La politica a scuola: no, forse, sì

Di: Augusto Cavadi
3 Aprile 2021

 

Non si può negare che il metodo democratico per assumere decisioni collettive, oltre a vari pregi (il maggiore dei quali è che i metodi alternativi sono peggiori), presenta numerosi difetti. Esso, infatti, presupporrebbe un dato palesemente falso: che ogni attore sociale avesse le medesime qualità intellettuali e morali degli altri. Solo in questa ipotesi (controfattuale) la decisione assunta dal 51 % dei votanti sarebbe presumibilmente migliore della proposta sostenuta dal 49 %. Poiché, appunto, l’uguaglianza dei diritti non rispecchia l’uguaglianza delle potenzialità (naturali e acquisite) dei cittadini, sono possibili quattro principali opzioni:

  1. negare l’evidenza e difendere il metodo democratico a oltranza (opzione anarco-demagogica di ‘sinistra’1)
  2. accettare l’evidenza, difendere il metodo democratico ma attrezzandosi per strumentalizzarlo a vantaggio dei propri interessi privati o corporativi (opzione populista-demagogica di ‘destra’)
  3. accettare l’evidenza e, nell’interesse del Bene comune, ridurre al minimo l’esercizio del metodo democratico affidando le decisioni a un’élite di meritevoli perché competenti-e-onesti (opzione aristocratico-conservatrice di ‘destra’)
  4. accettare l’evidenza e, nell’interesse del Bene comune, attivare ogni possibile strategia per ridurre il gapintellettuale e morale fra gli attori sociali in modo che da accentuare i vantaggi e ridurre i danni dell’esercizio del metodo democratico (opzione pedagogico-progressista di ‘sinistra’2).

Cosa dovrebbe fare un politico – o un amministratore, un dirigente scolastico, un insegnante – che dovesse condividere una delle prime tre opzioni? Nulla. Può dormire sonni tranquilli e trascorrere giornate riposanti: la prassi pedagogico-didattica dalla fondazione della Repubblica italiana ad oggi, infatti, è perfettamente funzionale a ciascuno dei primi tre scenari evocati.
Meno tranquilli i sonni e meno riposanti le giornate dovrebbero, al contrario, diventare per quei (pochi) cittadini che si riconoscono nella quarta prospettiva. Infatti l’abdicazione dei partiti politici – soprattutto dagli anni Ottanta del XX secolo – ad ogni obiettivo formativo dei propri militanti ha reso il sistema scolastico l’unica struttura estesa sul territorio nazionale in grado, potenzialmente, di educare politicamente i cittadini: ma, tranne eccezioni tanto più lodevoli quanto meno frequenti, le potenzialità sono per lo più rimaste tali. Il dogma indiscusso è stato compendiato in un divieto-slogan: “A scuola non si fa politica!”. Forse sarebbe il caso di ficcarci il naso un po’ addentro per indagarne il fondamento, la (parziale) verità che contiene e la (ingente) dannosità che comporta.

 

In che senso la politica deve restare fuori dalle aule

Nei regimi totalitari di qualsiasi colore la scuola è un luogo privilegiato di indottrinamento ideologico. Poiché il Fascismo italiano non ha fatto eccezione a questa regola, è stato psicologicamente comprensibile che i cittadini della Repubblica democratica basata sulla Costituzione del 1° gennaio 1948 abbiano, più o meno esplicitamente, concordato nell’inopportunità che “a scuola si facesse politica”. Il Sessantotto ha, del tutto involontariamente, costituito un’eloquente conferma a contrario di questa diffidenza irriflessa: la ‘politicizzazione’ delle lezioni, dei seminari, delle iniziative para-scolastiche ed extra-scolastiche ha contribuito a determinare un clima di conflittualità sistemica che non di rado sfociava in scontri fisici violenti. Nell’anno horrendus o mirabilis (a seconda degli occhiali ideologici con cui lo si osserva) compivo il mio diciottesimo anno e completavo il ciclo degli studi liceali: mi gettai a capofitto nel movimento studentesco, pur su posizioni minoritarie, né seppi definirmi altrimenti che “estremista extra-parlamentare di centro”3, finendo col capeggiare – per la verità senza averlo né previsto né voluto – una delle due fazioni in lizza (l’altra era della sinistra extra-parlamentare)4. Fu per me una grande lezione, direi il risveglio da un sonno dogmatico cattolico-borghese, intuire che la scuola non era per nulla (come voleva apparire e come si dichiarava) a-politica: infatti programmi, pratiche didattiche, regolamenti disciplinari, erano informati da una ben precisa visione politica, tanto più pervasiva quanto meno palese. Tuttavia, come si espresse un intellettuale dell’epoca, se tutto è politica, la politica non è tutto. Dunque non può fagocitare ogni altro punto di vista, per esempio l’etica: né allora condivisi, né mai in seguito rimpiansi, scritte in vernice rossa come l’affermazione, sui muri della scuola, che “uccidere un fascista non è reato”.
Il rifiuto dell’ingresso della politica nella scuola – di questo ‘ingresso’ e di questa ‘politica’ – è legittimato dalla considerazione di alcuni effetti paradossali che ho segnalato caparbiamente, quanto vanamente, nel mezzo secolo successivo. Mi limito a due esempi.
Il primo: l’introduzione del diritto degli studenti delle scuole secondarie superiori alle ore mensili per le assemblee di classe e di istituto. Sulla carta, nulla di eccepibile: secondo le sensate indicazioni di Dewey, la democrazia si impara solo praticandola. Tuttavia, per un insieme di fattori (assenza di regole, assenza di meccanismi di controllo del rispetto delle regole, esasperazione di protagonismi individuali…), il mezzo (l’assemblea) è diventato il fine, stravolgendo ogni logica (non ci si convoca per dibattere una tematica rilevante e urgente, ma si cerca affannosamente una tematica qualsiasi che possa legittimare la convocazione di un’assemblea). Risultato: a quattordici o quindici anni si fanno le prime esperienze ‘politiche’ convincendosi che la politica sia il luogo delle chiacchiere, degli scontri fra capetti ambiziosi, dell’ipocrisia eretta a sistema.
Secondo esempio di “eterogenesi dei fini”: l’insegnamento ‘ideologizzato’ produce il contrario di ciò che si propone. Sappiamo che – tranne quando non si tratti di macchiette ridicole – i docenti, per questioni anagrafiche e di istruzione, esercitano un condizionamento non irrilevante della mente degli alunni. Questo fenomeno dovrebbe suggerire un particolare rispetto degli adulti nei confronti dei giovani, tradotto nella delicatezza con cui esporre le proprie idee politiche e consentire loro di esporre le proprie. Capita però che alcuni insegnanti (prevalentemente, anche se non esclusivamente) di ‘sinistra’ soffrano d’impazienza pedagogica e tendano a trasformare le proprie lezioni curriculari in occasioni di propaganda ‘politica’, con l’intento di cooptare nella propria area partitica i futuri (in qualche caso, negli anni terminali, attuali) elettori. Ebbene, questa scorrettezza deontologica porta in sé stessa la propria sanzione. Infatti l’esperienza attesta che più un docente insiste nella sponsorizzazione della propria appartenenza ideologico-politica, più i suoi alunni – subito o da adulti – si orientano in direzioni diverse, quando non opposte. (È questa constatazione che mi ha strappato un sorriso quando la Ministra dell’Istruzione  di un governo di ‘centro-destra’ ha minacciato provvedimenti disciplinari contro i professori di ‘sinistra’ che “facevano politica in classe”, a suo dire di gran lunga statisticamente prevalenti dal Secondo dopoguerra in poi: se l’esito di decenni di propaganda ‘social-comunista’ dei professori è un elettorato collocato in stragrande maggioranza su posizioni moderate-conservatrici, non è autolesionismo, da parte di formazioni partitiche di ‘centro-destra’, voler sovvertire tale fruttuoso andazzo?).

 

In che senso la politica deve entrare nelle aule

© Tony Gentile Photographer , Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Palermo, 27 marzo 1992

Se, dunque, la politica come propaganda ideologica e proselitismo partitico non dovrebbe trovare spazio all’interno delle mura scolastiche, è possibile ed è auspicabile che ne resti fuori anche come informazione sulle principali dottrine politiche e come confronto critico su di esse? Alla domanda, abbastanza manifestamente retorica, non posso rispondere che con un duplice ‘no’.
Intanto, infatti, non è possibile che in una scuola dove si insegna storia delle civiltà, storia delle letterature italiane e straniere, storia dell’arte, talora anche storia della filosofia, si eviti di parlare delle poleis greche, dell’impero romano, della dialettica medievale fra teocrazia e cesaropapismo, delle guerre di religione all’alba della Modernità, delle rivoluzioni inglese, americana, francese, russa (fra il Seicento e il Novecento), di nazi-fascismo e di anti-fascismo, di globalizzazione, di razzismo, di ecologia…Quel che si può fare è rendere innocua la trattazione di questi argomenti liofilizzandoli in noiose dosi nozionistiche e, nei rari casi in cui questa tattica non si rivelasse sufficiente, azzerando qualsiasi dibattito in aula o in forza della propria autorità di ruolo o ricorrendo all’irrisione dell’alunno troppo ‘originale’.
Ma, ammesso che fosse possibile tener fuori dalla scuola la politica come cultura (come ‘coltivazione’ della soggettività pensante e agente), non sarebbe certo auspicabile. Decretare il suffragio universale senza fornire l’alfabetizzazione politica, e in qualche modo e misura pretenderla, sarebbe folle come abolire l’obbligo della patente di guida senza prevedere nessuna forma di istruzioni per l’uso delle automobili. Il diritto di voto è un’arma tanto più preziosa/pericolosa quanto più gravi sono le decisioni che spettano a un corpo elettorale: dall’assemblea di condominio al consiglio di circoscrizione, dal consiglio comunale al consiglio regionale, sino ai due rami del parlamento nazionale. Rinunziare alla “democratizzazione della conoscenza” (Edgar Morin), soprattutto nell’era della rivoluzione informatica (che segna, inscindibilmente, il predominio delle conoscenze e degli strumenti tecnologici per veicolarle), equivale a un suicidio collettivo.
Più di mezzo secolo di attività (a vario titolo) nelle scuole è stato sufficiente per attestarmi che in ogni generazione di studenti il bisogno di cultura politica è reale, anche se fenomenicamente non sempre si esprime in desiderio esplicito: ma basta far annusare un po’ di cibo sano per svegliare appetiti solo sopiti.

 

Qualche esperienza personale

Per spiegare meglio, con qualche esemplificazione concreta, cosa intendo per ‘cultura’ politica, provo ad evocare delle esperienze autobiografiche.
Ritorno, per un momento, agli anni Sessanta. All’inizio del 1969 si realizza, nel mio liceo, una delle prime ‘occupazioni’ di una lunga serie in Italia, interrotta solo dalla “Didattica a distanza” imposta dalla pandemia del Covid-195. Un po’ per vincere la noia, un po’ per senso autentico di responsabilità, si decise di attivare dei “gruppi di studio” sulle tematiche più svariate. Tra le altre proposte fu accettata la mia: rintracciare le radici filosofiche delle correnti contestatarie presenti nella scuola e, più in generale, nel panorama socio-politico del momento. Grazie all’inaspettata sponsorizzazione del quotidiano “L’Ora” il nostro gruppo fu l’unico a stampare e diffondere gratuitamente le relazioni presentate e discusse dai suoi membri. E’ con comprensibile tenerezza che ogni tanto sfoglio le poche, e ingenue, pagine dell’opuscolo Filosofia e contestazione : dal capitolo La filosofia come anima delle rivoluzioni storiche(scandito in due parti: Rapporti tra illuminismo e rivoluzione francese e Pensiero ed azione in G. Mazzini) al capitolo La filosofia come fondamento dei sistemi socio-politici (comprendente i paragrafi: Lo Stato democratico di Rousseau, Hegel e il totalitarismo, Marx e il materialismo, S. Tommaso e la sociologia cristiana, Componenti estremiste apolitiche nel movimento studentesco, Componenti marcusiane del movimento studentesco, Componenti cristiane nel movimento contestatario) sino all’ultima parte della Relazione dedicata a fissare, nella nostra ottica, gli Scopi e i Metodi della contestazione 6.
Negli anni Settanta, in virtù della laurea in filosofia ma anche di un diploma quadriennale di teologia per laici organizzato dalla pontificia università del Laterano, fui incaricato dai Gesuiti del liceo “Gonzaga” della mia città di gestire le due ore settimanali di “religione” che lo statuto della scuola prevedeva per ogni classe. Mi fu data carta bianca, ma anche un suggerimento: di dedicare solo una delle due ore alla cultura teologica (che per me significò, ovviamente, proporre un programma di storia delle religioni e di filosofia della religione7), riservando la seconda agli “Orientamenti socio-politici”. Devo a quel suggerimento l’idea di una esposizione comparativa delle principali ideologie del Novecento che fissai prima in dispense dattiloscritte, poi in un articolo su “Esperienze sociali”8, infine nel volumetto Le ideologie del Novecento. Cosa sono state, come possono rifondarsi9 ripubblicato, in un’edizione rivista e integrata, con il titolo La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento10. In un quadro sinottico ho cercato di raccontare, nella maniera più obiettiva possibile (ma senza sottrarmi, alla fine del corso, alle domande dei ragazzi sui miei personali orientamenti), quali fossero il nucleo generativo, la visione antropologica, la concezione della società, dello Stato, dell’economia, della scuola e della religione secondo le prospettive liberale, marxista, socialdemocratica, fascista, cattolica, conservatrice, anarchica, ambientalista. Questa mappa orientativa è servita ai ragazzi dell’ultimo anno di liceo11 per leggere (e riferire alla classe), in piccoli gruppi di studio, le linee essenziali dei programmi politici dei partiti rappresentati in Parlamento.

 

Sinergie educative

Per quanto complessivamente proficui possano considerarsi i risultati di una educazione politica all’interno del sistema scolastico, non si possono ignorare almeno due riserve.
La prima: non tutti i docenti che ne avrebbero la possibilità ‘disciplinare’ sono disposti a praticarla. E, di certe cose (diciamo pure: di tutte le cose belle e importanti della vita), se non se ne parla con passione sincera è meglio tacerne. Quale livelli di sadismo (oggettivo, non intenzionale) si possano raggiungere infliggendo agli alunni l’ora di “educazione civica” quando proprio non se ne può fare del tutto a meno, lo sappiamo o per esperienza personale di noi da alunni o per esperienza indiretta comunicataci da nostri alunni con colleghi di altri ordini e gradi.
La seconda riserva è legata ai limiti temporali: un’ora ‘lorda’ la settimana, sottoposta per altro ai ‘tagli’ fisiologici per coincidenze e festività varie, si rivela del tutto insufficiente. Una formazione politica minimale non può limitarsi allo studio delle “ideologie” (sia pur includendovi brevi cenni all’economia, alla pedagogia e al diritto ecclesiastico), deve affrontare una miriade di temi sociologici, giuridici, filosofici, politologici: dalle relazioni di genere (fra uomini e donne) ai diritti e doveri dei lavoratori (dipendenti da imprenditori privati); dai poteri criminali occulti interni ad ogni Stato alle relazioni internazionali fra gli Stati e così via.
Per queste ragioni, già nella seconda metà degli anni Ottanta, ho invitato alcuni colleghi a promuovere un’attività di volontariato educativo denominata Laboratorio di cultura politica pluralistico e itinerante: attività che, come risposta alle stragi politico-mafiose del 1992 (Capaci e via D’Amelio), pensammo di strutturare in maniera più stabile con la creazione dell’associazione di volontariato culturale Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” di Palermo. Si è trattato, da allora ai nostri giorni, del tentativo di riempire, sia pur molto parzialmente, il vuoto pedagogico conseguente al rinserrarsi dei partiti politici tradizionali su questioni di potere tutte interne e alla chiusura delle vecchie “scuole di partito” (che una formazione, sia pur settaria e polemica, la offrivano),  nell’illusione che, con il pretesto di adottare ottiche progettuali pragmatiche e  post-ideologiche, si potesse delegare alla telegenicità di pochi esponenti il compito di catturare il consenso degli elettori. Non è questa la sede per evocare, sia pur sommariamente, i primi tre decenni di attività della Scuola “Falcone” 12: basti segnalare che essa, lungi dal rintanarsi in una prospettiva autoreferenziale, ha lavorato e continua a lavorare in sinergia con istituzioni (scuole e università in primis), associazioni, singoli intellettuali di ogni orientamento, ricevendo e offrendo esperienze, competenze, materiali13. Dal 2017 l’allocazione della sede operativa presso la “Casa dell’equità e della bellezza”, spazio in cui operano altre realtà associative, ha reso per così dire plasticamente evidente questa propensione all’apertura e alla cooperazione. Veramente siamo in un campo in cui chi ha a cuore l’evoluzione civile dell’umanità deve rinunziare a stupidi protagonismi e sterili gelosie: un campo in cui, per citare l’ignoto autore di un testo greco del I secolo dell’era volgare, “la messe è molta e gli operai sono pochi”.
Nella stessa ottica di sintonizzazione con altre realtà cittadine impegnate nella formazione civica degli adulti e dei giovani – a partire dagli insegnanti e dagli alunni delle scuole di ogni ordine e grado – la nostra associazione di volontariato culturale partecipa attivamente alle iniziative che dal 2019 vengono offerte dal “No mafia memorial” di Palermo, spazio polivalente progettato e fortemente voluto dal Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” 14.

 

Note

1Anarco-demagogica” non equivale ad anarchica: l’anarchismo si identifica, piuttosto, con la quarta opzione.

2 ‘Destra’ e ‘sinistra’, in questo contesto, vengono adoperate come qualificazioni di principio, non necessariamente corrispondenti a posizioni storiche effettive.

3 In quanto, in quella fase della mia vita, cattolico-democratico non mi consideravo fascista (l’anti-fascismo era anzi l’unica certezza politica che mi abitava); non ero marxista (anche se per un aspirante ‘intellettuale’ era pressoché socialmente obbligatorio, perché, con Giorgio La Pira, ritenevo il marxismo un ottimo strumento di analisi e una pessima terapia); non ero democristiano perché lo erano gli opportunisti, i carrieristi e – cosa per me insopportabilmente grave – i mafiosi. Forse, se il Partito socialista democratico non fosse stato il partito delle clientele e delle tangenti, mi sarei potuto definire (almeno ideologicamente) un socialdemocratico o, meglio, un socialista liberale.

4 “Cavadiani” e “Pompeiani” erano le due denominazioni, originariamente scherzose, sotto cui gli studenti del liceo “Garibaldi” di Palermo attivi nella ‘contestazione’ ci trovammo schierati: il leader degli attivisti di sinistra era Pompeo Macaluso, figlio (purtroppo prematuramente scomparso) di Emanuele Macaluso, storico dirigente del Partito Comunista Italiano.

5 Siamo dunque nella fase in cui occupare una scuola è un reato effettivamente segnalato alle autorità giudiziarie, non ancora una festosa ritualità pre-natalizia supportata dalla maggioranza dei genitori (specie se ‘progressisti’). All’assemblea in cui si decise per l’occupazione i “cavadiani” votammo contro, ma – per rispetto delle regole democratiche – vi partecipammo ugualmente.

6 Titolo completo: Relazione del documento per l’assemblea del liceo Garibaldi proposto dal gruppo di studio Filosofia e contestazione, Società immobiliare industriale “L’Ora”, Palermo 1969, pp. 23.

7 Le dispense ciclostilate e distribuite, in alternativa ai manuali abitualmente adottati, affrontavano anche le critiche alla religione di Marx, Nietzsche, Freud e Sartre.

8Concezioni antropologico-sociali contemporanee, “Esperienze sociali”, XX, 2 (1978), 39, pp. 63 – 70.

9Le ideologie del Novecento. Cosa sono state, come possono rifondarsi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.

10 La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento, Di Girolamo, Trapani 2011.

11 Dopo i primi anni di insegnamento, già alla fine degli anni Settanta, sono entrato stabilmente nella scuola statale dove, insegnando al triennio, ho dedicato all’educazione politica (come preferivo tradurre la dizione inflazionata “educazione civica”) un’ora la settimana, riservandone due alla storia e tre alla filosofia.

12 Ne ho tracciato un bilancio sommario, in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, nel volumetto La mafia desnuda. L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, Di Girolamo, Trapani 2017.

13 Tra i materiali prodotti in occasioni di seminari della Scuola, e resi fruibili a un più vasto pubblico da alcune case editrici, segnalo: A. Cavadi (a cura di), Il Vangelo e la lupara. Documenti e studi su chiese e mafie, Dehoniane, Bologna 1994; E. Palumbo, E. M. Stabile, R. Giuè, V. Orlando, La fede laica e la politica, La Zisa, Palermo 2000; A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; U. Santino, La mafia come soggetto politico, Di Girolamo, Trapani 2013; F. Palazzo – A. Cavadi – R. Cascio, Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia, Di Girolamo, Trapani 2013; A. Cozzo, Stranieri. Figure dell’Altro nella Grecia antica, Di Girolamo, Trapani 2014; A. Cavadi, Etica. Idee semplici per orientarsi, Aracne, Roma 2016; A. Cavadi, Filosofare in carcere. Un’esperienza di filosofia-in-pratica all’Ucciardone di Palermo, Diogene Multimedia, Bologna 2016; A. Cavadi, Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi, Di Girolamo, Trapani 2018.

14 Sulla storia del Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” e sulla fondazione del “No mafia memorial” cfr. U. Santino – A. Puglisi (con S. Proniewicz), La memoria e il progetto. Dal Centro Impastato al No mafia memorial, Di Girolamo, Trapani 2020.

Il sito Web di Augusto Cavadi: www.augustocavadi.com

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