Epistemologia e filosofia della scienza

Di: Alberto Giovanni Biuso
8 Luglio 2021

 

Ciò che chiamiamo scienze -e la scienza in generale- è una delle massime imprese alle quali la specie umana possa giungere e sia giunta. Scienza è infatti una riflessione costante, rigorosa e asintotica sugli enti che si trovano nel mondo (ontologia), sul modo nel quale essi possono essere conosciuti (gnoseologia), sulle condizioni, possibilità e limiti del rapporto tra gli enti che ci sono e il modo nel quale vengono appresi (epistemologia).
ἐπιστήμη vuol dire in greco una conoscenza oggettiva, universale e condivisa; diversa dunque rispetto alla semplice δόξα, intesa come l’idea che ciascuno si fa del mondo sulla base della propria individuale percezione di esso.
La filosofia della scienza costituisce un tentativo di pensare la complessità di tali relazioni. Dei suoi molteplici e possibili significati, John Losee privilegia, adotta e pratica ciò che definisce come «una criteriologia di secondo livello» (p. 18), che si differenzia dalla storia della scienza e dalla pratica della ricerca scientifica. Rispetto alla storia della scienza come resoconto esplicativo di dati circoscritti e precisi, la filosofia della scienza costituisce una elaborazione di principi valutativi applicabili ai casi più diversi. Rispetto alla pratica della ricerca scientifica, l’analisi del metodoscientifico appare «una disciplina di secondo livello, il cui oggetto d’indagine è costituito dalle procedure e dalle strutture delle varie scienze» (19).
L’impianto di questa introduzione è storico e parte dal riconoscimento che il primo filosofo della scienza è stato Aristotele, il quale «concepiva l’indagine scientifica come una progressione dalle osservazioni a principi generali, e poi di nuovo un ritorno alle osservazioni» (22). I principi generali sono per Aristotele sia di tipo contenutistico sia e soprattutto principi metodologici, la cui massima espressione è il sillogismo in quanto regola e modalità caratterizzata da formalismo, universalismo e razionalità.
Prima di Aristotele la scienza consisteva già nella ricerca di principi universali tramite la potenza del ragionamento, il cui esempio più puro è la matematica. La tradizione pitagorica e platonica, che ha incarnato perfettamente la matematizzazione del mondo, ha esercitato e continua a esercitare una immensa influenza sulle scienze. Che la realtà sia costituita da un’armonia matematica, sul cui fondamento poggia la sua possibilità di esistere e di essere conosciuta, è il principio che sta a fondamento dell’intera impresa galileiana, come appare evidente anche nel celebre brano del Saggiatore nel quale il filosofo sostiene che il mondo è un libro scritto in ‘lingua matematica’. La fiducia nelle ‘matematiche dimostrazioni’ indusse Galilei a respingere più volte le ‘sensate esperienze’ quando le seconde confliggevano con le prime, come nel caso della spiegazione delle maree.
Già da questi semplici accenni a circostanze e teorie ben note, si comprende che le scienze hanno certamente a che fare con la verità e con la realtà ma che verità e realtà non costituiscono i loro ambiti specifici poiché il cuore delle scienze è il metodo, sono le procedure, è il come non il che.
La ricca, complessa, intricata vicenda delle scienze occidentali, delle loro filosofie, della loro storia va dunque letta sotto la luce di un criterio di demarcazione non ‘tra ciò che è vero e ciò che è falso’ ma ‘tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è’, intendendo per scientifico un linguaggio, una modalità, una procedura.
Alla luce di questa semplice ma fondamentale consapevolezza si spiegano anche la varietà di teorie e metodi che caratterizzano la vicenda scientifica. Ed è anche per questo che «prendere per vere le migliori teorie odierne significa negare questa lezione della storia. La conclusione induttiva appropriata che si può trarre dalle prove storiche è che è probabile che le nostre attuali teorie di alto livello siano false» (318), senza che questo implichi che non siano scientifiche, anzi sono scientifiche perché sono falsificabili, come ha argomentato con grande chiarezza Karl Popper, per il quale «l’accettabilità di una legge o di una teoria [è] determinata dal numero, dalla diversità e dalla severità dei controlli che ha superato» (203).
I limiti del sapere che chiamiamo scientifico erano molto chiari a uno dei massimi scienziati di ogni tempo, Isaac Newton, il quale «negò che si potesse in qualche modo conseguire una conoscenza necessaria delle leggi scientifiche. Secondo Newton, il filosofo naturale può stabilire che i fenomeni sono correlati in un certo modo, ma non può dimostrare che la relazione non potrebbe essere diversa» (120). Così per Poincaré le scienze sono un insieme di convenzioni e «il fatto che una legge scientifica sia ritenuta vera, indipendentemente da qualsiasi richiamo all’esperienza, riflette meramente l’implicita decisione degli scienziati di usare la legge come convenzione che specifica il significato di un concetto scientifico» (198).
Uno dei più profondi epistemologi, Pierre Duhem, ha notato che «la procedura scientifica è completamente impregnata di considerazioni teoriche […], non esistono dati di fatto irriducibili vuoti di ogni teoria. Duhem sottolineava che lo scienziato interpreta invariabilmente le scoperte sperimentali con l’ausilio di qualche teoria» (162). La centralità della teoria è confermata con saggia radicalità da Paul Feyerabend, per il quale l’autonomia dei resoconti osservativi dagli enunciati di livello teorico è del tutto inesistente, è illusoria. Il myth of the given, il ’mito del dato’ del quale parla non soltanto Wilfrid Sellars ma anche Edmund Husserl, va sostituito dalla ben più realistica e insieme raffinata consapevolezza che «sono i resoconti osservativi a essere parassitari rispetto alle teorie» (228). Anche perché la distinzione tra termini osservativi e termini teorici è del tutto legata al contesto nel quale si esplica l’attività di indagine, ricerca e riflessione. E questo significa, per Feyerabend come anche per Quine, che «i punti di sostegno di una teoria sono creati dalla teoria stessa. I resoconti osservativi non hanno uno status indipendente dal contesto teorico in cui essi compaiono» (231).
Se la legge di copertura richiede che la spiegazione degli eventi e dei dati osservativi avvenga o secondo lo schema DN (nomologico-deduttivo) o secondo lo schema IS (statistico-induttivo), entrambe queste modalità dipendono da un vero e proprio orientamento e riorientamento gestaltico, il quale fa sì che i fatti vengano non interpretati ma proprio visti in modi differenti:

Sulla scorta di Ludwig Wittgenstein, Hanson distingueva tra ‘vedere che’ e ‘vedere come’ e sottolineava che il ‘vedere come’, il senso gestaltico di vedere, è stato importante nella storia della scienza.
Si consideri la polemica seicentesca sul moto della Terra. Immaginiamo Tycho Brahe e Keplero in piedi su una collina all’alba, rivolti verso l’Oriente. Secondo Hanson, c’è un senso in cui Brahe e Keplero vedono la stessa cosa. Entrambi ‘vedono’ un disco arancione tra macchie verdi e azzurre. Eppure c’è anche un senso in cui Brahe e Keplero non vedono la stessa cosa. Brahe ‘vede’ il Sole che si leva da sotto l’orizzonte fisso. Keplero ‘vede’ l’orizzonte che scorre sotto il Sole immobile. Vedere il Sole come lo vede Keplero significa avere effettuato un riorientamento gestaltico (241-242).

Il primato della teoria, del contesto teorico, e della direzione gestaltica fa sì che le teorie scientifiche risultino tra di loro incommensurabili. Vale a dire epistemologicamente non confrontabili secondo un criterio di verità ma semmai secondo un criterio di consenso e di efficacia più o meno rilevante all’interno di un contesto dato. Anche le scienze sono dunque dei dispositivi semantici con i quali le diverse culture, comunità ed epoche cercano di dare a se stesse una spiegazione quanto più feconda di ciò che osservano e di ciò che accade. Assai utile è a questo proposito la distinzione, già proposta da John Herschel nel XIX secolo, tra il contesto della scoperta, che non è vincolante ed è secondario, e il contesto della giustificazione, che è invece rigoroso e vincolante. Non importa dunque come si sia arrivati a una scoperta, ciò che conta è saperla argomentare, sostenere, giustificare.
Al di là delle loro pretese più o meno dogmatiche -«Worral ha ribadito che dobbiamo mettere da parte le argomentazioni, ed enunciare ‘dogmaticamente’ certi principi elementari di razionalità» (307)- il fecondo lavoro delle scienze è inseparabile dal più vasto orizzonte delle culture umane nelle quali le scienze sorgono, operano, si pongono obiettivi, li raggiungono, riconoscono i loro limiti, mutano. E questo conferma le tesi di Bas van Fraassen, secondo le quali «gli scienziati devono restringere le affermazioni su verità e falsità alle asserzioni sugli osservabili» privi di ausili esterni (315), vale a dire per principio percepibili e non -come ad esempio la struttura del nucleo atomico- fuori dalla portata di un’osservazione che in se stessa costruisca il proprio oggetto.
Tale consapevolezza non implica affatto l’adesione a una epistemologia idealistica, come quella sostenuta da alcuni settori della fisica quantistica, ma è compatibile con l’obiettivo della ricerca di teorie che rappresentino quanto meglio possibile e in modo comunque sempre asintotico una realtà autonoma dalla percezione e dal racconto umano sul percepito. La fecondità e il successo delle scienze dipendono alla fine dalla loro capacità di fornire una spiegazione di ciò che accade indipendentemente dall’accadere umano o almeno in gran parte indipendente da tale accadere.
E questo conferma ancora una volta la consapevolezza aristotelica, dalla quale siamo partiti, che la fisica è parte non soltanto della più ampia temperie culturale di ogni epoca ma è anche parte della metafisica. Rom Harré e Edward Madden sostengono infatti

che le teorie fondamentali della fisica possono riflettere o una posizione metafisica atomistica in cui le entità definitive sono centri di potenza puntiformi, o una posizione metafisica in cui l’entità definitiva è il ‘gran campo’. […] Vi sono alleanze naturali fra il realismo sulle entità e l’atomismo metafisico, nonché fra il realismo strutturale e la metafisica del gran campo. La posizione del realismo strutturale riceve qualche supporto dall’attuale spinta, nella fisica teorica, verso l’applicazione dell’alternativa del gran campo (322).

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον….ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεὼν διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν.
Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo il suo divenire…) Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo
(Anassimandro, in Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele”, 24, 13 [DK, B 1]).

A essere transeunti sono anche quelle particolari interpretazioni degli enti che chiamiamo teorie scientifiche.

 

John Losee
FILOSOFIA DELLA SCIENZA
Un’introduzione
(A Historical Introduction to the Philosophy of Science, Oxford University Press 2001)
Traduzione di Piero Budinich
il Saggiatore, Milano 2016
Pagine 410

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