Rousseau pensatore del potere e della libertà

Di: Mario Cosenza
1 Settembre 2022

 

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L’importanza di Jean-Jacques Rousseau nella storia del pensiero politico è certamente un fatto conclamato ma, nondimeno, ci si può forse ancora chiedere in che modo l’autore del Contrat social abbia contribuito all’istituirsi di alcuni archetipi delle dottrine politiche moderne1. Com’è stato detto, ogni epoca ha avuto il suo Rousseau2, ma se, ed è lecito crederlo, nessun pensiero o pensatore nasce ex nihilo, neanche il genio polivalente di Jean-Jacques sfugge a influenze storiche ben precise3. Egli pensa da contrattualista critico e – tramite la sua penna straordinaria (qualità che non sempre ha aiutato a comprenderne la grandezza teorica4) – cerca di riassorbire e riformulare presupposti e approdi di questa tradizione, rovesciando radicalmente il paradigma del contratto al fine di «rimetterlo con i piedi per terra», cioè razionalizzarlo: «esso cessa di porsi come orizzonte entro il quale in ultima istanza si legittimano gli assetti di potere vigenti»5cessa di essere apologia dell’esistente – e, nelle intenzioni di Rousseau, si trasforma in una formidabile «leva di pensiero critico, tendenzialmente rivoluzionario»6.
Da questa angolazione, diventa forse più chiaro il perché Rousseau divenne, nella primissima ricezione, l’ispiratore rivoluzionario per eccellenza: in primis, perché egli propone un contratto nuovo – che non guardi indietro, ma sia produttivo per il «da ora in poi»; ancora, perché egli nega la possibilità di un contratto con un principe, e ispira gli stessi contrattuali a divenire corpo sovrano – il piano orizzontale produce potere; inoltre, perché il suo contratto si basa interamente sulle virtù e sulle capacità razionali che tutti possono avere (negando che il censo sia l’unica forma di accesso alla decisione) e perché esso, oltre ad essere sottoscrivibile da tutti, obbliga tutti. Si riferisca il “tutti” all’aristocrazia parassitaria del ‘700, e si avrà anche solo in parte la misura della debordante influenza del pensiero del ginevrino7.
Così come si può indicare la piattaforma teorica che Rousseau assume e che vuole, in qualche misura, rovesciare, così i “nemici” di Jean-Jacques sembrano di facile identificazione. Infatti, oltre le beghe personali che lo porteranno a rompere col gruppo di philosophes enciclopedisti, e al di là dei motivi più propriamente personali e psicologici di tale allontanamento8, il nucleo ideologico della rottura tra Rousseau e le monde è chiaro: il ginevrino proprio non può sopportare la società “dello spettacolo” dei suoi tempi, le élite – usando un termine successivo – che ai suoi occhi fungono da blocco alla mobilità sociale9. Rousseau ha in spregio la sua irragionevole società d’appartenenza, incancrenita dal potere delle volontà particolari e dal censo, dai governi allo stesso tempo deboli e arbitrari, dalla permanenza di un assetto feudale utile solo a un’aristocrazia che rifiuta qualsiasi tipo di mediazione riguardo i propri privilegi – ci vorrà una rivoluzione per «convincerla».
Rousseau sente di avere davanti a sé la società dell’egoismo e delle relazioni pericolose. Il primo motore del pensiero del ginevrino è allora la contrapposizione feroce tra interessi particolari che bloccano la costruzione del Comune e del Generale. Jean-Jacques è ossessionato dall’individualismo disgregante e vuole frenarlo10; il problema da cui parte è infatti cristallino: come ha potuto l’égalité divenire il suo contrario, sparire dietro le strutture dominanti che inondano la società «civile»?
Jean-Jacques, da «sloganista» formidabile qual era, ha eternato la sua epoca e il suo pensiero con alcuni passaggi formidabili: tutto ciò che si viene in fondo dicendo è da lui genialmente compendiato in «l’uomo è nato libero ed ovunque è in catene»11. L’interrogazione di senso parte da questo – come si è arrivati dalla realtà come poteva essere alla «realtà universale del dominio»12? – e ambisce a risolvere il problema che logicamente ne deriva, ossia come riuscire a formulare filosoficamente e poi praticamente la tensione verso un cambiamento radicale, accedendo alla costruzione di una nuova realtà sociale equa, libera e razionale.
In estrema sintesi: si tratta non di sanzionare il già avvenuto, ma di teorizzare il nuovo – con un patto che avvantaggi gli ultimi, non che autorizzi i primi a continuare ad esercitare l’esecrato dominio. Non un’analisi dell’esistente, bensì una genealogia utile alla costruzione dell’av-venire. La dis-eguaglianza non solo oggetto di denuncia, ma compresa geneticamente e poi così distrutta.

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Ma come si è imposta la società diseguale? E – soprattutto – com’è possibile che goda del consenso degli oppressi, aspetto che già La Boétie notava? La consapevolezza che l’eguaglianza si sia trasformata nel suo opposto è la base del «sistema»: ma, poi, come sciogliere questo nodo13?
Il primo passo teoretico consiste nello smascherare le funzioni apologetiche del contrattualismo e del giusnaturalismo, vale a dire destrutturare il concetto di stato di natura così come è stato inteso. La sfida è a dir poco ardua, poiché passa dal corpo a corpo rigoroso con due figure imprescindibili: Thomas Hobbes e John Locke14.
L’autore del Leviatano merita, sì, sommo rispetto (aspetto che Rousseau non concede a tutti i suoi «sfidanti») ma nondimeno bisogna depotenziarne l’armamentario teorico, in primis il terrificante stato di natura, nella cui versione hobbesiana Jean-Jacques vede l’abile escamotage per far accettare il presente stato civile, poiché quest’ultimo finirebbe per risultare, anche così com’è, in ogni caso migliore del regno dell’oscuro terrore descritto da Hobbes: difatti risulta evidente come più lo stato di natura è descritto come spaventoso e miserevole più qualsiasi stato civile – anche il più oppressivo – finisca per risultare accettabile. Lo stato di natura del filosofo inglese – fatto di sola brutale violenza – è pensabile solo se si teorizza una protostoria apologetica condita da un’antropologia funzionale al dominio. La ricostruzione di Hobbes, a ben vedere, sarebbe figlia di un continuo peccato di ideologia: il filosofo meccanicista avrebbe, semplicemente, presentato tutte le caratteristiche e la passioni tristi dell’Europa lacerata dalle guerre di religione come eterne e naturali, al solo fine di giustificare i rapporti di potere esistenti. Per il ginevrino, al contrario, lo stato di natura non è stato di guerra bensì stato di isolamento: l’uomo di natura abita il mondo tendenzialmente solo, in maniera non ostile, e, quindi, quale conflitto potrebbe scoppiare in mancanza di contatti? Per Rousseau, all’ipotetico primo uomo sono state attribuite caratteristiche relative a precisi momenti storici – al fine di controllo e dominio, di repressione addizionale – quando, in realtà, lo stato di natura ha dignità di pensiero perlopiù in quanto “esperimento teorico” – ricostruzione a tavolino di un’idea, principio regolativo retrodatato – e non certo come reale accadimento storico15.
Contro certo Hobbes, ma non per questo più conciliante verso Locke. Anch’egli è stato apologetico, seppur per motivi diversi, in quanto il suo continuismo tra stato di natura e stato civile ha retrodatato al primo gli istituti del secondo, in particolare, ça va sans dire, la proprietà, concetto e pratica, per Rousseau, solo “civile” e in nessun modo naturale. Proprio la quæstio della nascita della proprietà è lo snodo fondamentale per la questione che opprime Rousseau, ossia la genesi e lo sviluppo – da una realtà storica di isolamento e poi di associazione (forzata) – dell’insopportabile ineguaglianza che Rousseau ha davanti agli occhi e che non smette di denunciare. La proprietà privata, ben lungi dall’essere un’acquisizione legittima – posizione lockiana –, è imposizione, violenza e inganno, vero stigma della società corrotta. La sua istituzione è la vera cesura maggiore, nel fatale percorso verso l’ineguaglianza formale e sostanziale. Tra politica e morale, per Rousseau l’accumulazione proprietaria genera inderogabilmente una società dell’amour propre, ossia un vivere (in)civile definito da un’antropologia competitiva, dove l’unica regola della relazione umana è la sopraffazione. L’accumulazione primitiva di proprietà e ruoli sociali figura come punto iniziale di un piano inclinato verso la corruzione e condanna allo stato di minorità permanente gli ultimi16. A chi sostiene che anche la proprietà era in realtà figlia di un primo patto, Rousseau risponde che tale patto fu irrazionale, e, giacché irrazionale, iniquo, ancor più perché imposto con l’inganno da proto-proprietari terrorizzati da un’ipotetica primitiva redistribuzione: il suo unico fine fu la legittimazione, se non, addirittura, la santificazione dell’ordine sociale. Insomma, agli occhi di Rousseau, il patto sociale grazie al quale l’oppressione si giustifica e tiene in piedi è – così com’è – del tutto illegittimo. A quest’altezza, anche al netto dello stile immaginifico di Rousseau o delle interpretazioni post-teologiche del suo pensiero tra caduta e redenzione17, il punto politico è ben chiaro: per “salvare” la vita associata, si tratta di (ri)costruire il patto sociale con realismo («gli uomini come sono»18) ma anche con tensione verso la giustizia– e così arrivare a un accordo che unisca giustizia e utilità.

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Ecco, quindi, il contrattualismo rinnovato e riabilitato: che contratto sia, allora, ma nuovo ed equo, tra liberi ed eguali. La proposta del ginevrino è trasparente: un popolo che voglia creare un ordine politico e mantenersi libero deve «trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima»19; e la sua risposta netta: la soluzione è un patto nuovo che obblighi tutti gli individui ad alienare totalmente i loro diritti in favore del corpo politico comune che tutti insieme costituiscono, sotto la guida, l’egida e l’ispirazione della volontà generale. Ecco l’unico patto razionale possibile: rinunciando al diritto di autogovernarsi, l’individuo accetta che gli altri abbiano diritti su di lui, ma al tempo stesso li acquisisce parimenti sugli altri, e dunque non perde nulla della sua libertà (acquisendolo ha come una sorta di potere di dissuasione su tutti gli altri e viceversa).
L’individuo non perde libertà – in quanto ottiene ciò che dà: ragione calcolante – e in più acquista la certezza di poter godere della libertà che ha. Solo questo contratto può istituire e mediare il passaggio tra condizione prepolitica e ordine civile. Qui Rousseau lambisce Hobbes: il patto esige l’alienazione totale di tutti i diritti, poiché se qualcuno conservasse qualcosa contro il corpo sovrano, si aprirebbero nuovamente contese e guerre, proprio perché ciò che si vuole escludere è una qualsiasi entità politica diversa dal corpo sovrano stesso.
Il delicato costrutto di Jean-Jacques s’inerpica e giunge infine così alla dimensione Statuale; il compito del patto sociale divenuto Stato è non permettere privazioni disarticolate del corpo politico costituitosi e respingere ostinatamente le spinte centrifughe dai principi fondativi. Con l’alienazione totale di ogni individuo al Tutto sociale, si genera il corpo Politico che è – in una forma che non ha sempre aiutato gli interpreti – denominato Sovrano quando così s’intende il popolo che legifera; ed è Stato quando lo stesso popolo è soggetto alle leggi che esso stesso si è dato. Ossia, Rousseau definisce Sovrano il corpo sociale quando attivo; Stato, quando passivo.
Il sovrano – ossia il popolo legittimamente riunito – annuncia la propria volontà tramite le leggi, le quali, ancora una volta, sono, allo stesso tempo, espressione soggettiva della volontà di tutti i cittadini ma anche inderogabile verità oggettiva, nel senso di obbligante per tutti i membri. Tale aspetto è di fondamentale importanza in quanto rappresenta la vera garanzia di giustizia: la perfetta coincidenza tra popolo come fonte e come destinatario delle leggi. La sovranità così pensata è inalienabile e indivisibile (eseguibile, non rappresentabile; possono esistere commissari, non delegati). Il governo è titolare del potere esecutivo – il cervello dello Stato – mentre il sovrano, in questa raffigurazione ancora pienamente meccanicistica, è il cuore della macchina.
Rousseau, anche ben al di là della «patente» di rivoluzionario indefesso addossatagli suo malgrado, si rende invece ben conto che il criterio base del suo pensiero politico – ossia che le risoluzioni politiche del corpo sovrano debbano essere aderenti e conformi alla volontà generale – lungi dal chiudere le discussioni, le apre forse per un tempo indeterminato. Egli più volte ricorda come possano esistere errori di valutazione, dovuti a ignoranza, all’emergere di nuovi particolarismi dominanti, o alla mancata capacità di conoscere «integralmente», nel pensiero e nella prassi, i propri interessi in quanto cittadini.
Ma come definire questo primo motore politico, questa volontà generale che tutto muove? In primis, in senso generalissimo, la volontà generale è l’opposto dell’arbitrio: è la volontà ben fondata che emerge lì dove si riescano a formulare degnamente i problemi della vita associata tramite la luce proiettata dal trittico «espressione del singolo-ragione universale-interesse generale». Essa è un concetto regolativo che consiste nel tentare di pensare la volontà che l’assemblea esprimerebbe se fosse composta da veri cittadini perfettamente informati e dunque lì dove le risoluzioni si orientassero effettivamente verso l’interesse generale della collettività: la volontà generale è la Ragione che nel silenzio delle passioni pensa al bene comune. È ciò che emerge lì dove un velo d’ignoranza impedisce di sapere e «calcolare» cosa gli altri decideranno20. É ciò che il popolo deciderebbe se fosse già popolo.
Da tale «tendenza a farsi popolo», da ravvivare continuamente, derivano pressoché logicamente gli svariati artifici volti a creare una «tensione morale» comune, ossia pedagogia, religione civile, catechismi, costumi semplici e moderati: bisogna mobilitare qualsiasi aspetto per evitare lo scontro tra uomo «accaparratore» e cittadino che pensa al collettivo, tale il fulcro dell’ethos di Rousseau21.
L’ossessione di Rousseau è l’istituzione – o meglio la costituzione – di una forma di governo rigenerata che ponga la legge al di sopra dell’uomo, che la renda pronta a fondare e mantenere il Bene concretamente; da ciò deriva che la legittimità sia, per il ginevrino, l’equilibrio dinamico tra libertà formale (dei vincoli giuridici necessari a far sussistere uno Stato costituito) e materiale (principi etici “concreti” di un popolo storico dato), tra decisione fondante e continuità della storia22.

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Rousseau è interamente «devastato» dai dilemmi della sovranità, della potenza del Politico. Egli arriva a pensare integralmente la potenza della sovranità, le difficoltà poste dalla decisione che infonde la vita a un organismo politico: non è un caso se i giacobini del 1793 dovranno riferirsi a Rousseau per aver accesso al pensiero «costituente», all’inusitato, alla dittatura sovrana che crea un ordine nuovo sull’eccezione fondante del rinnovato sentire23. Modernità piena: si evince che per Rousseau è nello Stato che si fa la politica e si pensa il Politico – per Rousseau lo Stato è già elemento ineludibile.
Lo Stato è necessità, non solo per uscire dalla Natura, non solo – come in altri – per un contratto che vincoli nuovamente all’arbitrio o che permetta il libero accumulo delle proprietà, bensì per inseguire un preciso fine: il Bene o interesse comune del popolo, da cui deriva che contro l’interesse del popolo non debba esistere argine alcuno, poiché chi è contro il popolo «va obbligato a essere libero» – ossia deve obbedire alla deliberazione popolare, perché libertà è obbedire alle regole che si è contributo a fondare.
Il punto nevralgico è che però, per Rousseau, il pensiero politico non deve limitarsi al ruolo di «garante» del fatto che non si morirà o verrà soppressi a causa degli interessi contrastanti – come secondo l’accordo base dei contrattualisti – bensì possa e debba avanzare pretese costituenti, fondandosi su ciò che è comune. E proprio per questo lo Stato a cui pensa Rousseau è uno stato di eguali, perché solo dove abita l’eguaglianza si possono creare i presupposti perché interessi comuni si evidenzino e affermino e si acceda così alla libertà. Solo tra eguali si può «cogliere» il compito della politica, costituito dal tentativo di conciliare l’interesse generale – la giustizia – con la legittima volontà di salvaguardare le identità individuali, la quale però diventa, al contrario, ambizione illegittima quando si fa pretesa prevaricatrice di difendere gli interessi particolari a discapito di quelli generali, vale a dire quando si fa antropologia competitiva. La dignità degli eguali è allora il «semplice» riconoscimento dell’eguale merito potenziale di tutti gli individui24, la libertà concreta raggiungibile dall’uomo «così com’è» quando, collettivamente e razionalmente, decide del proprio destino storico.

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Questa la potenza di Rousseau, l’idea che per ragionare intorno alla comunità che si fa Stato bisogna pensare, insieme, in un unico punto, l’Uno sovrano da cui si dipana il potere e la molteplicità dei singoli individui, i quali solo tramite volontà generale, ethos comune e omogeneità sociale possono agire congiunti. Il compito della politica è governare la società a partire da questo interesse comune – di cui la volontà generale è voce – senza lasciarsi travolgere da spinte centrifughe e Rousseau, in questo, è una frattura, non un sistema; è pensatore dell’emergere di un potere eternamente costituente, di una volontà continuamente «da farsi» e che sia eterna matrice della storia comune che lo Stato deve essere25. Per tenere insieme due antagonisti (marxianamente inconciliabili) come il citoyen repubblicano virtuoso e l’homme bourgeois particolarista ed egoista26, bisogna saper pensare i caratteri associativi ma anche quelli eminentemente distruttivi della dimensione politica dell’essere umano, del destino che il Politico è27. Autore debordante, Rousseau non indietreggia di fronte a uno degli epocali problemi del Moderno: l’unire il diritto e la potenza e pensare la libertà.

 

Note

1 Per quanto riguarda J.-J. Rousseau, Du contrat social, ou principes du droit politique, chez Marc Michel Ray, Amsterdam, 1762, si citerà da Il contratto sociale, trad. di J. Bertolazzi, Feltrinelli, Milano 12a ed. 2019. Verrà richiamata anche l’introduzione a tale volume, ad opera di A. Burgio.

2 «Ogni epoca crea il proprio Rousseau: lo abbiamo visto come seguace di Robespierre, come romantico, progressista, totalitario e nevrotico. Ora vorrei proporre Rousseau come antropologo», in R. Darnton, La vita sociale di Rousseau. L’antropologia e la perdita dell’innocenza, in E. Cassirer, R. Darnton, J. Starobinski, Tre letture di Rousseau, tr. di M. Albanese, A. De Lachenal, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 192. Per alcune introduzioni ormai classiche al pensiero di Rousseau in ambito italiano si vedano almeno la presentazione di P. Rossi in J.-J. Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze 1972; e anche P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari, 1974; si veda anche il recente M. Menin, Rousseau, un’illuminista inquieto, Carocci, Roma 2021.

3 Per un approccio polivalente al ginevrino, si veda Dictionnaire de Jean-Jacques Rousseau, a cura di R. Trousson e F. S. Eigeldinger, Honoré Champion, Paris 2006; e anche, in altro ambito, Rousseau et les sciences, a cura di B. Bensaude-Vincent et B. Bernardi, L’Harmattan, Paris 2003.

4 Sempre classico G. Macchia, L. De Nardis, M. Colesanti, La letteratura francese. III. Dall’Illuminismo al Romanticismo, Sansoni, Firenze 1974. Su una valutazione della «qualità» del Rousseau scrittore politico (oltre che per l’interpretazione più generale) si veda anche J. Rawls, Lectures on the history of moral philosophy, Harvard, 2007; Lezioni di storia della filosofia politica, a cura di S. Freeman, trad. di V. Ottanelli, Feltrinelli, Milano 2021, pp. 204-205.

5 S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino 2003, p. 102.

6 Ibidem.

7 Sul tema si veda Rousseau et la Révolution, a cura di J. Berchtold, J. Boudon, P. de Carbonnières, C. Hesse, C. Mazauric, A. Simonin, J. Swenson, S. Wahnich, Gallimard, Paris 2012.

8 Per una discussione finanche psicologica (ma non psicologista) su Rousseau si rimanda all’ormai classico J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau: La Transparence et l’Obstacle, Plon, Paris 1957; trad. di R. Albertini, Bologna, Bologna 1989.

9 Le differenze tra i philosophes e Rousseau non si fermano certo a questo: nell’interpretazione dei Lumi, «filosofi», «enciclopedisti», «moderati», «radicali» sono tutte categorie da maneggiare con cura. Si rimanda almeno a V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo: dizionario storico, Laterza, Roma-Bari 2007.

10 A tal fine, in alcuni tratti Rousseau distingue tra amour propre da coltivare e amour de soi indegno; sul tema si veda almeno J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., pp. 210-213.

11 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 60.

12 S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, cit., p. 102.

13 «Per la prima volta in Rousseau la diseguaglianza sociale non è solo oggetto di denuncia e di condanna morale. Al contrario essa è compresa geneticamente nella sua razionale necessità», in M. Reale, Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal «Discorso sull’ineguaglianza» al «Contratto», Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, p. 277.

14 S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, cit., p. 103-04.  Si veda anche almeno N. Bobbio, Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1965.

15 Nondimeno c’è comunque un aspetto fondamentale, in Hobbes, da salvare ad ogni costo: la cesura, da lui posta, tra stato di natura e civile – anche se poi Hobbes stesso ha finito per negarla proiettando sul primo stato le caratteristiche del secondo.

16 Sui due primi celebri discorsi di Rousseau, si veda almeno l’Introduction di J. Roger in J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes/Discours sur les sciences et les arts, Flammarion, Paris 1992.

17 Si veda la celebre interpretazione di Cassirer in E. Cassirer, Das Problem Jean-Jacques Rousseau, «Archiv für Gesichichte der Philosophie», XLI, 1932, pp. 177-213, pp. 479-513; insieme ad altre due importanti interpretazioni di Rousseau in Tre letture di Rousseau, cit. Si veda anche E. Auerbach, Sulla posizione storica di Rousseau, in Da Montaigne a Proust. Ricerche sulla storia della cultura francese, De Donato, Bari 1970, pp. 107-108; A. Burgio, Rousseau. Una teodicea postcristiana, in E. Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo, a cura di O. Catanorchi e V. Lepri, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2011, pp. 249-267.

18 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 59.

19 Ibidem.

20 A. Burgio, Introduzione, in J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 15.

21 P. Amodio, Snaturare l’uomo. Una nota su vertu e bonheur in J. J. Rousseau, in Pratiche e dissonanze della ragione politica. In ricordo di Giulio Gentile, a cura di A. Arienzo e G. Borrelli, Napoli, Bibliopolis 2018.

22 A.  Burgio, Introduzione, in J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 43

23 Impossibile non rimandare a C. Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncker & Humblot, München und Leipzig 1921; trad. di B. Liverani, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Laterza, Roma-Bari 1975.

24 Per questa linea interpretativa si rimanda qui al celebre G. Della Volpe, Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica, Editori Riuniti, Roma 1964.

25 Su un Rousseau «in prospettiva» si veda anche A. Burgio, Rousseau e gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento, DeriveApprodi, Roma 2012.

26 Chiaro qui il riferimento al Marx della Questione ebraica; si veda S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, cit., p. 113. Per una buona sintesi delle interpretazioni politico-economiche di Rousseau a A. Soboul, Lumi, critica sociale e utopia in Francia nel XVIII secolo, trad. di G. Carullo, Storia del socialismo, a cura di J. Droz, Editori Riuniti, Roma 1973. Per un orientamento assai diverso, si veda anche F. Furet, Marx et la révolution française, Flammarion, Paris 1986.

27 Su Schmitt rimando qui almeno a C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 1996; e anche a G. Giannini, Il dominio del politico. Percorsi schmittiani, Diana, Napoli 2020.

 

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