Cura e autenticità: dal solipsismo heideggeriano alla previetà comunionale mazzarelliana

Di: Francesco Topo
4 Gennaio 2022

 

Negli ultimi anni, nell’ambito dei suoi studi su Heidegger, Eugenio Mazzarella ha tentato di decostruire dalle fondamenta l’analitica esistenziale sviluppata dal filosofo tedesco in Essere e tempo ponendo in luce una intrinseca e strutturale contraddittorietà. A differenza delle critiche di alcuni predecessori1 – che hanno cercato di opporre il proprio sistema teoretico a quello heideggeriano, respingendo in toto la sua opera nella sua stessa strutturale costituzione – quella del filosofo napoletano è piuttosto una “revisione” e “correzione” della struttura ermeneutico-fenomenologica che sta alla base dell’opera del ’27.
Il fulcro fondamentale su cui si basa tale revisione è l’esito solipsistico a cui giungerebbe l’analitica esistenziale in cui si evince che è solo il singolo esserci, allontanatosi dalla «pubblicità [Öffentlichkeit]» della Mitwelt, a poter aspirare a quell’«autenticità [Eigentlichkeit]» indispensabile a stare nella verità dell’essere. Eugenio Mazzarella vuole dimostrare che l’autenticità – intesa nei termini di pienezza veritativa dell’autocomprensione di sé della vita – non è guadagnabile solo ed esclusivamente nel solipsismo dell’angoscia essenziale di matrice heideggeriana, ma anche e primariamente nella “dimensione comunionale” dell’esserci. Tale dimensione non è introdotta dall’esterno nel discorso filosofico heideggeriano, ma è da rintracciarsi in ciò che lo stesso filosofo tedesco indica nell’ambito della sua ermeneutica della fatticità: «non è mai dato innanzi tutto un io isolato, senza gli altri»2, «il mondo è già sempre quello che io con-divido con gli altri»3, «l’in-essere è un con-essere con gli altri»4. Nonostante questi presupposti fondativi leggibili nelle pagine iniziali dell’opera, tale comunionalità intrinseca all’esserci viene via via abbandonata per lasciare spazio, nelle fasi conclusive dell’analitica, ad un io privo di mondo e di legami autentici: «l’angoscia racchiude la possibilità di un’apertura privilegiata per il fatto che isola»5, «ogni esser-presso ciò di cui ci si prende cura e ogni con-essere con gli altri fallisce quando ne va del poter-essere più proprio»6. È possibile leggere in questi passaggi una contraddittorietà radicale che il filosofo napoletano cerca di ricucire attraverso le sue analisi. In particolare, è importante richiamare il concetto di «previetà comunionale»7 che egli introduce nel saggio Solitudine e dipendenza. L’autenticità comunionale della Cura. Una glossa heideggeriana: essa è «il modo “proprio”, “autentico”, in cui la vita umana, e la mia vita, è sempre posta in se stessa, nella sua verità come originarietà del suo fenomeno»8. Con questa espressione il filosofo napoletano coglie quella dimensione che lo stesso Heidegger ha posto a fondamento dell’umano, in cui viene esplicitata la costituzione d’essere di ogni esserci che è costantemente e necessariamente immerso in un mondo comunitario dove vale una struttura d’essere dell’esserci come Selbstwelt («mondo del sé») che è sempre e contemporaneamente anche Mitwelt («mondo degli altri») e Umwelt («mondo-ambiente»).
L’idea di fondo risulta essere, quindi, quella secondo cui l’esserci umano non è mai solo, ma è sempre immerso in una solidarietà ontica che contraddice il solipsismo ontologico che il filosofo tedesco aveva innalzato a unica possibilità di “salvezza”. Mazzarella configura più genericamente quest’ultima come una delle tante aperture possibili dell’esserci nei confronti della vita, non la sola ed unica. È per questo motivo che egli scrive – riferendosi alle conclusioni heideggeriane – che «l’estasi sul mondo possibile dell’Esserci non è altro che l’horror vacui della sua insignificatività»9. La riserva mazzarelliana nei confronti di Heidegger è rivolta, fondamentalmente, al suo sminuire la vita – avendola privata della sua più intima essenza – realizzato grazie alle armi intellettualistiche dell’«angoscia essenziale» e della «chiamata della coscienza». In altre parole, egli rivendica al filosofo tedesco la mancanza di un qualsiasi tipo di “ringraziamento” nei confronti della vita, la quale, immersa nell’insignificatività del suo affanno, non può fare altro che scoprirsi priva di senso. Il filosofo napoletano, per questo motivo, dirige la sua analisi proprio in questo spazio del “senza senso”, ovvero in quello spazio in cui deve inevitabilmente reggersi la vita se vuole avere ancora un destino. Per fare ciò egli approfondisce, amplia e sviluppa il concetto di ‘Cura’ offerto da Burdach e ripreso da Heidegger in Essere e tempo. Nonostante l’esplicazione del suo doppio significato – «essa non significa soltanto “pena angosciosa” ma anche “premura”, “devozione”»10 -, sembra che Heidegger abbandoni definitivamente le due ultime accezioni per l’intero corso della sua opera.  La minaccia che ne deriva è inevitabilmente la totale perdita di senso dello stare al mondo dove la Cura collassa su se stessa e dove dell’affanno mondano rimane soltanto l’insignificanza del suo stesso affannarsi.

È per questo motivo che Mazzarella tenta di riportare il concetto di ‘Cura’ alle proprie fondamenta teoretiche e fenomenologiche. In particolare, è importante sottolineare che per il filosofo napoletano essa non è assolutamente da intendere come quella dimensione solipsistica in cui il singolo incontra la propria solitudine esistenziale, ma – fondativamente e primariamente – come quell’orizzonte in cui l’esserci nasce e sta nella vita. Si tratta di quella prospettiva pratica e teoretica secondo cui ogni essere-nel-mondo si trova immerso nelle cure degli altri11: sia di chi lo prende in cura al momento della nascita, sia di chi farà parte della sua cura durante tutto l’arco della vita. L’ampiezza di significato della Cura infatti, secondo Mazzarella, è coglibile fondativamente proprio nella continua generatività umana in cui è presente un costante progetto di affidamento a cui tutti, in un modo o nell’altro, inevitabilmente sottostanno. Questo “vitalismo” mazzarelliano, che assume dignità filosofica proprio grazie alle fondamenta fenomenologiche su cui si basa il concetto di ‘Cura’ esplicato da Heidegger, è del tutto assente in Essere e tempo a causa della radicale privazione di questa più ampia esperienza creaturale dovuta alla speculazione intellettualistica derivante dalla gnosi di quell’esserci chiamato per il proprio esser-se-stesso nella chiamata della coscienza. Antiteticamente a questa particolare “privazione” si pone il concetto di «appagatività comunionale»12 mazzarelliano in cui è possibile rintracciare, in tutta la sua ampiezza, quel carattere di apertura nei confronti del contesto comunitario in cui si viene al mondo:

prima ancora di “scoprirsi”, di sapersi come cura di sé presso il mondo, presso gli altri e le cose di cui ha o si prende cura [esposta all’apprensione e all’affanno della lotta, e all’angoscia del venir meno dei suoi motivi, delle ragioni che la motivino], alla Cura [al “mondo”, all’essere-nel-mondo] l’Esserci, l’uomo – la vita – che viene già sempre nelle cure degli altri, in cui è già sempre appagato, “a casa propria”13.

Con queste parole egli indica quel «maternage creaturale»14 in cui, originariamente, è immerso ogni esserci: «la Cura, che lo terrà tutta la vita come ciò in cui è gettato, nel suo imprinting originario non è innanzi tutto prendersi o aver cura, ma essere accolto, preso in cura dell’Esserci nelle cure parentali»15. La prima vera preoccupazione della vita, per Mazzarella, riguarda proprio la perdita di questo legame – «già sempre affettivamente, e poi tematicamente saputo»16 – con coloro di cui si è la preoccupazione. L’idea di fondo è che non si viene al mondo nell’insecuritas della Cura adulta intesa solo come “affanno” e “preoccupazione” a là Heidegger, ma nel «caldo sentire di un affidamento a un altro che ci cura e che ci ha in cura fin dall’inizio»17.
Questa particolare declinazione della Cura riporta inevitabilmente al concetto di ‘religio’ che Mazzarella sviluppa ne L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, ovvero a quella strutturale necessità di coappartenenza ad altri nel contesto vitale che dà senso all’agire quotidiano. Si tratta, in altre parole, della scoperta della propria nudità creaturale che deve inevitabilmente essere affidata a qualcosa o a qualcuno: o alla figura di un dio creatore o al contesto comunionale in cui si nasce e si vive. In quest’ultimo caso egli fa riferimento a quell’ambiente umano – la «nicchia ecologica»18 dell’esserci – che per essere collocato presso se stesso deve essere già sempre collocato presso gli altri. È proprio attraverso la teorizzazione di queste radici comunionali che egli individua il limite della Curaheideggeriana, ovvero il suo risolversi, solo ed esclusivamente, presso la singolarità esistente. Cerca, in questo modo, di ri-fondare il retroterra antropologico – e ontologico – dell’essere di quell’esserci che noi siamo. Tale ri-fondazione avviene ad opera dell’ampliamento dello spettro di significato della Cura che non risulta più essere solo “affanno” e “preoccupazione” ma anche – e primariamente – “sollecitudine” e “premura”.

Grazie a queste nuove fondamenta teoretiche è possibile affermare che la prima fonte di certezza per l’esserci mazzarelliano non è di tipo cognitivo come si è pensato a partire dalla tradizione cartesiana, ma è una certezza emotiva: «il volto e la voce della madre»19. È questo primario affidamento, insito nell’istintivo legame nativo tra genitore e figlio, che il filosofo napoletano invita a riprendere per apprenderci nel mondo: «tenere viva questa certezza, ravvivarla nella vita di ogni giorno e di ogni momento è riprendersi – riprendere sé – in questo originario legame a qualcuno che ci costituisce»20. Da questo discorso si evince che la comunità, seppur contraddistinta da un carattere di massificazione e di spersonalizzazione, conserva sempre quelle fonti di affidamento che permettono all’esserci il raggiungimento di quella consapevolezza vitale che Heidegger ha definito «autenticità». Il «volto e la voce della madre», infatti, non rappresentano altro se non lo stato larvale di quella più ampia comunità umana di cui facciamo parte e che, nella sua intrinsecità, non presenta alcun tipo di distacco o isolamento come fondamento essenziale.
Attraverso questa rilettura e questa rifondazione di alcuni degli esiti teoretici di Essere e tempo, Mazzarella dimostra che l’unica trascendenza possibile offerta dallo strumento fenomenologico è quella inerente la generatività umana, ovvero l’affidamento della propria cura a chi verrà dopo. In questo senso l’affanno della Cura heideggeriana – tutta rivolta al negativo – viene mitigato grazie alla consolazione derivante dalla premura che primariamente ci accompagna nel nostro cammino di vita comunitario. Il tema nichilistico heideggeriano viene smorzato da una fondativa fiducia nei confronti del contesto ambientale che va a sostituire la totale perdita di mondo in cui si muove l’esserci di Essere e tempo. In altre parole, il filosofo napoletano viene a dire che l’esserci è sempre immerso in un contesto di significatività dove la vita assume il proprio senso di fatticità solo nella rete di legami sociali in cui da sempre si muove.
Risulta chiaro che l’originalità di tale imprinting è tutta heideggeriana, il merito mazzarelliano è quello di aver riportato questo pensiero alle sue radici fenomenologiche, smentendo gli esiti finali dell’analitica. Egli mette in luce questa contraddittorietà intrinseca all’opera del ’27 dimostrando che il solo fatto di aver tematizzato e divulgato l’angoscia essenziale e l’isolamento solipsistico attesta la necessità di comunicatività e di comunionalità in cui ogni esserci – anche lo stesso Heidegger – è immerso. In questo senso si evince che solo l’orizzonte comunitario è effettivamente vitale perché un’esistenza priva di legami e priva di fiducialità non solo non esiste ma, in quanto tale, non può essere contemplata da uno sguardo fenomenologico che voglia tematizzare la fatticità di un essere-nel-mondo.

Quella di Mazzarella, riprendendo un termine heideggeriano, può essere considerata una chiamata alla vita. Nel caso del filosofo tedesco questa chiamata per la decisione anticipatrice si configura come un ridestamento in quella consapevolezza della propria finitezza oscurata da un ambiente comune che attraverso il decadimento tranquillizza l’esserci da un destino certamente saputo ma intramondanamente velato. L’unica “salvezza”, in questo caso, è di tipo gnostico, possedibile solo dal filosofo a là Heidegger che, isolandosi, si avvia verso una forma quasi ascetica di consapevolezza volta alla totale sfiducia nei confronti di quel mondo che prima della decisione anticipatrice lo aveva ingannato tranquillizzandolo. In questo modo i caratteri di quell’originario Mitsein teorizzato nelle fasi iniziali dell’analitica vengono inevitabilmente a decadere nell’ombra di una totale diffidenza verso ciò che sicuramente ci accompagna nel nostro cammino mondano, ma che lo fa solo sotto forma di tentazione illusoria nei confronti di una vita che oltre alle sole dimensioni dell’affanno e della preoccupazione non può offrire all’esistenza alcuna via di scampo. All’opposto è da collocare la chiamata mazzarelliana. Il suo è un avviso netto e radicale in cui si evince la possibilità di autenticità anche nel contesto comunitario in cui un esserci, ancor prima dell’angoscia essenziale, conosce già benissimo il proprio statuto. Proprio per tale motivo, trovandosi già sempre nella consapevolezza del proprio destino, per Mazzarella è necessario ricercare la “salvezza” in quei caratteri che originariamente contraddistinguono l’esserci. Essi vengono ritrovati proprio nel contesto ambientale che funge inevitabilmente da cornice fenomenologica della nostra esistenza.
Se la ‘salvezza’ (dalla radice latina ‘salus’) non viene a dire altro che lo stato di integrità rispetto a una condizione di sofferenza, e se la nostra situatività nel mondo è quella di una comunità di esserci, allora la salus può essere ritrovata solo nel rapporto con gli “altri” che ci accompagnano nel nostro cammino mondano. L’unica “salvezza” a cui un esserci può mirare, in altri termini, è quella della riposizione della propria fiducia in qualcosa o qualcuno. Se per la ragione fenomenologica, che guida la ricerca filosofica, quel qualcosa soprasensibile scompare dall’orizzonte, allora l’unica àncora di salvezza per il nostro soggiorno mondano è l’affidamento del proprio cuore a qualcuno che lo prenda in cura. Questo qualcuno, però, non è da intendersi come un’entità singola, ma come quella collettività umana che funge da inevitabile presupposto fenomenologico della nostra esistenza.

Tali risvolti comunitari aprono la strada ad altrettanti interrogativi e altrettante tematiche odierne che la filosofia di inizio Novecento aveva solo in parte afferrato, ma che oggi sono il necessario presupposto analitico di qualsiasi altro tipo di ricerca che sia antropologica, politica o sociale. Già all’inizio del ventunesimo secolo l’umanità si è aperta a un orizzonte di ricerca collettivo in cui le problematiche e gli inevitabili interrogativi della vita non possono prescindere dal contesto comunitario in cui ci si trova nel mondo. Nel concetto di «notte del mondo»21, teorizzato da Heidegger nell’ultima fase del suo pensiero, si ritrova un primo accenno di questa nuova era della filosofia: viene abbandonato l’individualismo solipsistico per porre attenzione alla comunicabilità di un pericolo collettivo per l’intera comunità umana che, all’unisono, ha bisogno di nuovi stimoli di salvezza per non ricadere in quei rischi e in quelle minacce che l’odierno mondo della tecnica nasconde. In questa dimensione di sfacelo universale l’invito mazzarelliano è quello di restare ancora, e nonostante tutto, umani: in quanto «animale resiliente»22 l’esserci ha proprio il compito di rimaneretale in quell’ampia comunità umana in cui inevitabilmente esiste e in cui inesorabilmente insiste.
È importante sottolineare che queste analisi e queste critiche mazzarelliane sono circoscritte alla trattazione di Essere e tempo. L’atteggiamento heideggeriano, infatti, verrà attenuato nel tempo con l’apertura, nell’ultima fase di pensiero, a un orizzonte non meramente solipsistico in cui la parola poetica fungerà da strumento di salvezza intellettualistica per chi una volta riconosciuto l’«abisso»23 ha il più intimo compito di comunicarlo: «i più arrischiati sono coloro che nella mancanza di salvezza si rendono conto del nostro esser-senza-protezione. Essi apportano ai mortali la traccia degli Dèi fuggiti nelle tenebre della notte del mondo. I più arrischiati, in quanto cantori della salvezza, sono “poeti nel tempo della povertà”»24. In questa fase più matura di pensiero il filosofo tedesco rivolgerà un discorso non solo al singolo esserci, ma a una più ampia comunità umana da “salvare” dalle insidie della «notte del mondo». In questo contesto i poeti hanno il preciso compito di comunicare questa salvezza, perché solo loro – «i più arrischiati» – possiedono quella capacità divulgativa che è del tutto assente in Essere e tempo: il mondo degli uomini, ora, è un mondo in cui l’autenticità della parola veritativa è aperta alla comprensione da parte di chi, seppur immerso in esso, ha la possibilità di cogliere quella stringente consapevolezza che prima era affidata gnosticamente solo al filosofo.
Si apre, in questo modo, uno spiraglio di speranza nei confronti della vita, nei confronti di un’esistenza che conserva quella primaria struttura di comunicabilità che porta con sé la necessaria solidarietà ontica che ne deriva. Nella chiusa del saggio, riferendosi ai poeti, Heidegger scrive: «il loro canto, al di sopra della Terra, salva»25. Viene finalmente accolto il fenomeno della ‘salvezza’ che, pur non avendo alcun carattere tipico della fede devozionale teologica, conserva una necessità primaria dell’essere umano, quella di poggiare il proprio cuore in qualcosa o qualcuno per collocare l’orizzonte di senso della propria esistenza in una dimensione vitale affidata alla premura e alla devozione nei confronti dell’altro diverso da sé.

 

Note

1 Si veda G. Lukács, Il mercoledì delle ceneri del soggettivismo parassitario (Heidegger, Jaspers), in Id., La distruzione della ragione (1954), Mimesis, Milano 2011; H. Marcuse, Contributi a una fenomenologia del materialismo storico (1928), tr. it. di A. Marini, in Id., Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialistica. Tre studi 1928-1936, a cura di G. Casarico, Unicopli, Milano 1980.
2 M. Heidegger, Essere e tempo (1927), a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2005, p. 147.
3 Ivi, p. 149.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 233.
6 Ivi, p. 315.
7 E. Mazzarella, Solitudine e dipendenza. L’autenticità comunionale della Cura. Una glossa heideggeriana, in A. P. Ruoppo (a cura di), Essere e tempo novanta anni dopo: attualità e inattualità dell’analitica esistenziale, Federico II University Press, Napoli 2019, p. 232.
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 233.
10 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 232.
11 E. Mazzarella, Solitudine e dipendenza. L’autenticità comunionale della Cura. Una glossa heideggeriana, cit., p. 237.
12 Ibidem.
13 Id., L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet, Macerata 2017, pp. 60-61.
14 Ivi, p. 148.
15 Ivi, p. 61.
16 Id., Solitudine e dipendenza. L’autenticità comunionale della Cura. Una glossa heideggeriana, cit., p. 237.
17 Ivi, p. 239.
18 Id., L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, cit., p. 210.
19 Ivi, p. 146.
20 Ibidem.
21 M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti (1950), trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 248.
22 E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, cit., p. 135.
23 M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, cit., p. 248.
24 Ivi, p. 296.
25 Ibidem.

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