli, La nascita della filosofia, cit., p. 45.
22 G e R.M. Cavalli, Alle origini del logos, cit., p. 27.
23 Ivi, p. 28.
24 G. Stroumsa, La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità, Einaudi, Torino 2006.
25 Queste tematiche sono state recentemente raccolte, con riferimento al primo pensiero greco, da A. Tonelli, a cura di, Negli abissi luminosi, Feltrinelli, Milano 2021.
26 Sul concetto della natura nel pensiero presocratico, ed in generale antico, rinvio a L. Grecchi, Natura, Edizioni Unicopli, Milano 2018.
27 In Omero, invece, si poteva ancora leggere, nell’Iliade (IX, 497-499), che «si piegano anche gli dèi con i sacrifici».

 

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