Sulla consulenza filosofica (I parte)

Di: Andrea Ferroni
1 Novembre 2010

Una premessa

Accolgo il breve saggio di Andrea Poma La consulenza filosofica (pubblicato in Kykéion, n.8, Firenze University Press, Firenze 2002) come spunto per il confronto con le mie conoscenze teoriche sulla consulenza filosofica, con la mia esperienza come consulente e con le mie eventuali perplessità personali.

PARS DESTRUENS
(in cui è implicita una pars costruens)

La questione della definizione della consulenza filosofica

La definizione di Poma: «La consulenza filosofica è la prestazione professionale di una consulenza da parte di un consulente esperto in filosofia a un consulente che liberamente e spontaneamente gliene fa richiesta» (p. 37) è quanto di più astrattamente corretto possa esserci. Proprio in questo stesso modo sarebbe possibile dare una definizione di filosofia come “la costruzione di un sistema teorico e/o pratico (più o meno in divenire) avente per oggetto il tutto (o un suo aspetto o più) da parte di una persona, detta filosofo, (o di gruppi) che presenta al Mondo, in forma scritta o in forma orale, il risultato delle sue riflessioni e della sua ricerca”.

È una definizione astratta, forse corretta o forse no. In ogni caso non credo che possa soddisfare pienamente.

Ma al di là della mia personale perplessità, contesterei la definizione di Poma a un diverso livello: dato per mio presupposto ideologico (credo condiviso da molti) che la consulenza filosofica sia essa stessa filosofia1, non vedo come si possa dare e accettare una definizione di consulenza filosofica dal momento che non ci si può ancora accordare su una definizione di filosofia.

Forse un bisogno di scientificità e spendibilità politico-sociale ce lo impone2, ma l’importante è che almeno tra i consulenti si sappia che ogni momento di ogni consulenza è irripetibile e inoggettivabile.

Parenti serpenti

Un’altra perplessità sul testo di Poma mi viene dalla sua affermazione: «È necessario che tra il consulente e il consultante non intercorrano rapporti parentali o amicali preesistenti» (p. 37).

Innanzi tutto la mia esperienza: ho avuto come consultanti degli amici. Anzi, spesso l’amicizia preesistente con un consultante è stato uno dei motivi per cui mi è stata richiesta una consulenza. L’amicizia con un consultante non è mai stata per me un ostacolo né prima, né durante, né dopo la consulenza. C’è stato tuttavia un caso, in cui l’amicizia è stata di ostacolo a un consultante, poiché egli ha scelto liberamente di non venire più a consulto da me in un setting ufficiale (cosa che forse lo faceva sentire uguale agli altri consultanti o gli dava l’impressione di essere oggettivato) e ha preferito continuare a interloquire con me in modo meno formale ed esclusivamente amicale.

In ogni caso, credo dipenda dal consulente saper astrarre anche dall’amicizia e riuscire quindi, perfino in questa situazione, nel «secondo pensare» di cui parla Achenbach3.

Inoltre credo fermamente che dipenda dallo stile di vita del consulente e dalla sua coerenza il non temere di poter essere giudicato diversamente a seconda che si trovi dentro o fuori da uno studio di consulenza o a seconda che si trovi al cospetto di un amico o di uno sconosciuto.

Le perplessità mi vengono anche dal sospetto che la frase di Poma di cui sopra sia fortemente indirizzata da un pregiudizio, direi quasi da un eccesso di psicologizzazione: una cautela tipica della psicoterapia forse non necessaria in una consulenza filosofica4.

Diverso è il discorso per quanto riguarda i parenti, anche se personalmente limiterei la questione a genitori e fratelli o comunque familiari molto intimi che abbiano avuto a che fare con il consulente in modo continuativo fin dalla sua infanzia: in questo caso le cautele della psicoterapia credo siano valide, poiché vi è effettivo rischio di coinvolgimento emotivo e/o profondo.

Diverso ancora è il caso di figli e coniugi del consulente: direi che in questo caso la consulenza non sia particolarmente rischiosa quanto inutile, dal momento che la convivenza dovrebbe consentire al consulente la migliore delle consulenze possibili: l’esempio vivo e vicino di uno stile di vita filosofico5.

Emerge chiaramente, credo, da queste mie poche righe un mio pregiudizio: non si può essere consulenti filosofici senza uno stile di vita filosofico. Potrei quasi dire, aiutandomi con Luigi Vero Tarca, che non si può essere consulenti filosofici senza essere «belle persone»6.

Il Sole nasce a Oriente e tramonta a Occidente.

Circa le competenze del consulente filosofico, in quanto esperto in filosofia, Andrea Poma delimita il campo dell’esperienza nell’ambito della tradizione occidentale (p. 40).

Al di là del fatto che l’autore stesso presenti questa sua tesi come problema aperto e non come un dogma, per me, che ho condotto la mia tesi di laurea sul presupposto che tra la cultura dell’Oriente e dell’Occidente ci sia un ponte (rappresentato, nello specifico, dalla psicologia analitica di Jung), questa affermazione risulta ugualmente inaccettabile e totalmente da rigettare.

Innanzitutto direi che si tratta di un falso problema visto che, come ammette lo stesso Poma, anche della tradizione filosofica occidentale non si può essere così padroni e, soprattutto, che nessuno che sia serio può avvalersi nella consulenza di ciò che non sa.

Ma anche volendo prescindere dal fatto che ogni scelta, ogni parola, ogni pensiero, tutto, insomma, sia comunque arbitrario7, se si ponesse il caso di una competenza nel campo di tradizioni culturali orientali (per studi o pratica) quale sarebbe il motivo di una tale limitazione? Penso al caso di un mio amico consulente che da anni pratica il buddhismo, ma penso anche all’esperienza, che io giudico potenzialmente deindividualizzante (da discutere se anche aconcettualizzante), di molta parte della filosofia occidentale (la concezione immanentistica delle origini, ma poi Eraclito, per dirne uno, la scuola platonica, gli esercizi spirituali dell’antica Grecia8, il variegato mondo gnostico e neoplatonico, Spinoza, fino ad arrivare a Schopenhauer, poi naturalmente a Jung e molti altri).

Tra i consulenti filosofici non va poi dimenticato Alexander Dill, che pur avendo deciso di interrompere la sua professione di consulente ha lasciato comunque, perlomeno in me, tracce suggestive.

Un falso problema ritengo anche quello posto da Poma nell’ipotesi di una consulenza a un consultante di cultura orientale. Davvero ci sarebbe incomunicabilità tra queste due umanità? Davvero si esclude la possibilità di un confronto che sia di grande valore e scoperta per entrambi i protagonisti della consulenza? Ma più radicalmente: davvero si può offrire una consulenza non partendo dal nostro punto di vista che è comunque diverso e altro da quello del consultante, sia esso occidentale o orientale?

Direi allora provocatoriamente: un consulente uomo dovrebbe evitare di parlare con un consultante donna (e viceversa naturalmente), tanto diversi sono i modi maschili e femminili di intendere il mondo! Chi stabilisce con certezza che tra uomo e donna occidentali ci sia meno divario che tra uomo occidentale e uomo orientale?

E ancora più provocatoriamente, ma per semplice curiosità in questo caso, chiederei a Poma come mai non consideri nemmeno degne di citazione, ad esempio, la cultura e la filosofia africane.

Ipse dixit

Nel saggio di Poma, a proposito delle competenze che possono costituire il contributo professionale del consulente filosofico, si tratta la questione dell’eventuale rinvio diretto a testi filosofici: il caso in cui il consulente suggerisce delle letture al consultante (pp. 42-43).

Si tratta di una pratica che effettivamente non ho mai applicato, innanzitutto perché ritengo non sia particolarmente utile ai consultanti9 (ma forse è addirittura controproducente) e, in secondo luogo, perché ritengo sia una forma latente di delega del/al principio di autorità da parte del consulente.

Ciò detto, però, ritengo poco convincente la critica all’uso di tale pratica da parte dei consulenti nei termini in cui la motiva Poma. È vero infatti, come nota Poma, che si corre il rischio di scegliere i testi in modo soggettivo e pregiudiziale, ma mi chiedo se non sia altrettanto vero che si corre lo stesso rischio nel proferire una qualsiasi parola al proprio consultante. Si può, per caso, prescindere dai propri pregiudizi quando si parla e non riuscirci solo quando si consiglia un testo?

È vero, inoltre, che si rischia che il testo venga «interpretato dal consultante in maniera erronea, banale o fallace» (p. 43) ma non è altrettanto vero che lo stesso rischio lo corre (sia pure in modo statisticamente inferiore) nelle sue letture anche il consulente? E nell’interpretare le parole di un consulente non c’è rischio? E ancora: diventa così grave la questione se ipotizziamo che un consultante, malinterpretando un testo filosofico, ne trovi un senso particolarmente significativo e importante per la sua vita?

Sono d’accordo con Poma, invece, sul rischio di rinvio a un testo come rimando a un’auctoritas, cosa che darebbe l’idea di filosofia come tradizione sapienziale. Sono d’accordo poiché condivido con lui il presupposto ideologico di una filosofia (e di una consulenza filosofica) come ricerca continua, mai certa dei suoi possessi concettuali o pratici. Anche se, immagino, ci sarà qualcuno tra i filosofi (e tra i consulenti filosofici?) che sostiene un’interpretazione della filosofia come sede di sapienza.

Alcune competenze del consulente filosofico

Ho dato per scontato finora che tutto ciò di cui non parlo a proposito del saggio di Poma mi trova in accordo con esso. Vorrei comunque sottolineare alcuni passaggi che condivido e che trovo interessanti per contenuto e per chiarezza espositiva, pur notando talvolta qualche ridondanza.

Poma descrive bene alcune mancanze (e quindi bisogni) che il filosofo riscontra nell’incontro quotidiano con le persone (pp. 44-45):

  • Disponibilità di concetti;
  • disponibilità di termini linguistici per nominare i concetti;
  • capacità di elaborazione dei concetti,
  • capacità di astrazione;
  • capacità di analisi;
  • capacità di sintesi;
  • capacità di elaborazione rigorosa di forme ideali, strutture concettuali, figure dialettiche e retoriche;
  • capacità di considerare oggettivamente il vissuto;
  • capacità di porre e sviluppare un problema;
  • improprietà dei concetti, dei metodi, del linguaggio;
  • atteggiamento tendenzioso verso sé e verso gli altri (strumentalizzazione);
  • confusione tra motivi razionali e impulsi emozionali (autogiustificazione o autocolpevolizzazione);
  • selezione non obiettiva degli elementi positivi e negativi (valutazione tendenziosa).

Poma completa quest’elenco specificando le competenze del filosofo (e quindi del consulente filosofico) sintetizzate nella capacità sistematica, critica e nel saper «porre e dibattere i problemi in modo radicale, ampio e articolato, esplicitando e mettendo a frutto tutte le potenzialità del problema stesso» (p. 44).

Poma specifica poi che il problem setting del filosofo ha la caratteristica di essere disinteressato: i problemi sono posti per se stessi, non in funzione di interessi estrinseci e nemmeno in funzione della soluzione del problema posto. Il problema, con una bella immagine, viene descritto da Poma non come un ostacolo da superare ma come «luogo da abitare» (p. 44). Ciò rivela che «l’oggetto della filosofia è il pensare stesso nel suo procedere, prima che l’oggetto pensato» (p. 44), la forma e non il contenuto.

La filosofia, secondo Poma, è un pensare per concetti in cui il concetto non è risposta ma domanda. Questa affermazione di principio si potrebbe scontrare con le aspettative del consultante che, come direbbe qualche psicoterapeuta, ha bisogno di chiusura anziché di apertura verso ulteriori orizzonti. Ma -avvisa Poma- pur cercando di evitare il disorientamento del consultante, la rinuncia a quest’apertura trasformerebbe il consulente filosofico in un fornitore di consigli dettati dal senso comune10, da una sua particolare sapienza o ideologia11.

Pratica o pragmatica?

Circa i criteri per la valutazione e la selezione delle esigenze del consultante, Poma elenca quattro tipi possibili di questioni che possono essere poste nel richiedere una consulenza: teoretico, pratico, ludico e pragmatico. Suddivisione interessante e, credo, di una certa utilità, perlomeno, appunto, da un punto di vista pragmatico (mi riferisco all’esigenza di spiegare la consulenza filosofica a chi ne è digiuno o al tentativo di dare uno status scientifico alla consulenza filosofica).

La mia perplessità deriva dalla suddivisione tra pratico e pragmatico. Non sono sicuro, infatti, che ci si possa davvero accordare su quel contenitore puro pratico in cui trovino eventuale inclusione o esclusione i contenuti pragmatici; inoltre, non sono sicuro che si possa mai davvero prescindere (in ciò che diciamo, pensiamo, facciamo o percepiamo) da un contenuto pragmatico.

Non ne sono sicuro in assoluto ma, anche volendo relativizzare riferendomi soltanto a quanto afferma Poma, noto alcune incongruenze che vorrei maggiormente approfondite. Mi lascia perplesso il suo giudizio negativo su chi «assume in modo dogmatico e senza fondazione critica alcuni scopi (felicità, benessere, tranquillità interiore) come fini ultimi dell’etica e che riduce perciò quest’ultima a una mera tecnica per raggiungere tali scopi, cioè appunto una pragmatica» (p. 47). Direi che il suo concetto di felicità andrebbe quantomeno chiarito perché io potrei obiettare con un mio concetto di felicità così ampio e formale da essere considerato pratico.

Inoltre mi lascia perplesso il fatto che Poma faccia una distinzione tra istanze passibili di relazione con interessi pratici come, ad esempio, «migliorare i propri rapporti con il partner, con i figli o con i colleghi di lavoro, raggiungere una maggior sicurezza nelle decisioni, controllare i propri impulsi, ecc.» (p. 48) e istanze che non lo sono. Mi chiedo se esistano davvero questioni pragmatiche che non siano traducibili in questioni pratiche e teoretiche (invece sulle intenzioni del consultante, che a volte sono irremovibilmente pragmatiche, sono in accordo).

Sto un po’ rivelando che un movente del mio essere consulente filosofico (cosa che incide -credo- nella mia consulenza filosofica) sia la felicità, o, meglio, la felicità possibile. E visto che la felicità non viene giudicata da Poma come un fine in sé ma come un interesse pragmatico, io ho un (piccolo) moto di ribellione.

(Continua nella II parte)

Note

1 La questione è ovviamente complessa. Rimando, tra i molti testi, al saggio di Giusy Randazzo, La svolta della filosofia. Consulenza filosofica e relazioni di aiuto, Cieffepi-Erga edizioni, Genova 2008.

2 Ma l’obiettivo di uno statuto scientifico per la consulenza filosofica è possibile? Se sì, è necessario o auspicabile? Personalmente, anche solo il tentativo mi sembra un modo di subordinare la filosofia alla scienza, quando invece ritengo che la scienza sia una delle possibili visioni del mondo, uno dei possibili significati da dare al mondo, una delle possibili filosofie. Questa mia convinzione verrà ripresa anche nel seguito di questo scritto.

3 G.B.Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004, p. 18.

4 Se la consulenza filosofica è un fare filosofia e non ha finalità di aiuto, cosa impedisce di farla con gli amici?

5 La cosa può sembrare eccessiva. Ma io credo che un consulente filosofico non possa non essere anche un “ideale” genitore e/o compagno. Il che presuppone, ovviamente, un approfondito e mai concluso percorso personale di conoscenza di sé.

6 R. Madera – L.V. Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 215 e sgg.

7 Poiché frutto di una scelta personale tra possibili infiniti significati di cui caricare la realtà, sempre sfuggente nel suo “in sé”. Su questo punto ritornerò nella pars costruens di questo scritto.

8 Penso soprattutto a P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005.

9 I consultanti che ho conosciuto non sono esperti di filosofia e troverebbero ostici tali testi, perlomeno se affrontati da soli. L’unico consultante esperto di filosofia ha già in suo possesso gli strumenti idonei a condurre eventuali ricerche personali su classici della filosofia e testi filosofici.

10 Senso comune che in Aristotele assume comunque una certa importanza. Con ciò vorrei solo accennare al fatto che il senso comune in un filosofo (che filtra ogni cosa con le sue conoscenze filosofiche) assume caratteristiche diverse. Chissà se sarà possibile, dopo il filtraggio, chiamarlo buon senso o ragionevolezza, saggezza pratica.

11 Solo di sfuggita, pur essendo sostanzialmente d’accordo con Poma in linea di principio, vorrei notare che a volte dare consigli o fornire opinioni è stato effettivamente importante nelle mie consulenze: consigli e opinioni, infatti, (sempre presentati come ipotesi o possibilità alternative) sono stati spesso occasione di confronto reciproco.

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