Baaria, frammenti di Sicilia

Di: agb & gr
3 Agosto 2010

Essere siciliani non è soltanto un’identità territoriale ma anche e soprattutto una realtà che scava nell’intimo e crea la forma dell’esser-se-stessi. Tornatore è siciliano, un siciliano che incarna il detto “cu nesci arrinisci” -chi esce dalla Sicilia riesce a divenire qualcuno-. Epperò la Sicilia la si porta nell’anima ovunque si vada, pulsa viva anche più di quando si calpesta la sua terra, anche più di quando si respira la sua aria, anche più di quando si annega nei suoi paesaggi, perché il ricordo è catartico, la rende pura, non contaminata dalla rabbia di chi sa leggere, oltre quel cambiamento soltanto apparente, l’immobilità del tempo con le sua struttura profonda che ancora oggi fa dire in un silenzio sommesso: “perché nulla cambi bisogna che tutto cambi”. Questo dolore che intride i pensieri di chi ha abbandonato la resistenza per vivere l’unica vita concessa, in un moto di nuova ribellione che nasce nel territorio e si concretizza nel privato, quell’atavica rabbia, quell’orgoglio fortissimo e incomprensibile, non lasciano mai coloro che sono andati via.

Questa è la prima impressione delle scene iniziali di Baarìa, ultima fatica di Giuseppe Tornatore. Il prosieguo è troppo di più.

Mezzi imponenti, scenografie reali e digitali che descrivono Bagheria e la sua piana dal 1910 al 2000, una folla di attori assai famosi ma disposti ad apparire soltanto per qualche minuto o anche meno, l’intenzione di raccontare con la stessa forza epica con la quale il pastore Ciccio Torrenuova declama i poemi cavallereschi e Ignazio Buttitta canta le proprie poesie, il giallo del latifondo come colore dominante, il sogno, il volo sullo spazio e sul tempo.

Già una volta Tornatore aveva provato a raccontare la sicilianità, in Nuovo cinema Paradiso, e c’era riuscito; c’era riuscito con noi siciliani, c’era riuscito con chi non lo era. In quel film si sentivano persino i profumi oltrepassare il tempo, lo spazio e giungere a noi spettatori in tutta la loro potenza reale e metaforica. Ha voluto far troppo, questa volta, per troppo amore, bisogna riconoscerlo. Ha voluto intrecciare in un’unica pellicola e sotto lo stesso denominatore: filosofia, politica, storia, psicologia. E ha voluto farlo combattendo la linearità del tempo, convinto che seguire lo stilema delle favole, in cui sogno e realtà si mescolano, gli avrebbe reso la possibilità di dipanare l’eternità dell’istante. Circolarità temporale però ed empiria vanno d’accordo soltanto quando si decide di issare l’àncora del reale storico per gettare quella della ricerca del vero in cui il tempo è kairòs, in qualunque direzione si guardi, diversamente diventa disordine. Il compromesso tra dato reale, diacronicamente narrato, e verità intera, circolarmente colta, crea superficialità, purtroppo. Non entra nelle cose perché troppo deve guardare. Ecco cosa succede quando si vuol guardare dentro l’istante: non c’è fondo. È un tentativo bulimico che necessiterebbe ancora una volta di tempo: un tempo lunghissimo concentrato in un sol punto. Eppur Tornatore ha ritenuto di poterlo rintracciare facendolo ruotare, come la “strummula” con cui si apre la prima scena e si chiude l’ultima, nella terra, nel luogo, in Baaria. Una prospettiva che non si abbandona mai durante tutto il film, anche quando il protagonista va in Russia o in Francia.  Sarebbe stato un capolavoro se il tempo della vita potesse davvero andare a braccetto con il tempo delle idee da un lato e il tempo delle cose dall’altro rimanendo fermo in un istante spaziale, che però non è il kairòs a cui Tornatore aspirava ma un tentativo pantagruelico, sovrumano come la visione ipotetica dell’entrata di un uomo in un buco nero: un’immagine ferma al limitare. Un tale proponimento ha un’unica soluzione di realizzazione ed è il silenzio: rimanere in ascolto, facendosi, sì, pastore, non di un gregge però, come Peppino, ma dell’Essere. Quella che Tornatore chiama “struttura caleidoscopica”, nel film manca dunque l’obiettivo. Forse può essere colta soltanto con un atto di umanità, abbandonando il pregiudizio che lo sceneggiatore e regista ricercasse l’Oscar, e accogliendo l’idea che l’artista, quale egli è, ricercasse la sua Sicilia, le cose “con le quali ha vissuto una comunione profonda da sempre, da quando non era neppure cosciente” (Renato Guttuso). E che il film sia autobiografico lo dice lui stesso, anche quando le scene sono partorite dalla sua creatività in realtà sono l’immagine di pensieri e sentimenti nati allora e serbati nell’intimo del suo esser siciliano.

È rintracciabile anche una seconda parte nella pellicola, che non ispira più neanche quel vago legame con la terra, quell’ideale dell’ostrica che tende a riportare lo spettatore a sé, ai suoi ricordi – sia o non sia siciliano-. Rappresenta una cesura con le immagine poetiche -per quanto digitalizzate, per quanto ricreate in più luoghi reali e in più ambienti- che fino a quel momento avevano permesso di sperare di poter viaggiare almeno dentro se stessi, mentre la storia rimaneva in superficie. Da quando Peppino Torrenuova torna dalla Francia sino alla mancata elezione a deputato nazionale, tutto si fa più faticoso e lo sforzo diventa visibile.

E tuttavia il film rimane, nel suo intero, inesorabilmente in superficie, nella frammentazione concitata di un racconto che enuncia, in una scena chiave, la propria poetica: quando un ragazzo scambia le figurine dei calciatori con pochi fotogrammi sottratti alla pellicola di celebri film. Non basta però citare da Leone, Rosi, Visconti, Fellini, se il narrare si limita a una serie -appunto- di scene in cui la potenza dell’immagine annega, affogata in alcune battute che vorrebbero dir tanto rimanendo però manchevoli di tutto: parole e fatti. Un solo esempio: l’accenno alle cose viste e «da rizzari i carni» pronunciato da Peppino al suo ritorno da un viaggio in Unione Sovietica. Si ferma lì, come ogni argomento o tema toccato dal film.

Alla cesura, dialetticamente da noi presentata come una sorta di seconda parte, segue il “superamento” che conserva il già stato, mentre vivendo il presente, si apre al nuovo. È l’attimo che per un solo attimo sembrerebbe esser colto alla fine, quando i due bambini si incrociano in una corsa verso il futuro e verso il passato. Baarìa vorrebbe essere un’opera visionaria, risulta però manieristica. Tornatore è un regista, è uno sceneggiatore, è forse anche un poeta e un artista completo, di certo, però, non è un filosofo. In film suoi, riuscitissimi, come “Una pura formalità” è possibile scorgere una filosofia, ma il punto d’origine non è l’idea filosofica sulla quale ha costruito le sequenze, piuttosto è dalla costruzione sequenziale della storia che scaturisce la visione filosofica: e non è la stessa cosa.

Tornatore ha realizzato Baarìa su un’originaria (e per nulla, strictu sensu, originale) idea filosofica: la negazione del tempo. Lo ammette. E su questo proponimento non ha costruito ma ha sacrificato l’impianto generale. Offre, sì, molti spunti anche tematici –il padre e l’importanza del suo ruolo in Sicilia; la mafia e l’atteggiamento mafioso nella quotidianità; la morte e il suo lato tutto siciliano  al contempo comico e grottesco; l’identità e la sua conquista in un luogo sempre uguale- che assieme a quelli storici, a quelli critici, a quelli esistenziali, a quelli sociali, a quelli ambientali, a quelli politici, che la musica di Morricone doveva amplificare in intensità e contenuto, in realtà hanno prodotto una filosofia non prevista. Una filosofia che ancora una volta “si alza in volo sul far del crepuscolo”, non più nottola ma mosca, la stessa che compare nell’ultima scena viva e presagio di speranza. Una filosofia che a conclusione ci è concesso sintetizzare: il troppo stroppia. La speranza è che Tornatore nonostante le critiche a Baarìa continui a sorprenderci come in fondo ha sempre fatto, anche questa volta.

Baarìa
Anno: 2009
Paese: Italia
Regia: Giuseppe Tornatore
Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Tornatore
Fotografia: Enrico Lucidi
Musiche: Ennio Morricone
Con: Francesco Scianna, Margareth Madè, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Giovanni Gambino, Giuseppe Garufi, Alfio Sorbello, Nino Frassica, Leo Gullotta, Raoul Bova, Monica Bellucci, Michele Placido, Giorgio Faletti.

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