The Last Station

Di: Giusy Randazzo
3 Gennaio 2011

Ogni scrittore sa che nel momento in cui la sua opera è compiuta non è più sua ma di ogni lettore. Questo vale soprattutto per i romanzieri, creatori di esistenze che a volte diventano veri e propri paradigmi di vita del tutto affrancati dalla paternità. Il respiro di chi le ha plasmate rimane sullo sfondo o talora scompare del tutto. In rarissimi casi avviene l’inatteso: il creatore supera la creatura e diviene egli stesso personaggio principale. Questo accade quando il messaggio, che corre trasversalmente a ogni storia, lascia la pagina scritta e vola, amplificandosi senza indebolirsi, come un’eco persistente, breve e concisa, per raggiungere qualsiasi orecchio. E se esso ha a che fare con i beni più preziosi per l’uomo –libertà e amore- annunciati come un diktat ma inevitabilmente porti su un piatto d’argento, allora la faccenda si fa ancora più seria perché nessuno sarebbe capace di rinunciarvi. In tali sorprendenti casi allo scrittore è richiesto un sacrificio che neanche ai filosofi, neanche ai politici di professione è eticamente imposto: incarnare la dottrina di cui si è profeti. È il caso di Lev Tolstoj il quale fu costretto a divenire un tolstojano forse senza volerlo fino in fondo. Ed è Michael Hoffman con il suo film sugli ultimi giorni di vita del grande scrittore russo a insinuare in noi il germe del dubbio che si fa certezza quando gli occhi di Tolstoj incontrano quelli della moglie amata, la più franca rivoluzionaria della vicenda, che non vuole rinunciare all’uomo in carne e ossa ormai mito consegnato alla massa. Il film è organizzato intorno a un unico nucleo contenutistico: il testamento dello scrittore e il conflitto tra la moglie, Sof’ja Andreevna, e l’amico, Vladimir Grigorevic Chertkov. Siamo nella tenuta Jasnaja Poljana, dove visse Tolstoj, interpretato da Christopher Plummer, il quale si cala nel personaggio fino a farlo davvero rivivere. Traspare dal suo sguardo, dalla postura, dal tono, dalle movenze, l’equanimità raggiunta dallo scrittore e al contempo la fatica di una lotta vinta seppur ogni giorno perdente nel confronto con la moglie. Il movimento tolstojano è già nato, per volontà di Vladimir. La resistenza passiva, l’eliminazione della proprietà privata, l’amore in sé, per la verità e per la libertà, l’uguaglianza tra gli uomini, la pace sono i principi del loro credo, tratti dai testi di Tolstoj. Un vero e proprio misticismo che genera il culto per lo scrittore che da uomo diviene messia o profeta. Vladimir aiuta l’amico e maestro ad aderire al suo personaggio; la moglie a fuggirvi. Tolstoj è combattuto dall’amore che ancora potente sente per Sof’ja, l’ultimo ostacolo da superare per la personificazione di ciò che professa. Andare contro la moglie lo fa sentire un cospiratore, «nient’altro che un cospiratore». La donna combatte perché egli non firmi un testamento in cui i diritti d’autore dei suoi romanzi vengono donati al popolo russo. Sof’ja ritiene che la deriva mistica del movimento abbia travisato il messaggio iniziale. Personaggio chiave è il giovane segretario di Tolstoj, Valentin Fëdorovic Bulgakov (James McAvoy), che da subito comprende la magnanimità dello scrittore, la grandezza che lo contraddistingue e che lo rende superiore all’umano. Eppure, giorno dopo giorno, Valentin grazie anche all’amore per una donna che lo affranca dalle idee retrive del movimento, si rende conto che la “troppo umana” Sof’ja è la più vera di tutti. Dietro la grandezza di Tolstoj c’è lei: una grande donna. Lo ha aiutato a divenire ciò che è: il dono più sincero che si può fare a un essere vivente. Eppure nessuno le riconosce il merito. E a Sof’ia non importa, vuole soltanto essere amata da Tolstoj in modo esclusivo, vuole la dimostrazione di questo amore.

Il punto di vista dal quale si guarda il film è quello suo, della Tolstoja, magnificamente interpretata da Helen Mirren. Non si può neanche sospettare che ci sia qualche spettatore disposto a parteggiare per Vladimir Grigorevic Chertkov (Paul Giamatti). Vediamo l’amico di Tolstoj come lo vede Sof’ja e con lo stesso metro lo giudichiamo. Soltanto quando scorrono i titoli di coda e sullo schermo campeggia la frase “Vladimir Chertkov rimase un tolstoiano devoto per tutta la vita”, affidiamo un ultimo pensiero alla ricostruzione di Hoffman: forse quell’uomo era sincero e ci credeva sul serio.
Astapovo è l’ultima stazione. Quella in cui Tolstoj dovrà fermarsi perché malato dopo la fuga dalla moglie. È lì che si gioca l’ultima partita, in cui, pur se perdente, la vittoria sarà di Sof’ja, della sua imperfezione, della carnalità del suo amore, della serenità del suo sorriso quando finalmente Tolstoj sarà suo per sempre. Lo si comprende osservandola nella scena finale, nello scompartimento di un treno che li riporta a Jasnaja Poljana ancora follemente innamorati. Una follia tutta umana che, nella sacralità che l’attraversa, è l’unica via per il divino in cui l’uomo può incamminarsi con la certezza di raggiungere l’ultima stazione.
Splendido film, splendida regia.

Michael Hoffman
The Last Station
Germania-Russia-GB, 2009
Con Christopher Plummer (Lev Tolstoj), Paul Giamatti (Vladimir Chertkov), Helen Mirren (Sofja Tolstoj)

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