Oltre Rawls. Il principio di equità transgenerazionale*

Di: Tiziana Andina
1 Aprile 2023

 

La questione del cambiamento climatico è un problema di giustizia particolarmente interessante per la sua natura esemplare. Illustra soprattutto due cose: in primo luogo, che i problemi di giustizia sono questioni complesse che non possono essere facilmente affrontate senza tenere conto della variabile temporale e, quindi, senza affrontare le questioni di asimmetria tra le parti che la temporalità determina. In circostanze in cui due parti si trovano in una relazione asimmetrica, è impossibile intendere la giustizia come una forma di compensazione1, non solo perché, come nota Socrate, la pura compensazione non è sempre giusta, ma soprattutto perché i rapporti diacronici comportano relazioni complesse. L’impossibilità della reciprocità è ulteriormente complicata dal potere che una parte può esercitare sull’altra. Nel caso specifico delle relazioni transgenerazionali, si tratta del potere che le generazioni attuali possono esercitare sulle entità future: mentre quando subiamo un danno da un amico siamo generalmente in grado di chiedere una qualche forma di risarcimento, nel caso di relazioni tra soggetti che vivono in tempi diversi, non solo tale risarcimento non è possibile, ma il contenuto sostanziale degli atti ingiusti non può essere cancellato, cioè non è possibile riavvolgere il nastro del tempo.
Prendiamo, ad esempio, uno Stato che per un certo periodo di tempo ha immesso a piacimento nell’ambiente una grande quantità di Co2 per promuovere lo sviluppo del proprio sistema economico e, quindi, aumentare la ricchezza e la qualità della vita dei propri cittadini. Come ormai sappiamo, l’effetto collaterale di questa scelta è un progressivo e forse irreversibile deterioramento dell’ambiente e del clima in cui vivranno le generazioni future. In altre parole, il potere di scelta e di azione di cui hanno goduto e continuano a godere alcune generazioni in una certa fase storica può compromettere definitivamente il potere di scelta e di azione di altre generazioni in una fase successiva. Questa situazione, intuitivamente, appare ingiusta per almeno due motivi: in primo luogo, perché, nonostante i dati che la scienza ha accumulato a partire dalla seconda metà del Novecento, l’esercizio del potere attraverso il compimento di azioni utilitaristiche da parte di alcune generazioni non ha incontrato limiti a tutela delle generazioni future. In secondo luogo, perché sembra plausibile che ci siano cose – e l’ecosistema è tra queste – che rappresentano la condizione di possibilità di vita per tutti e che per questo non sono a completa disposizione di nessuno.
Qualcuno, pur concordando con quanto detto, potrebbe obiettare che le generazioni future non possono essere considerate oggetto dei nostri atti di giustizia, poiché sono di fatto entità fittizie che non esistono nel tempo e nello spazio. Ho cercato di rispondere a questa obiezione altrove2; in questa sede, tuttavia, vorrei concentrarmi sulla questione della giustizia e sviluppare alcune considerazioni di carattere sia morale che politico. Assumendo che l’utilitarismo sia una teoria inefficace per rispondere ai problemi di giustizia climatica, e sia dunque, a maggior ragione, inadatto in una più ampia prospettiva intergenerazionale3, possiamo aspettarci un aiuto dalle teorie neo-contrattualiste? Ovvero, possiamo aspettarci un aiuto significativo dallo sviluppo di posizioni neo-contrattualiste, che non intendono basarsi sulla massimizzazione del profitto individuale? E se sia l’utilitarismo sia il neo-contrattualismo si rivelano teorie inefficaci per affrontare le sfide della transgenerazionalità, quali altre opzioni abbiamo per promuovere l’equità transgenerazionale? Nelle pagine che seguono, sosterrò che il modello neo-contrattualista non è adatto a ragionare su questioni transgenerazionali, anche indipendentemente dall’assunzione di un’opzione utilitaristica, proprio perché esclude il tempo dalla sua modellizzazione.

 

1 Una giustizia che non basta. La teoria rawlsiana alla prova della transgenerazionalità

Come è noto, le riflessioni che John Rawls articola sia in Una teoria della giustizia (1971) sia in una serie di scritti successivi4, si misurano – sebbene in modo piuttosto marginale – anche con i problemi di giustizia transgenerazionale, cioè con la forma che deve assumere il rapporto di giustizia tra generazioni diverse.
Ritengo che la teoria rawlsiana mostri in modo esemplare l’inadeguatezza del concetto di giustizia e delle teorie basate sulla cooperazione nell’affrontare la questione delle relazioni transgenerazionali e delle loro condizioni di equità5. In altre parole, ritengo che vi siano limiti intrinseci al concetto di giustizia così come viene trattato dalle teorie della giustizia basate sulla cooperazione, che non consentono di affrontare in modo convincente le principali implicazioni delle relazioni transgenerazionali.
Pertanto, concluderò che, di fronte ai problemi della transgenerazionalità, non possiamo limitarci alla giustizia, ma sembra ragionevole fare riferimento a un insieme più ampio di principi, tra cui quello della responsabilità transgenerazionale.

1.1 La transgenerazionalità in una teoria della giustizia
La teoria rawlsiana è una teoria normativa. Ciò significa che, partendo da considerazioni filosofico-antropologiche sulla natura dell’uomo, Rawls descrive le relazioni di giustizia come dovrebbero essere in una società ideale. Una teoria della giustizia intende determinare i principi su cui dovrebbero basarsi le relazioni sociali per dare vita a società dignitose. La domanda è quindi, grosso modo, questa: cosa può dirci una teoria ideale della giustizia sulle relazioni asimmetriche? Non molto, purtroppo.
Il sistema sociale ideale descritto da Rawls presenta alcune caratteristiche: è chiuso, esteso nel tempo e isolato dalle altre società6. Una sorta di bolla, insomma. La bolla è popolata da individui che presentano determinate caratteristiche – ad esempio, sono disposti a cooperare e non sono soggetti alla pressione dei bisogni primari, poiché la bolla gode di un ambiente economico abbastanza favorevole. In altre parole, le risorse non sono sovrabbondanti, né ugualmente disponibili per tutti, ma nemmeno eccessivamente scarse. Ciò significa che gli abitanti della bolla non vivono una lotta per la sopravvivenza. Inoltre, esiste un sistema di valori neutro e plurale. Gli abitanti della società rawlsiana hanno visioni del mondo e convinzioni diverse, ad esempio per quanto riguarda i valori morali. In questo contesto, l’equilibrio sociale e politico è garantito da due elementi. Innanzitutto, le caratteristiche degli individui che abitano la bolla: sono persone razionali che, in linea di principio, fanno la scelta più vantaggiosa; e sono ragionevoli, cioè sono disposti, in determinate circostanze, a rinunciare al proprio profitto immediato purché gli altri abitanti condividano lo stesso atteggiamento. Ciò significa che sono disposti a rinunciare alla massimizzazione del profitto in ogni circostanza.
Un secondo elemento che garantisce la stabilità politica e sociale è la capacità degli individui di cooperare, idealmente anche tra generazioni diverse7. Affinché la bolla possa sopravvivere nel tempo, cioè affinché i suoi abitanti possano vivere in pace e benessere, la cooperazione deve essere pensata anche in senso diacronico, cioè tra generazioni diverse.
Nel contesto rawlsiano, proprio come nel caso della morale kantiana, le generazioni future giocano un ruolo eminentemente strumentale e regolativo: sappiamo che un giorno esisteranno, faranno parte della società e contribuiranno ai processi di deliberazione; quindi se una società accetta i principi di giustizia che ha deliberato e i cittadini accettano di applicarli rigorosamente, le generazioni future parteciperanno a un processo di attuazione della giustizia in cui saranno sostanzialmente protette. In altri termini, ogni abitante della bolla collaborerebbe alla realizzazione della giustizia, cooperando in un processo inclusivo in cui tutti – nel presente e nel futuro – possono aspirare a vivere in (maggiore) equità. L’impegno per la realizzazione della giustizia garantirebbe quindi non solo le generazioni presenti, ma anche quelle future.
Purtroppo, questa visione non è priva di limiti, Innanzitutto per alcune condizioni che Rawls postula nella sua teoria ideale. Cerchiamo innanzitutto di capire più nel dettaglio qual è la funzione – se c’è – delle generazioni future all’interno dell’economia di vita della bolla rawlsiana:

Ogni generazione non solo deve preservare le conquiste della cultura e della civiltà e mantenere intatte le istituzioni giuste che sono state create, ma deve anche mettere da parte, in ogni periodo di tempo, una quantità adeguata di accumulazione di capitale reale. Questo risparmio può assumere varie forme, dall’investimento netto in macchinari e altri mezzi di produzione all’investimento nell’apprendimento e nell’istruzione8.

In Una teoria della giustizia leggiamo che ogni generazione ha due compiti, uno – per così dire – conservativo, l’altro espansivo. Le generazioni future devono preservare ciò che è stato acquisito in termini di progresso culturale e di civiltà, stabilizzando ciò che è stato acquisito dalle generazioni precedenti, e mantenere intatte le istituzioni che sono state create. Il secondo compito, invece, ha un carattere espansivo, quindi non assume la forma della capitalizzazione ma dell’investimento e, forse, del dono. Ogni generazione, infatti, deve adempiere alla missione di accantonare una quantità adeguata di capitale da investire in beni che non sono necessariamente di uso immediato. Questo accantonamento può assumere varie forme: può essere, ad esempio, un investimento in strumenti di produzione o un investimento in conoscenza e istruzione. Quel che è certo è che sembra difficile interpretarlo solo in termini di giustizia, cioè di ciò che una generazione deve trasmettere o restituire a un’altra; piuttosto, sembra ragionevole che si entri in una logica del dono, cioè di ciò che una generazione dà alle altre con l’obiettivo di migliorare il loro futuro.
Ora, nel quadro humeano delle condizioni di giustizia che Rawls accetta senza modifiche sostanziali, sia il compito conservativo che quello espansivo sono effettivamente problematici9. Secondo Hume, infatti, affinché si verifichi una condizione di giustizia devono essere presenti tre circostanze: a) una moderata scarsità di risorse; b) un moderato egoismo delle parti; c) la loro relativa uguaglianza10. Queste tre condizioni, prese insieme, dovrebbero favorire la creazione di condizioni di giustizia. In effetti, possiamo aspettarci che una moderata scarsità di risorse spinga la cooperazione a ottimizzare la produzione e la distribuzione; che un moderato egoismo renda possibile la riconfigurazione di alcuni obiettivi personali in obiettivi più generali; e infine che la relativa uguaglianza delle parti renda possibile la formulazione di principi di giustizia equi.
Tuttavia, la terza condizione – l’uguaglianza relativa tra le parti – se applicata a relazioni asimmetriche è problematica, poiché, ovviamente, persone che vivono in tempi diversi incontrano condizioni storiche, culturali e ambientali diverse. Ammettendo quindi che queste condizioni siano di solito relativamente o sostanzialmente diverse, la condizione più generale di uguaglianza tra le parti sembra di fatto impossibile da raggiungere. Supponiamo, ad esempio, che una certa generazione G preceda una generazione G1 in termini di tempo. È ovvio che la generazione G sarà in grado di fare scelte che hanno un impatto significativo sulla qualità della vita di G1; al contrario, G1 non è in grado di determinare retroattivamente la qualità della vita di G. Quindi, in molte circostanze, non può esserci reciprocità tra le generazioni e questo costituisce un problema per qualsiasi teoria della giustizia, compresa la teoria della giustizia come equità11.
C’è un secondo argomento che riguarda l’esperimento mentale utilizzato da Rawls per determinare i principi di giustizia noto come “posizione originaria”12 . Gli individui nella posizione originaria sono contemporanei, cioè vivono tutti nello stesso periodo di tempo13, e sono inconsapevoli delle caratteristiche della generazione a cui appartengono: non sanno se è ricca o povera, se le generazioni precedenti hanno accantonato denaro per il suo benessere e così via. Questa assunzione non è casuale: Rawls avrebbe potuto assumere, ad esempio, che la bolla contenesse i rappresentanti di tutte le generazioni o, forse, per renderla meno affollata, un rappresentante per ogni gruppo di generazioni contigue. Il motivo per cui non sceglie questa soluzione è in fondo abbastanza semplice e fa appello al buon senso. Un esperimento che preveda la coesistenza di individui di epoche totalmente diverse sarebbe difficile da concepire e richiederebbe uno sforzo eccessivo. Sceglie quindi di escludere la proprietà14 temporale. Questa decisione ha una conseguenza importante: se assumiamo che le generazioni siano contemporanee, ci priviamo della possibilità di intervenire sul tasso di risparmio. Questo perché tutte le generazioni entrano nella bolla nello stesso momento x in cui si verificano determinate condizioni, uguali per tutti. In un simile contesto non ha senso che gli abitanti si impegnino a investire o ad accantonare risorse per le generazioni future. La situazione sarebbe diversa se, non avendo idea del momento storico in cui si trovano paracadutati, gli abitanti della bolla scoprissero che è possibile che qualcuno nasca in una fase in cui le generazioni precedenti hanno perseguito il loro massimo profitto. Se Rawls avesse connotato la sua bolla di temporalità avrebbe determinato una condizione in cui gli abitanti sarebbero tenuti a pensare al futuro perché, ipoteticamente, non potrebbero contare sull’equivalenza delle condizioni materiali in tutte le fasi della vita all’interno della bolla. In questo contesto, ogni individuo nella posizione originaria finisce per agire in funzione del suo massimo profitto; in altre parole, sceglie razionalmente di seguire regole che lo avvantaggiano, senza necessariamente preoccuparsi di ciò che accadrà alle generazioni future.
Per evitare questo paradosso, che indica la debolezza del neo-contrattualismo di fronte ai problemi della transgenerazionalità, Rawls introduce un elemento piuttosto estraneo alla teoria nel suo complesso. Suggerisce di considerare gli individui nella posizione originaria non solo come agenti razionali, ma anche come rappresentanti di specifiche linee familiari: veri e propri capifamiglia che, in quanto tali, avranno interesse a proteggere i propri discendenti. Ciò che Rawls cerca di fare è fornire almeno una salvaguardia minima alla transgenerazionalità, riconoscendo la funzione del legame biologico. I genitori hanno ragioni affettive per occuparsi del futuro dei loro figli, ed è un fatto che la protezione della transgenerazionalità primaria fa parte della dotazione biologica di molte specie, oltre a quella umana. Se questo è vero, si può anche immaginare che ogni generazione metta in atto pratiche per proteggere la transgenerazionalità biologica e il legame parentale. Per il resto, Rawls ipotizza che gli interventi sul tasso di risparmio dipendano dal livello di ricchezza di una società: le generazioni che si trovano in situazioni di relativa povertà saranno chiamate a mettere da parte meno; coloro che possono fare di più saranno chiamati a contribuire con un tasso maggiore di risparmio.
Ora, questo ragionamento solleva almeno due criticità. Per quanto riguarda la transgenerazionalità primaria, esiste un elemento di oscurità o di indeterminatezza nel legame tra genitori e prole. Sebbene sia ragionevole pensare che nella maggior parte dei casi i padri (o le madri) si preoccupino di proteggere i propri figli proteggendo anche, per quanto possibile, l’ambiente in cui vivranno, non è sempre così. È evidente che Rawls consideri la transgenerazionalità un aspetto meno importante della normatività generale che costruisce attraverso la sua teoria generale. L’approccio rawlsiano presenta almeno due problemi fondamentali: in primo luogo, affida la tutela dei legami transgenerazionali alla buona volontà di ciascuno e all’esercizio di una sorta di etica della virtù. In secondo luogo, presuppone che tutti i genitori amino i figli più di se stessi, il che ovviamente non è vero in tutti i casi. L’amore tra genitori e figli non è quindi spendibile in una teoria della scelta razionale, perché mina l’assunto dell’interesse personale15.
In secondo luogo, se è possibile – anche se non certo – che i genitori tutelino la vita, la salute e il futuro dei propri figli, è abbastanza utopico pensare che una comunità tuteli la vita, la salute e il futuro delle generazioni a venire, se non c’è una costrizione ad agire (o a non agire), cioè se non c’è un contesto normativo che accompagni e rafforzi le decisioni individuali e istituzionali. Questo perché la transgenerazionalità primaria ha generalmente uno spettro di interesse limitato a figli e nipoti, mentre raramente copre un arco temporale più ampio. D’altra parte, la questione climatica è un problema globale che può essere affrontato solo attraverso una diffusa cooperazione. Tale cooperazione non può che andare oltre gli interessi nazionali. Pertanto, la motivazione dei legami parentali o familiari difficilmente può giustificare un risparmio equo a livello transgenerazionale e cosmopolita.
Gli aspetti più inesplorati della transgenerazionalità riguardano quindi la dimensione temporale che appartiene a coloro che esisteranno molto dopo di noi. In Liberalismo politico, Rawls torna sulla questione proponendo una strategia diversa: l’idea rimane quella di preservare l’accesso temporalmente indifferenziato alla situazione originaria con l’obiettivo di rafforzare il velo di ignoranza. Propone quindi che nella posizione originaria si accetti di accantonare, sulla base di un principio che possa essere seguito da tutte le generazioni, quelle che idealmente hanno preceduto e quelle che seguiranno16. È chiaro, però, che un tale principio è estremamente difficile da formulare proprio perché la questione transgenerazionale impegna la temporalità non in senso astorico, ma come tempo storicizzato in cui gli esseri umani esercitano la loro capacità di azione.

 

2 Il principio di equità transgenerazionale

Se riteniamo che ci siano buoni argomenti per considerare inefficace l’approccio rawlsiano e se, allo stesso tempo, siamo dell’idea che è imprescindibile affrontare le questioni legate alla transgenerazionalità, dovremmo concludere almeno tre cose. In primo luogo, che è urgente riflettere sulle misure correttive da applicare al neo-contrattualismo, che, almeno nella versione rawlsiana, è inadatto a trattare le questioni transgenerazionali poiché non integra la temporalità nel suo modello. In secondo luogo, che l’utilitarismo non è adatto ad affrontare i problemi aperti dal cambiamento climatico e questo ci dà buone ragioni per credere che non sia la strategia più adatta nemmeno per discutere le questioni transgenerazionali. Infine, dovremmo anche considerare la possibilità di riconfigurare l’ontologia in modo tale che le categorie di movimento e differimento prevalgano su quelle più classiche di permanenza e sostanza. La transgenerazionalità secondaria implica infatti due cose: il riferimento costante a una certa dimensione della temporalità, il futuro17, e il ricorso sistematico a una particolare entità fittizia, le generazioni future. Le generazioni future sono una delle entità che popolano l’ontologia del tempo futuro – se ne potrebbero citare altre, come il clima o il bioma futuri. Dal punto di vista dell’ontologia e per quanto riguarda la questione della temporalità, piuttosto che privilegiare la tradizionale divisione del tempo in segmenti distinti, presente, passato e futuro, si tratta di considerare il tempo come ciò che perdura e di intendere il futuro come ciò che esiste pur non avendo una forma determinata. Il futuro, quindi, esiste in modo diverso dal passato e dal presente.
La ricerca e il dibattito sui cambiamenti climatici si concentrano per lo più sul presente e sul passato, cioè su ciò che sta accadendo ora e su ciò che è accaduto, approssimativamente, nell’ultimo secolo, partendo dal presupposto che le azioni che hanno danneggiato o stanno danneggiando il clima e l’ambiente sono state compiute da diversi agenti in un arco di tempo piuttosto lungo. Ciò significa che qualsiasi analisi delle cause del cambiamento climatico si misura ipso facto con il concetto di responsabilità nel tempo. Per questo motivo, si parla di responsabilità cumulative in una duplice accezione: sia nel senso che tali responsabilità devono essere attribuite a una molteplicità di attori pubblici e privati, sia nel senso che risalgono a diverse fasi storiche. Questa stratificazione deve essere presa in considerazione dalle istituzioni internazionali e dai responsabili politici per prendere decisioni più eque per la gestione del cambiamento climatico. Le responsabilità cumulative si riferiscono generalmente al passato e presentano di per sé un buon grado di complessità. Tuttavia, la questione climatica non riguarda solo ciò che è già stato fatto, ma ci pone anche una sfida per il futuro, ossia per le azioni di mitigazione che devono essere intraprese per arrestare il progressivo deterioramento del clima e dell’ambiente.
Lo strumento più utilizzato dalla diplomazia internazionale per ragionare sulle azioni e sulle responsabilità globali è il principio delle responsabilità condivise ma differenziate. Questo principio è stato formulato esplicitamente alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio nel 1992 e nota come Summit della Terra. Si basa su quattro capisaldi: responsabilità storica, equità, capacità e vulnerabilità. La responsabilità storica è finalizzata a ricostruire il passato e a determinare nel modo più preciso possibile le responsabilità oggettive; l’equità è il criterio generale che mira, per così dire, a far quadrare i conti, cioè a finalizzare azioni e decisioni eque; l’analisi delle capacità è volta a considerare le competenze scientifiche e tecnologiche – gli strumenti che possono essere utilizzati per limitare il deterioramento del clima. Infine, l’analisi della vulnerabilità mira a contrastare le difficoltà di quei Paesi che si trovano in uno stato di sviluppo economico e culturale particolarmente fragile e che, per questo motivo, non sarebbero in grado di sostenere il peso dei costi della transizione energetica.
La responsabilità storica, l’equità, la capacità e la vulnerabilità costituiscono i diversi aspetti del principio di vulnerabilità, il cui scopo è fornire uno strumento teorico a supporto della definizione delle politiche. A tal fine, esistono due strategie: in primo luogo, l’esame della situazione attuale su scala globale (equità, capacità e vulnerabilità) e, in secondo luogo, l’analisi delle responsabilità formulate su una scala temporale più lunga (responsabilità storica). La responsabilità storica si occupa principalmente di comprendere il passato per determinare nel modo più preciso possibile chi è responsabile di ciò che è accaduto. In questo senso, è possibile considerare la determinazione della responsabilità storica come uno strumento necessario ma non sufficiente per guidare attivamente il futuro18.
In questo contesto, sarebbe molto utile pensare a possibili modi per ampliare il criterio di vulnerabilità. Non solo ci sono paesi più vulnerabili di altri, ma è probabile che ci siano generazioni più vulnerabili di altre. L’evidenza scientifica suggerisce che se le azioni per combattere il cambiamento climatico non sono decisive e mirate, si può presumere che le generazioni future saranno più vulnerabili di quelle attuali o di quelle passate. Ci sono quindi buone ragioni per concludere che il principio di vulnerabilità deve essere esteso alle generazioni future. Tuttavia, una riformulazione del principio di vulnerabilità non è sufficiente.
L’ampliamento del criterio di vulnerabilità deve infatti prevedere la parallela riformulazione del criterio di responsabilità storica. Attribuiamo agli Stati la responsabilità storica delle azioni istituzionali, delle azioni pubbliche e anche di quelle azioni dei privati cittadini che rientrano nel perimetro di ciò che un ordinamento giuridico prevede e consente. Se è vero che la responsabilità è innanzitutto individuale19, è anche vero che le società, gli Stati e le amministrazioni composite (metastati) sono le uniche entità a cui si può attribuire il compito di garantire l’esercizio dell’equità nel tempo, e quindi di elaborare e fornire gli strumenti per esercitare la giustizia e l’equità in una prospettiva diacronica. Quali entità diverse dagli Stati e dalle amministrazioni composite potrebbero svolgere il compito di tenere traccia ed eventualmente garantire una forma di riequilibrio intergenerazionale?
È proprio per l’attuazione della giustizia intergenerazionale che le azioni che risalgono a venti, trenta o addirittura quarant’anni fa non possono non riguardarci. Tuttavia, è opportuno pensare anche alla responsabilità transgenerazionale. Una prima osservazione riguarda la direzione della responsabilità: essa non può essere limitata al passato. Dobbiamo chiederci se ha senso pensare che l’umanità, attraverso l’entità politica a cui abbiamo delegato il compito di preservare le società nel tempo, cioè lo Stato, non si impegni a dirigere il futuro assumendosene la responsabilità. Inoltre, sempre in accordo con il riconoscimento del carattere personale della responsabilità, vorremmo sostenere che la responsabilità per il futuro è più convincente della responsabilità per il passato. Sappiamo che la responsabilità è personale; per questo siamo responsabili delle azioni di chi ci ha preceduto nella misura in cui esse sono attribuibili a, o compiute da, soggetti istituzionali che, in quanto tali, costituiscono la struttura diacronica della comunità.
Le obiezioni a questi argomenti sono generalmente di due tipi. Il primo tipo riguarda ciò che possiamo chiamare opacità riguardo alle “conseguenze delle azioni”20. In altre parole, non tutte le conseguenze delle azioni sono prevedibili e non tutto è prevedibile allo stesso modo. Inoltre, la formulazione di previsioni è, per definizione, una questione incerta. Se questo è vero, non è molto ragionevole che le persone scelgano di limitare le loro libertà o di non massimizzare i loro profitti; né è ragionevole che gli Stati scelgano di farlo. Rimanendo al caso del cambiamento climatico, è chiaro che, nel secolo scorso, i dati a disposizione della comunità scientifica erano qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli di cui disponiamo oggi. Pertanto, il problema di fare previsioni affidabili non è di facile soluzione, innanzitutto per la natura della conoscenza scientifica, che è un processo in costante evoluzione. Tuttavia, è importante sottolineare che una cosa è parlare di previsioni, cioè della possibilità di prevedere il futuro, e un’altra è parlare di orientare il futuro in una direzione piuttosto che in un’altra. Nel primo caso, si tratta di prevedere ciò che accadrà; nel secondo, di orientare il presente verso determinati obiettivi che ci sembrano importanti e che, presumibilmente, si realizzeranno solo a una certa distanza temporale da noi e dopo aver creato determinate condizioni. A questo proposito, è utile sottolineare che le conseguenze di un’azione o di una serie di azioni possono essere comprese con sufficiente chiarezza solo esaminando un fatto o un’azione “dal futuro”21; cioè dopo che è trascorso un certo periodo di tempo dal momento in cui l’azione è stata compiuta, in modo da poterne considerare le conseguenze più importanti. In alcune materie, quindi, è necessario prevedere l’adozione di un principio di prudenza che tuteli le generazioni future rispetto agli scenari peggiori.
La seconda obiezione riguarda in generale un principio di prudenza o, se preferiamo, di realismo, e può essere riassunta come segue: come possiamo sperare di interpretare con un certo grado di certezza i gusti, le aspettative e i desideri di coloro che verranno dopo di noi22? Soprattutto, come possiamo farlo nel caso di quelle generazioni che si troveranno a una notevole distanza temporale da noi? I sostenitori di questa obiezione ritengono che l’idea di dirigere più o meno apertamente il futuro nasconda un tentativo di esercizio opaco del potere, poiché impone la nostra visione del mondo a chi verrà dopo di noi. In realtà, credo sia piuttosto ingenuo pensare che le azioni sociali più significative (e talvolta anche molte delle nostre azioni individuali) non comportino conseguenze a lungo o a breve termine. Che ce ne assumiamo o meno la responsabilità, il futuro è già sempre condizionato da ciò che decidiamo di fare, o non fare. Il punto centrale, quindi, è delimitare il perimetro della responsabilità e dell’azione, non riconoscere che esiste una responsabilità per l’orientamento del futuro.
Se partiamo dal presupposto che il futuro esiste ed è aperto, è abbastanza ragionevole pensare che dovremmo puntare a orientarlo in alcune direzioni piuttosto che in altre, ad esempio verso azioni che comportino attenzione alla sostenibilità e all’equità.
Alla luce di ciò, propongo di incorporare il principio delle responsabilità differenziate ma condivise in modo da ampliare la sfera di responsabilità che, nella formulazione attuale, riguarda principalmente il passato. Sembra auspicabile un allargamento al futuro, considerando innanzitutto la responsabilità che le generazioni attuali devono assumere nei confronti di quelle future. Questa estensione può essere descritta dal principio della responsabilità transgenerazionale, che può essere articolato come segue:

  1. La vita, nella maggior parte delle circostanze, è preferibile alla morte;
  2. Raggiungere una buona qualità di vita è un obiettivo che ogni generazione si pone legittimamente;
  3. Il legame transgenerazionale lega le generazioni, determinando diritti e doveri reciproci all’interno della catena transgenerazionale;
  4. Le azioni transgenerazionali23 hanno una struttura particolare che prevede la collaborazione tra generazioni per la realizzazione di un’azione specifica;
  5. Le azioni sociali transgenerazionali devono rispettare i vincoli transgenerazionali e cercare di orientare il futuro in modo da non compromettere il diritto delle generazioni future ad avere una buona qualità di vita.

Il principio della responsabilità transgenerazionale riconosce l’esistenza del legame transgenerazionale e, allo stesso modo, riconosce la struttura peculiare delle azioni transgenerazionali. Contempla la possibilità di concedere diritti, oltre che doveri, a quelle entità (le generazioni future) che prevedono un passaggio dalla potenza all’atto. La probabile esistenza futura delle generazioni future, insieme al fatto che queste particolari entità sono chiamate a rendere concretamente realizzabili azioni transgenerazionali lunghe e complesse, porta a concludere che il principio della responsabilità transgenerazionale deve essere esteso alle entità future, anche in considerazione del fatto che le generazioni precedenti spesso traggono un vantaggio concreto dal postularne l’esistenza.

 

Note
 * L’articolo è uscito in lingua inglese nella raccolta curata da Fausto Corvino e Tiziana Andina dal titolo, Global Climate Justice: Theory and Practice, E-International Relations, 2023 (open access: https://www.e-ir.info/publication/global-climate-justice-theory-and-practice/).

1 Platone e Waterfield 1993, 331E-332B.
2 Cfr. Andina 2022.
3 Jamieson 2007.
4 Cfr. Rawls 2005, 1999.
5 Elena Pulcini, riprendendo un dibattito consolidato (si veda, ad es., Tronto 1993; Held 2006), sottolinea opportunamente come le teorie classiche della giustizia che tendono a perseguire un modello di giustizia perfetta, nel senso di perfettamente razionale e che esclude l’importanza e il ruolo delle passioni, abbiano mostrato elementi di debolezza che non possono essere trascurati. Questo essenzialmente perché un’idea di giustizia che consiste nell’esercizio esclusivo della ragione è palesemente insufficiente nel duplice senso di essere eccessivamente astratta e normativa per alcuni aspetti, tipicamente insufficiente – soprattutto laddove l’azione richiede il supporto della motivazione – per altri (Pulcini 2020).
6 Rawls 1997, 99, 7-8, 216.
7 «Così, la giustizia come equità parte da una certa tradizione politica e assume come idea fondamentale quella della società come sistema equo di cooperazione nel tempo, da una generazione all’altra» (Rawls 2005, 14).
8 Rawls 1999, 252.
9 Cfr. Brandstedt 2015.
10 Rawls 1999, 109-110.
11 Gosseries e Meyer 2009, 119-146.
12 Per una discussione più dettagliata della posizione originaria di Rawls, si veda Hinton 2015.
13 Cfr. l’ipotesi del «momento attuale dell’interpretazione dell’entrata» (Rawls 1999, 121).
14  Su questa questione si veda M. Barry (Hart, Hacker e Raz 1977, 278 e ss).
15 Si veda l’argomento sviluppato da Inglese 1977.
16 Rawls 2005, 273-274.
17 La natura del tempo è una questione ampiamente dibattuta nella storia della filosofia, con soluzioni molto diverse e spesso agli antipodi. Per una rassegna del dibattito, cfr. Emery 2020.
18 In letteratura esistono posizioni che teorizzano l’inesistenza del futuro e la sua indeterminazione. I primi ritengono che nella sfera della temporalità si possa dire che esiste solo ciò che è o che è stato (McTaggart 1908), mentre le seconde – ad esempio la cosiddetta teoria dei blocchi crescenti – ritengono che il futuro, nonostante la sua indeterminatezza, esista davvero (Paul 2010).
19 Si veda, ad esempio, Gilbert 2006.
20 Cfr. anche Singer 1972 e 2009.
21 Arthur Danto ha scritto molto su questo tema: cfr. Danto 1965 e 2007.
22 Zwarthoed 2015.
23 Per una discussione più approfondita del concetto di azione transgenerazionale, si veda Andina 2020.


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