Corpi, confino e conflitto

Di: Federico Tinnirello
16 Novembre 2020

 

Il compito precipuo della filosofia è quello di non lasciarsi catturare dalle emozioni ma di comprendere ciò che accade nella realtà, sempre e dovunque. Questo importante lascito spinoziano necessita, però, di una precondizione, cioè la libertas philosophandi. Il filosofo deve essere libero quando scrive, parla, discute o pensa, e non deve avere remora alcuna nel sostenere le sue opinioni, soprattutto in un tempo in cui siamo dominati dal «politicamente corretto»1.
Sono questi gli strumenti intellettuali che hanno guidato gli autori del volume collettaneo, Krisis. Corpi, Confino e Conflitto2. L’opera si pone l’obiettivo di presentare delle riflessioni teoriche sulle conseguenze sociali, politiche e culturali causate dall’epidemia da Covid-19, e – partendo dalla critica unitaria al neoliberismo – si propone come un laboratorio prassico di riflessione sulle possibili alternative al paradigma capitalistico, poiché

il liberalismo e il capitalismo sono i volti di una religione potente, la più potente religione di tutti i tempi. È per questo che le cose non cambieranno da sole, se non si muoveranno sul campo forze ed energie politiche e sociali con una strategia politica chiara di rovesciamento dei rapporti di forza3.

L’intento prassico che permea l’opera è confermato da tutti i testi che lo compongono. In particolare, il saggio di Alberto Giovanni Biuso analizza il paradigma della vita, la relazione fra la corporeità e il potere, il disastro televisivo e i cambiamenti nell’insegnamento. Questi argomenti sembrano, apparentemente, irrelati fra loro, ma se analizzati da una prospettiva più profonda presentano un’unitarietà di fondo. Questo può essere spiegato tenendo presente che il dispositivo teoretico che anima la riflessione filosofica di Biuso è quello di identità e differenza, senza il quale sarebbe impossibile quel comprendere che guida ogni riflessione filosofica.
Riflettere in questo momento sui cambiamenti causati dal Covid-19 non è semplice: sia perché i mutamenti sono tuttora in corso sia per la velocità con cui tutto è successo, e infatti l’obiettivo del libro non è tanto quello di fare pura speculazione – come hanno fatto le testate giornalistiche – ma piuttosto di «rivendicare la legittimità e la necessità di spazi concettuali e prassici che cerchino di capire, pensare, di opporsi al sabba dei controllori, proibitori, puritani, moralisti, servi»4. Il volume deve essere dunque letto e studiato come una palestra di idee, come una zona franca di dibattito, il quale non può essere disciplinato da una autorità politica, ma deve essere sempre animato dalla continua propensione al dialogo.
Biuso inizia ad esempio la sua riflessione dando una definizione molto precisa di vita, ovvero come «un insieme di strutture metaboliche, vale a dire di organi tra di loro coordinati a formare un’unità capace di assorbire all’esterno ossigeno, luce, calore, nutrimento per trasformarli in parte di se stesse e continuare a vivere»5. Questa definizione esprime chiaramente le istanze biologiche che stanno alla base della vita di ognuno di noi, ma che non rendono conto, tuttavia, del fenomeno «complesso, plurale»6 che è la vita.
La vita, infatti, non può essere né solo biologia né solo natura, poiché tutti gli esseri viventi sono «naturacultura»7, e dunque non si può vivere solo ed esclusivamente come se fossimo determinati dai nostri processi fisiologici o come se fossimo animati solo da «comprovate necessità». La vita è molto altro; è «scambio con i propri simili, relazione con lo sconosciuto, incontro dei corpi nello spaziotempo, nell’ambiente, nel mondo»8. Insomma, la vita è consapevolezza attiva di essere nel mondo; è agire rivestendo di senso la realtà che ci circonda e ci intesse nel profondo; è avere un motivo valido per alzarsi la mattina.
Di tutta questa pluralità e complessità è rimasto molto poco durante i lunghi mesi dell’emergenza sanitaria; la vita è stata ridotta solo alla componente biologica, in continuità con il riduzionismo meccanicista che ancora domina – purtroppo – molti ambiti della nostra società.
La definizione puramente biologica della vita ha determinato anche il rapporto fra la corporeità e il potere, il quale – forse mai come adesso – ha preso la forma della biopolitica9, cioè dell’«implicazione diretta e immediata tra la dimensione della politica e quella della vita intesa nella sua caratterizzazione strettamente biologica»10.

Gli organismi politici e sanitari hanno amministrato l’epidemia da Covid-19 esercitando un potere repressivo sui corpi: diffondendo la paura e il terrore che la morte fosse nel proprio vicino, nelle strade frequentate normalmente, nelle scuole ridotte a puro luogo di contagio, nella paura che «potrei esserci io dentro quei numeri»11. I corpi sono diventati solo dispositivi di sopravvivenza, pronti a ripararsi in qualunque modo da ogni contatto umano, nel quale non c’era altro che un possibile depositario del virus. Tutto questo ci ha resi dei morti pur essendo vivi, un ossimoro da cui non siamo riusciti ancora a liberarci12, e che ha animato l’obbedienza indiscussa degli scorsi mesi, poiché: «la paura del morire […] sta a fondamento della pervasività del potere. Quando l’autorità prospetta il rischio della morte se si disattendono i suoi comandi, la probabilità di essere obbediti cresce esponenzialmente»13.
L’obbedienza si è presto tramutata anche in delazione, nella ricerca ossessiva del deviante: verso coloro che non hanno rispettato i divieti imposti, e soprattutto verso le voci dissidenti, le quali sono state esecrate, derise e insultate dai cittadini e dai potenti in nome della salute collettiva, poiché, come afferma Elisabetta Teghil, «la retorica della salute e della difesa della solidarietà collettiva converge con la lotta a qualsiasi possibile alternativa al progetto neoliberista attraverso la formazione della cittadinanza […] [al] controllo e l’autocontrollo»14.
L’irrisione e l’accusa verso i dissidenti non è stata e non è tuttora un richiamo alla responsabilità per tutelare la salute collettiva, ma piuttosto un voler emarginare «l’anomalo, il recalcitrante»15 affinché domini un pensiero unico: quello urlato a gran voce dai divieti imposti dal potere.
La politica e le autorità sanitarie hanno trovato nell’informazione televisiva, nei quotidiani e nei social network dei preziosi alleati nel diffondere la paura, il terrore e il disciplinamento dei corpi. Dirette infinite sui nuovi casi, i numeri urlati in tutte le edizioni dei telegiornali e le ipotesi assurde e inventate dei giornali sulle nuove possibili misure, che non facevano altro che creare ansia e trepidazione in chi era stato privato della possibilità di incontrare o di assistere i propri cari.
Su questo aspetto si rivelano feconde le analisi contenute nel saggio di Xenia Chiaramonte16. L’autrice sostiene che durante l’epidemia le nuove tecnologie hanno mutato non solo la relazionalità umana, ma anche l’esperienza della morte dei propri cari. I funerali, a causa della «prevenzione del contagio»17, sono stati vietati, negando un ultimo saluto, un abbraccio o un gesto d’affetto verso chi ci aveva generati, cresciuti ed educati. La morte – da sempre esperienza centrale nella vita umana – è stata confinata nell’anonimo e gelido spazio dei bit, relegata a fotografie o video degli ultimi istanti di chi stava per abbandonare la vita. Questi episodi lasciano tutti noi attoniti, e l’icastica domanda di Chiaramonte ci lascia degli interrogativi tragici: «[la] potenza trasformatrice del lutto globale odierno porta a una semplice questione complessa: […] si può pensare altrimenti rispetto al reintegrare e ripristinare la vita che c’era?»18.
Questo conferma come i media abbiano avuto un ruolo centrale durante l’epidemia trasformando il nostro modo di relazionarci, di incontrarci e di concepire la morte. Ma è stata la televisione il mezzo che ha riacquistato una centralità che sembrava aver perduto; soprattutto perché ha assunto il ruolo di cassa di risonanza di tutti i divieti che venivano emessi, confermando, come dice chiaramente Biuso, che la televisione si presenta come «il bene per definizione, ciò che viene detto in televisione non solo è più verosimile ma diventa vero»19.
In questa epidemia, l’informazione, il diritto e i governi hanno mostrato di essere loro i veri depositari della verità assoluta, e il dubbio o il semplice esercizio critico non sono altro che divertissements inutili e insensati. E dunque, l’effetto più atroce dell’informazione a tutti livelli non è stato altro che diffondere il terrore, il quale «paralizza […], trasforma gli umani in foglie tremule che temono di staccarsi da un momento all’altro dall’albero della vita»20.

Preda del terrore, paralizzati dalla paura della morte e della socialità e costretti a rimanere chiusi in casa, il pensare e l’apprendere diventano attività irrisorie a cui è meglio sostituire la preparazione di dolci. E infatti anche la scuola e, soprattutto, la didattica sono state vittima delle decisioni prese dai governi. Nonostante l’impegno dei docenti e dei ragazzi, la «didattica a distanza» è stato semplicemente uno strumento provvisorio per non impazzire durante le lunghe giornate di lockdown. Insegnare a distanza è un ossimoro, poiché, come spiega bene Biuso, «è chiaro che l’insegnamento consiste nell’incontro tra persone vive, tra corpimente che occupano lo stesso spaziotempo non per trasmettere nozioni ma per condividere un mondo»21. L’insegnamento non è – al contrario di ciò che sostengono i cognitivisti vecchi e nuovi – un insieme di risposte date a certi stimoli, e non è neanche un fornire nozioni a dei contenitori vuoti. Piuttosto, «l’insegnamento è una pratica socratica»22, ovvero uno scambio continuo e vivace fra allievo e docente; uno scambio che si compone di sguardi, di dibattito sui temi trattati e della gioia che pervade tutti nell’apprendere o nello scoprire nuovi mondi leggendo i filosofi, i narratori e i poeti o studiando matematica.
Speriamo che la «didattica a distanza» sia solo un ricordo del passato, una parentesi provvisoria che faccia riscoprire in tutti la bellezza e l’importanza per ognuno di noi dell’apprendere insieme. Lo ricorda con forza Biuso, quando alla fine del paragrafo dedicato alla didattica scrive: «insegnare significa abitare un luogo politico fatto di dialoghi, conflitti, di confronto fra concezioni del mondo e pratiche di vita»23.

Da questo libro, però, non traiamo solo delle riflessioni su ciò che è accaduto e che sta accadendo, ma anche di ciò che andrebbe fatto in futuro, di quali debbano essere i «temi del nostro tempo» (Ortega y Gasset). In particolare, la questione ecologica e quella demografica.
La questione ecologica nasce dalla separazione della ζωή dal βίος, ovvero dal fatto che gli esseri umani ritengono di potersi emancipare dalla natura in cui essi stessi sono immersi. Da questa separazione si origina l’illusione – interamente umana, troppo umana – di «poter distruggere l’abitazione che gli dà senso, vita e riparo e poter però ancora vivere»24. Per gli esseri umani è impossibile vivere al di fuori della natura; è assurdo immaginare un mondo in cui si programmano la distruzione dell’ecosistema, l’inquinamento irreversibile dell’atmosfera o lo sterminio di miliardi di animali. Fenomeni, questi, che causano fame, povertà, disuguaglianze sociali e cambiamenti climatici. Bisogna, dunque, che avvenga un mutamento di paradigma, ovvero passare dall’antropocentrismo al biocentrismo e al policentrismo, i quali «costituiscono categorie assai più coerenti, razionali e utili a comprendere»25 il nostro posto nel mondo e il nostro rapporto con l’animalità che siamo.
Ed è per questo che, come scrive Biuso, è necessario dire «la verità, se abbiamo il coraggio, […] che noi umani siamo diventati troppi su questo pianeta, che non può più sostenerci, in ogni senso»26. La questione demografica – come anche la questione ecologica – sono problemi che il Covid-19 ha accentuato, ricordandocene la necessità e l’urgenza. Ovviamente non sono problemi semplici, anzi, la loro complessità, come ci ricorda Afshin Kaveh, è forse dovuta principalmente al fatto che ci inducono «alla totale messa in discussione dell’organizzazione economica capitalistica e dei suoi ormai indubbi e incontrovertibili esiti epidemici»27.
L’epidemia di Covid-19 ci ha sicuramente cambiati: ci ha posto di fronte alla nostra fragilità ontologica, alla «servitù volontaria» e acritica verso il potere e ci ha portato a riconoscere – visto che qualcuno lo aveva messo in dubbio – l’importanza della scuola e delle università per un futuro migliore delle nostre società. Soprattutto, l’emergenza sanitaria ci ha affidato, come dice bene Nicoletta Poidomani, un compito molto importante per il nostro futuro, ovvero quello di «rifondare un’etica della relazione e della cura basata sulla solidarietà e la reciprocità, mettendo a fuoco delle pratiche “altre” rispetto alle relazioni gerarchiche e asimmetriche che informano gran parte della nostre esistenze»28. Se vogliamo sostituire il paradigma neoliberale non possiamo limitarci a una riforma puramente politica, ma dobbiamo costruire un’etica che impedisca di vedere nell’altro un nemico, un untore o un deviante; dobbiamo evitare che si ripeta – come è successo in questi mesi – la riduzione delle nostre esistenze a nude vite. Per fare questo, però, non dobbiamo più mostrare la codardia di un Don Abbondio, ma il coraggio di un Fra’ Cristoforo.

 

Note

1 Sul tema del «politicamente corretto» rinvio a A.G. Biuso, «Contro il politicamente corretto», in I linguaggi del potere. Atti del convegno internazionale di studi (Ragusa Ibla, 16-18 ottobre 2019), a cura di F. Rappazzo e G. Traina, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2020, pp. 25-35.

2 A. Kaveh, A.G. Biuso, X. Chiaramonte, C. Sabino, N. Poidomani, E. Teghil, Krisis. Corpi, Confino e Conflitto, Catartica Edizioni, Sassari 2020.

3 C. Sabino, «La rana e lo scorpione. O della pandemia della subalternità», ivi, p. 85. Sul valore religioso del capitalismo, rimando a W. Benjamin, Il capitalismo come religione (Kapitalismus als Religion, 1921), a cura di C. Salzani, Il Nuovo Melangolo, Genova 2013.

4 A.G. Biuso, «Vita e salute. Il paradigma Don Abbondio», Krisis, cit. p. 37.

5 Ivi, p. 28.

6 Ivi, p. 29.

7 Ivi, p. 37.

8 Ibidem.

9 Roberto Esposito – seguendo Michel Foucault, il primo che ha trattato il tema in maniera esaustiva – colloca la nascita della biopolitica nella modernità, e a questo proposito scrive: «Ma ciò che conta, per definire il concetto di biopolitica, è che fino a un certo momento, che si può datare tra il XVIII e il XIX secolo, quel rapporto è stato indiretto – e cioè mediato da una serie di filtri, di diaframmi che poi si sono rotti, determinando così una giuntura assai più stretta e vincolante tra politica e vita». R. Esposito, «Vita Biologica e Vita Politica», in Termini della politica, Vol. II, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 65.

10 Id., «Biopolitica», in Enciclopedia Italiana Treccani – VII Appendice (2006), consultato in URL il 25/10/2020.

11 A.G. Biuso, «Vita e salute. Il paradigma Don Abbondio», cit., p. 49.

12 Albert Camus, nel suo famoso romanzo La peste, ha espresso in maniera limpida e chiara questo sentimento di morte dovuto alla reclusione dell’epidemia di peste scoppiata a Orano. Scrive Camus: «D’allora, insomma, ci si reintegrava nella nostra condizione di prigionieri, eravamo ridotti al nostro passato, e se anche alcuni di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, vi rinunciavano rapidamente, almeno per quanto gli era possibile, provando le ferite che la fantasia finisce con l’infliggere a coloro che hanno fiducia in lei». A. Camus, La peste [La Peste, 1947], trad. it. B. Dal Fabbro, Bompiani, Milano 2016, p. 55.

13 A.G. Biuso, «Vita e salute. Il paradigma Don Abbondio», cit., p. 36.

14 N. Poidomani e E. Teghil, «Riflessioni femministe sull’epidemia del nostro tempo», Krisis, cit., p. 110.

15 Ivi, p. 111.

16 X. Chiaramonte, «Morte trionfata: lutto e metamorfosi al tempo del virus sovrano», Krisis, cit., pp. 55-74.

17 Ivi, p. 63.

18 Ivi, p. 58.

19 A.G. Biuso, «Vita e salute. Il paradigma Don Abbondio», cit., p. 39.

20 Ivi, p. 40.

21 Ivi, p. 45.

22 Ivi, p. 44.

23 Ivi, p. 46.

24 Ivi, p. 31.

25 A.G. Biuso, «Dialettica dell’umanesimo», in Liberazioni. Rivista di critica antispecista, n. 34, autunno 2018, p. 27.

26 Id., «Vita e salute. Il paradigma Don Abbondio», cit., p. 53.

27 A. Kaveh, «A Peste, Fame et Bello. Capitalocene epidemico e confinamento dei corpi», Krisis, cit., p. 5.

28 N. Poidomani e E. Teghil, «Riflessioni femministe sull’epidemia del nostro tempo», Krisis, cit., p. 104.

 

A. Kaveh, A.G. Biuso, X. Chiaramonte, C. Sabino, N. Poidomani, E. Teghil
KRISIS. CORPI, CONFINO E CONFLITTO
Catartica Edizioni, Sassari 2020
Pagine 119
€ 13,00

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