Fenomenologia, scienze e libertà. Una riflessione

Di: Marcosebastiano Patane
1 Aprile 2023

 

Crisi

In un articolo del 1955 intitolato Einstein e la crisi della ragione Merleau-Ponty scrive che se con la definizione di spirito classico si volesse intendere quel pensiero che dà per scontata la razionalità del mondo, Einstein sarebbe allora l’ultimo esponente dello spirito classico e l’esponente più radicale. Perché? Perché mentre il pensiero classico poteva contare su una infrastruttura o cartesiana, – in cui il divino sta a garante della struttura del mondo conoscibile – o idealista, per cui reale è solamente ciò che può essere pensato dal soggetto, Einstein descrive la razionalità «come un mistero e come il tema di una “religiosità cosmica”»1; una fede tanto incrollabile quanto insondabile.
Per Einstein esisteva solo questo mistero e i suoi metodi applicati in una «“maniera selvaggiamente speculativa”»2. Alla celebre conferenza del 6 aprile 1922 alla Société de philosophie de Paris Einstein, rispondendo alle obiezioni di Bergson che invocava una riconciliazione della teoria fisica con i fenomeni, disse «“non esiste dunque un tempo dei filosofi”. Solo alla scienza si deve chiedere la verità sul tempo, come su tutto il resto. E l’esperienza del mondo percepito con le sue evidenze non è che un balbettio di fronte alla chiara parola della scienza»3.
Tolta di mezzo la filosofia che dalla fatticità fenomenologica arriva alla riflessione metafisica senza mai abbandonare il mondo percettivo nella radicalità delle sue analisi, e cioè senza mai rinunciare a fondare nel mondo e nel suo divenire il pensiero e la ragione, non rimangono altro che gli strumenti di un’impresa, quella scientifica, che oggi più che mai si presentano ammantati di un alone di misticismo religioso.
Le conseguenze di una tale situazione vengono ben descritte da ciò che Mazzarella definisce come «fallacia artificialista»4 e cioè la deduzione di ciò che si deve fare da ciò che si può fare. Una vera e propria dittatura degli strumenti. Pensare, dunque, significherà «sperimentare, operare, trasformare, con l’unica riserva di un controllo sperimentale in cui intervengano solo fenomeni altamente “elaborati”, che i nostri apparecchi, più che registrare, producono»5.
Il pensiero operatorio di cui scrive Merleau-Ponty diviene con la crisi della ragione un artificialismo, la convinzione, cioè, che tutto ciò che fu, è e sarà non abbia avuto e non avrà mai altro scopo se non quello di entrare in un laboratorio, e non sia invece la scienza, linguaggio tra gli altri linguaggi, cultura tra molte altre culture, a doversi fondare sul terreno della fatticità del mondo. Una deriva che rischia di trasformare davvero l’uomo nel manipulandum6 che crede di essere e ciò grazie alla capacità di manipolare le radici biologiche di quella corporeità che Mereleau-Ponty individua con la sua ontologia fenomenologica della carne, cioè il fondamento entro cui riportare la crisi della ragione per poterla rigenerare.
L’ultra-naturalismo delle scienze dure, e cioè l’assunto metafisico di una natura in sé perfettamente esaurita dalle descrizioni delle leggi scientifiche, coincide per Merleau-Ponty con un ultra-artificialismo, e cioè l’assunto metafisico di una natura in sé perfettamente esaurita dalle manipolazioni tecniche, dalle simulazioni e dagli artefatti. Merleau-Ponty scrive, per esempio, della riduzione degli enti a devices: «Lo spirito (artificialistico) della tecnica era già presente intenzionalmente, a partire dall’esordio della scienza fisico-matematica – universo di oggetti per principio trasparenti per il soggetto […] l’universo è universo dei contructa […] le cose sono piene di “devices”.  […] “Feeding devices” degli insetti (la lingua delle farfalle che raccogliere il nettare) – o anche delle piante […] branchie e polmoni attribuito al need for go exchange surface»7. Gli strumenti della scienza non sono più mezzi di applicazione ma condizioni di applicazione, il mondo è ciò che con essi può essere fatto, tutto il resto è relegato alle fantasie del soggetto.


Scienze e metodo 

«Si comprende che le scienze hanno certamente a che fare con la verità e con la realtà ma che verità e realtà non costituiscono i loro ambiti specifici poiché il cuore delle scienze è il metodo, sono le procedure, è il come non il che»8. Nel momento in cui il pensiero contemporaneo, come sostiene Einstein alla conferenza di Parigi del 1922, ammette che solo la scienza e i suoi metodi hanno a che fare con la verità, «sul tempo come su tutto il resto», non rimane altro, se possibile, che individuare il metodo definitivo, le regole universali, l’ordine perfetto, le leggi più esatte per dedicarsi alla speculazione sul mondo. Un mondo che non viene più descritto, ma a cui si prescrive la sua natura e il suo funzionamento.
Negando i diversi registri culturali e i diversi linguaggi di altrettante società e popoli, il Wissenschaftsfanatismus di cui scrive Husserl, a cui egli oppone, come anche alle derive relativistiche dello storicismo e ai vicoli ciechi dello psicologismo, l’alternativa della fenomenologia, danneggia in primis la scienza stessa e dimostra una profonda ignoranza non solo sui contenuti scientifici delle altre discipline ma sulla stessa natura e storia del metodo scientifico e delle scoperte scientifiche. E invece quando ha dato il meglio di sé la scienza è stata un’impresa libera, anarchica, ribelle. È questa la tesi discussa e difesa da Feyerabend nel suo Contro il metodo, un volume scritto non contro la scienza ma contro il dogmatismo, contro il fanatismo  ideologico e contro chiunque voglia imporre un unico punto di vista, un’unica pratica, un’unica legge, sostenere un unico ordine per la scienza e in ultima istanza per il campo più vasto dell’impresa conoscitiva.
Feyerabend, come la fenomenologia di Merleau-Ponty, argomenta in favore di una razionalità e di una ragione fondate nel mondo e nella materia, negli enti, negli eventi e nei processi, nella contingenza pregna di significato del divenire, quella contingenza che i razionalisti timorosi del Caos9 respingono con orrore rifugiandosi nel mito di una Ragione obiettiva e universale. Un atteggiamento singolarmente condiviso, scrive Feyerabend, anche da molti anarchici politici dichiarati, che nell’obiettivismo della scienza trovano rifugio. L’anarchico, però, o, sarebbe meglio dire, «il dadaista»10, favorisce sopra ogni cosa la spontaneità della ricerca, il rifiuto di qualsiasi dogma, dubita sopra ogni cosa della serietà, del puritanesimo, della rigidità, dei valori unici e assoluti. Il dadaista sarà abile nella «difesa di programmi per dimostrare il carattere chimerico di ogni difesa»11. Il dadaista opera con il sorriso e con la leggerezza.
Al contrario del racconto che ne viene fatto, per la pratica scientifica la relazione con l’esperienza è sempre oscura. L’accordo tra teorie e dati, infatti, è legato profondamente alla proliferazione di ipotesi ad hoc, dalla forza con cui i sostenitori di una tesi riescono a imporre la propria opinione alla comunità scientifica, dalla qualità dei trucchi retorici e propagandistici utilizzati. E del resto, le ipotesi ad hoc possono giocare un ruolo a favore del progresso della conoscenza (in qualsiasi modo, avverte Feyerabend, si voglia intendere la parola progresso), il sacrificio dell’esperienza può portare a scoperte innovative, insistere su ipotesi apparentemente sterili dal punto di vista empirico può aprire prospettive feconde in altri campi.
L’esempio più discusso da Feyerabend in Contro il metodo è certamente il passaggio dalla cosmologia tolemaica alla teoria copernicana e in particolare l’analisi dell’operato di Galileo. Feyerabend descrive Galileo come un abile propagandista e un esperto politico; egli, infatti, non mise mai in discussione le osservazioni empiriche, che nella gran parte dei casi dovevano cadere dalla parte della cosmologia tolemaica, quanto il discorso sulle osservazioni. Galileo, spiega infatti Feyerabend, è il portatore di un nuovo linguaggio, di un nuovo modo di vedere e interpretare i fenomeni, meno supportato da osservazioni empiriche ma molto più speculativo, più debole da un punto di vista filosofico ma pronto a mettere in discussione ogni convinzione in favore di osservazioni particolari.
Ben lungi dall’essere il fulgido esempio del metodo scientifico basato sull’osservazione dei fatti, la formulazione di teorie in accordo con i fatti osservati e sulla ripetibilità, e pubblicità delle prove e delle predizioni, la scienza moderna nacque sul fondamento di uno shift culturale che ha reso possibile   l’affermazione di un nuovo linguaggio, quello scientifico, e di una nuova cultura, quella del materialismo scientifico12. La rivolta contro l’iper-razionalismo medievale, una nuova attenzione per gli strumenti e la pratica manuale, l’idea di infinito derivante dalla tradizione giudaico-cristiana13; «Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici»14.
Cosa significa inventare un’esperienza? Significa vedere diversamente, toccare diversamente, percepire diversamente, significa rimodulare il proprio punto di vista e, infine, avere accesso a un altro mondo, significa essere posseduti da altre parole, altri racconti, significa una diversa estetica e un diverso modo di abitare il mondo. La possibilità del senso è inscritta nel dna del corpomente e del suo rapporto con la natura, gli altri esseri viventi e la sua storia, è inscritta nella pluralità delle sue secrezioni, cioè delle molteplici forme della sua cultura, incarnazioni che vivono del rapporto con l’Essere e la sua luce che illumina e nasconde.
Un indigeno si inoltra nella foresta, percorre sentieri conosciuti e sconosciuti, guada fiumi, caccia, si riposa, marcia; alla fine delle sue attività ritorna a casa, al villaggio. L’indigeno non ha idea alcuna dello spazio oggettivo, lo spazio geometrico delle scienze, che per la cultura permeata dalle ontologie scientifiche dovrebbe fondare ogni rapporto spaziale. Al contrario, per l’indigeno è il villaggio stesso la fonte di ogni orientamento, «esso è il punto di riferimento cui fanno capo tutti gli altri -, significa tendere verso di esso come il luogo naturale di una certa pace o di una certa gioia, allo stesso modo in cui, per me, sapere dov’è la mia mano significa congiungermi a questa potenza agile momentaneamente assopita, ma che posso assumere e ritrovare come mia […] Nel sogno come nel mito, veniamo a conoscere dove si trova il fenomeno sentendo verso che cosa va il nostro desiderio, che cosa il nostro cuore teme, da che cosa dipende la nostra vita»15.
Completamente sconosciuto a chi lo studia e a chi ne parla, «il vodù ha una base materiale solida, anche se non ancora compresa a sufficienza, e uno studio delle sue manifestazioni poterebbe essere usato per arricchire, e forse anche rivedere, la nostra conoscenza della fisiologia»16. Che si tratti di antropologia, di mitologia, di botanica, di archeologia, spiega Feyerabend, l’ignoranza delle più elementari nozioni fisiche, mediche o storiche (come, del resto, l’assenza di qualsiasi forma di analisi filosofica) che caratterizza gli studiosi di tali settori continua a ostacolare il disvelamento del contenuto scientifico di quelle culture che non sposano l’obiettivismo scientista.
«Dopo le scoperte di Hawkins, di Marshack e di altri, dobbiamo ammettere l’esistenza di un’astronomia paleolitica internazionale che dette origine a scuole, osservatòri, tradizioni scientifiche e a teorie molto interessanti. Queste teorie, che furono espresse in termini non matematici bensì sociologici, hanno lasciato tracce di sé in saghe, miti, leggende»17. Non con il linguaggio dei numeri ma con le parole della poesia e del mito, con gli strumenti del racconto orale; il contenuto scientifico è rintracciabile in tutte le discipline e in tutti i linguaggi della cultura umana, poiché, da sempre, tutti i popoli hanno pensato. Il principio epistemologico fondamentale individuato da Feyerabend, allora, non poteva che suonare così: «Tutto può andar bene»18.


Senso e non senso

Un punto di vista, un’idea, un’ipotesi che «ci piaccia per qualche ragione»19, merita sempre un po’ di respiro e di spazio, merita di essere lasciata in pace dalle norme abituali, dalle regole e dai loro epigoni, spesso e volentieri semplicemente un gruppo di persone che non vuole rinunciare alle proprie posizioni per motivi di prestigio sociale, per motivi politici, per motivi economici, come per esempio la perdita di sostanziosi finanziamenti, o la prospettiva di un premio.
Nessun principio o constatazione dovrebbe mai intaccare questa pratica di tolleranza, nessuna contraddizione interna, nessuna discrepanza tra teoria e osservazioni, nessuno scollamento con altri risultati sperimentali. Come sempre, Feyerabend, qui in accordo con alcune tesi di Lakatos, fornisce diversi esempi: «Mancanza di contenuto: la teoria atomica nel corso della storia; l’idea del moto della Terra di Filoao; incoerenza: il programma di Bohr […] massiccio conflitto con risultati sperimentali: l’idea del moto della Terra»20.
L’analisi di Feyerabend conduce a risultati sorprendenti: «Qualsiasi scelta dello scienziato è razionale»21, motivo per cui prendendo per buoni gli standard di Lakatos e la sua definizione di ragione, una ragione che non guida direttamente l’azione dello scienziato ma fornisce la terminologia per descrivere e i risultati, essi non hanno alcun valore euristico. Ancora una volta un affrancamento dai dogmi e dalle gabbie della metodologia, ancora una volta «tutto può andar bene».
Per l’anarchismo metodologico di Feyerabend valgono le parole di Hans Richter: «“La presa di coscienza del fatto che ragione e anti-ragione, senso e non senso, intenzionalità e caso, coscienza e inconscio [e, aggiungerei, umanitarismo e non umanitarismo] formano tutt’uno, come parte necessaria di un tutto: questo fu il messaggio centrale del dadaismo”»22.
In maniera del tutto comparabile con il ragionamento di Feyerabend, Merleau-Ponty scrive nell’introduzione di Senso e non senso: 

Dall’inizio del secolo, molti libri importanti hanno espresso la rivolta della vita immediata contro la ragione. Hanno detto, ciascuno a suo modo, che mai le sistemazioni razionali d’una morale, d’una politica, o anche dell’arte, avranno valore contro il fervore dell’istante, l’esplodere di una vita individuale, la “premeditazione dell’ignoto“ […] persino le nostre matematiche hanno cessato di essere lunghe concatenazioni razionali. Gli esseri matematici si lasciano cogliere solo mediante procedimenti obliqui, metodi improvvisati, altrettanto opachi che un minerale sconosciuto. Piuttosto che un mondo intellegibile, esistono fulcri sfavillanti separati da zone di notte […] nell’opera d’arte o nella teoria come nella cosa sensibile, il senso è inseparabile dal segno. L’espressione, dunque, non è mai compiuta. La più alta ragione confina con la non-ragione23.

Il riconoscimento della commistione tra ragione e non-ragione, più in generale senso e non-senso, non conduce all’irrazionalismo ma un’idea più profonda della ragione e del senso, così come della scienza e dei suoi metodi. Allo stesso modo, l’anarchismo metodologico non conduce alla disintegrazione della scienza ma al riconoscimento della complessità dei suoi contenuti e dunque alla necessità dell’adozione di un metodo quanto più aperto, aperto alla Differenza che il mondo manifesta e che la diversità delle culture e dei linguaggi attesta.
Ciò risulta evidente quando a essere confrontate non sono solamente delle teorie scientifiche ma delle vere e proprie cosmologie, cioè gli assunti metafisici fondamentali appartenenti a diverse culture nel corso di altrettanti periodi storici. Da tali confronti emerge una caratteristica fondamentale: i linguaggi, i codici culturali, le cosmologie delle diverse culture succedutesi storicamente, o nel corso dello stesso arco temporale, sono incommensurabili.
Così come la percezione e i linguaggi, le loro grammatiche, anche le teorie scientifiche ricadono nella categoria dell’incommensurabilità. Regolarità di natura, percettive, mentali, sociologiche, «non c’è una disciplina singola – LA LOGICA – in grado di rivelare la struttura logica di questi campi. C’è Hegel, cioè Brouwer, ci sono i formalisti. Essi offrono non soltanto interpretazioni diverse di una medesima massa di “fatti” logici, ma “fatti” diversi in generale», senza contare che «ci sono proposizioni che svolgono un ruolo importante in discipline scientifiche affermate e che sono adeguate a livello dell’osservazione soltanto se sono autocontraddittorie»24.
E d’altronde quale metodo universale finalizzato alla raccolta di fatti (ma quali fatti?) quale logica generalizzata (ma quale logica?) potrebbe avere «un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. A ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili»25.


«The winds of freedom»

Il successo delle idee e delle conclusioni della scienza moderna «ha consolidato negli scienziati il rifiuto a modificarle in conseguenza di un’analisi della loro razionalità»26. L’abbandono dell’analisi filosofica dei presupposti metafisici delle scienze, la ricerca ossessiva del Vero metodo, dell’Unico metodo, l’attrazione irresistibile verso la costruzione di un sistema fuori dal quale nulla è davvero reale, l’abbandono del pensiero fondato nel mondo in favore di una fede negli strumenti e nei loro risultati altamente manipolati (e manipolabili), nelle possibilità operatorie e nelle ricadute materiali delle applicazioni tecniche, ha condotto a una «mescolanza di cieca necessità e artificialismo, indistinzione natura-finalità artificialistica; cfr. cibernetica: idea di macchine costruite da noi è che pensano meglio di noi […] riduzione dell’essere vero all’essere costruito, artificialismo estremo»27.
Una delle manifestazioni più pericolose di questa deriva è la solida saldatura verificatasi tra potere tecnico-manipolatorio e potere politico, qualcosa di assai simile alla storica saldatura tra Stato e religione dei secoli passati. Tale pericolosità si è mostrata pienamente nella vicenda della gestione della diffusione del virus SARS-CoV-2 da parte di numerosi Stati a regime democratico. Tra le innumerevoli vittime di tale gestione, infatti, una delle più importanti è stata certamente la ricerca scientifica e la libertà di espressione, compromesse proprio in quei luoghi in cui dovrebbero essere maggiormente tutelate: le università.
In un articolo pubblicato sul sito tabletmag.com datato 11/1/2023, uno dei principali firmatari della Great Barrington Declaration, il Prof. Bhattacharya, documenta la propria esperienza a partire dalla sottoscrizione della GBD nell’autunno del 2020.

If you had asked me in March 2020 whether Stanford had an academic freedom problem in medicine or the sciences, I would have scoffed at the idea. Stanford’s motto (in German) is “the winds of freedom blow,” and I would have told you at the time that Stanford lives up to that motto. I was naive then, but not now. […] We wrote the GBD to tell the public that there was no scientific unanimity about the lockdown28. 

La risposta di giornali e università, dopo un primo, breve, momento di interesse, fu l’ostracismo, l’accusa di voler mettere a rischio la vita delle persone, la calunnia e, naturalmente, l’eresia: 

It was at first quite perplexing to be the target of what turned out to be a well-organized, government-sponsored campaign of smears and suppression of scientific argument and evidence […] press outlets somehow turned Gupta, Kulldorf, and me into tools of a nefarious plot to destroy the world by spreading “disinformation” that would cause mass death. […] Stanford University receives hundreds of millions of dollars of funding from the NIH, without which researchers would not have the resources to conduct many worthwhile experiments and studies. NIH funding also confers prestige and status within the scientific community […] the attack by Collins and Fauci sent a clear signal to other scientists that the GBD was a heretical document29.

Tutto questo è davvero sorprendente? A proposito della scienza del XX secolo Feyerabend scriveva della sua rinuncia a ogni pretesa filosofica e la sua metamorfosi in un’attività economica che plasma e condiziona l’attività mentale dei suoi addetti, dei risultati del passato usati come una clava per intimidire e sottomettere gli eretici, del posto di lavoro e della remunerazione, del prestigio e della gratificazione personale come uniche prospettive, della considerazione del prossimo pressoché eliminata: «“Il desiderio di alleviare la sofferenza ha poco valore nella ricerca”, scrive un moderno Frankenstein, il dottor Szentgyorgy […] “una persona che nutrisse tali sentimenti dovrebbe essere consigliata a lavorare per beneficenza. La ricerca ha bisogno di egoisti, di dannati egoisti, che ricerchino il loro piacere la loro soddisfazione ma che lo trovino nel risolvere rompicapo della natura”»30. Sembra quasi di sentire l’eco delle urla disperate del dott. Semmelweis.
È dunque necessario, vitale, per gli umani del XXI secolo tornare ancora una volta a servirsi della propria ragione, educare al pensiero indipendente, educare a pensare e non a essere addestrati a un’ideologia, a un metodo, a un ragionamento, a un sistema intoccabili. Certamente l’impresa non è semplice, soprattutto per le società autoproclamatesi avanzate. «Gli indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone, conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionati dall’educazione pubblica, fanno da soli […] la speranza di diventare potenti e ricchi di cui i bianchi s’ingozzano, quella non costa niente, assolutamente niente. Che non ci vengano più a decantare l’Egitto e i Tiranni tartari! Quei dilettanti antiquati erano solo dei pataccari pretenziosi nell’arte suprema di far spremere alla bestia verticale il massimo sforzo sul lavoro. Non sapevano, quei primitivi, chiamare “Signore” lo schiavo, e farlo votare di quando in quando, né pagargli il giornale, né soprattutto portarselo in guerra, per fargli sbollire le passioni»31. Non si dovrebbero temere, allora, le conseguenze del pensare diversamente.


Note
1 M. Merleau-Ponty, Segni (Signes, 1960), trad. di A. Alfieri, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 221.
2 Ibidem.
3 Ivi, p. 226.
4 E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet, Macerata 2017, p. 11.
5 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (L’Œil et l’Esprit, 1960), trad. di A. Sordini, SE, Milano 1989, p. 13.
6 Ivi, p. 15.
7 M. Merleau-Ponty, È possibile oggi la filosofia? Lezioni al Collège de France 1958- 1959 e 1960-1961 (Notes de cours. 1959-1961, 1996), trad. di P. Parrachini e A. Pinotti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 10-11.
8 A.G. Biuso, Epistemologia e filosofia della scienza, in «Vita Pensata», anno XI n. 25, luglio 2021, p. 95.
9 P.K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (AGAINST METHOD. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975), trad. di L. Sosio, Feltrinelli Editore, Milano 2022, p. 148.
10 Ivi, p. 19.
11 Ivi, p. 29.
12 A.N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno (Science and the Modern World, 1926), trad. di A. Banfi, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 36.
13 Cfr. M. Merleau-Ponty, La natura (La nature, 1995), trad. di M. Mazzocut-Miss e F. Sossi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.
14 P.K. Feyerabend, Contro il metodo, cit., p. 77.
15 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (Phénoménologie de la perception, 1945), trad. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2015, p. 374.
16 P.K. Feyerabend, Contro il metodo, cit., p. 42.
17 Ibidem.
18 Ivi, p. 25.
19 Ivi, p. 150.
20 Ibidem.
21 Ivi, p. 152.
22 Ivi, p. 156.
23 M. Merleau-Ponty, Senso e non senso (Sens et non-sens, 1962), trad. di P. Caruso, il Saggiatore, Milano 2009, pp. 21-22.
24 P.K. Feyerabend, Contro il metodo, cit., p. 214.
25 Ivi, p. 244.
26 A.N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, cit., p. 36.
27 M. Merleau-Ponty, È possibile oggi la filosofia?, cit., p. 11.
28 https://www.tabletmag.com/sections/arts-letters/articles/stanford-failed-academic-freedom-test
29 Ibidem.
30 P.K. Feyerabend, Contro il metodo, cit., p. 154.
31 L.F. Céline, Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1952), trad. di E. Ferrero, Corbaccio, Varese 2017, p. 159.

 

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