Scienza e Covid

Di: Alberto Giovanni Biuso
1 Aprile 2023

 


Epistemologie

Thomas Kuhn osserva che nella complessiva formazione di uno scienziato contemporaneo e nei manuali scientifici non rimane praticamente traccia dei complessi, ricchi, drammatici percorsi vissuti dalle teorie scientifiche . L’autorità accademica tende a nascondere sistematicamente «in parte per importanti ragioni funzionali, l’esistenza e il significato delle rivoluzioni scientifiche», offrendo quanto più possibile l’impressione di un processo continuo e cumulativo «muoventesi in linea retta verso lo stato attuale»1, in un indefinito cammino verso il progresso. Ciò avviene anche attraverso la rimozione di ogni seria prospettiva storica, con l’abbandono dello studio dei classici della propria disciplina, con un tipo di formazione «rigido e limitato» che somiglia a quello della «teologia ortodossa»2. Tutto ciò è possibile anche per la natura esoterica del sapere scientifico, che tende troppo spesso a rimanere distante dal mondo dei profani e dalla vita quotidiana.
Che cos’è dunque la conoscenza scientifica? Essa è un particolare linguaggio adottato da un certo gruppo umano. Delle scienze è possibile un’analisi semantica e sociale. La pretesa di raggiungere la verità sulla natura rimane per esse troppo grande e anche in questo consistono i fraintendimenti della ragione. I quali possono essere gli equivoci e i veri e propri dogmi che ogni atteggiamento scientista porta con sé ma possono essere i fraintendimenti che la ragione può subire da parte dei suoi critici. Uno di essi è Paul K. Feyerabend, un filosofo che non intende affatto far piazza pulita della ragione in generale e delle scienze in particolare, non vuole sostituire al metodo nel quale ragione e scienze si incarnano un altro metodo o il primato di altri saperi ma cerca di individuare con la maggiore precisione ed efficacia possibile i limiti, i fraintendimenti appunto, il non detto ideologico, le conseguenze politiche e culturali che ogni primato indiscusso di una sola prospettiva introduce nelle società umane, generando più problemi di quante soluzioni ogni monoteismo metodologico comporta.
È vero infatti – e gli anni recenti lo stanno ampiamente confermando – che «la società attuale, dalle classi medie fino a quelle più alte, nutre nei confronti degli scienziati una fiducia pari solo a quella che un tempo i poveri riponevano nei preti. La cosa del resto non sorprende, se si pensa che gli scienziati stessi hanno assunto atteggiamenti tipici della Chiesa, suscitando venerazione per un sapere difeso a colpi di dogmatismo intransigente»3.
Un simile monoteismo epistemologico va apertamente e decisamente combattuto poiché non rappresenta in realtà niente di ‘nuovo’ o di ‘moderno’ o di ‘insostituibile’. La lezione della storia ben ci insegna che «l’autorità cui bisogna ribellarsi dimora, a seconda delle diverse epoche, in istituzioni diverse: ieri poteva identificarsi con Aristotele o la Chiesa, oggi sicuramente l’insidia maggiore viene dalla scienza, nel cui nome sono perpetrati abusi ingiustificati»4.
Alla prevedibile obiezione per la quale lo sviluppo e il dominio politico delle scienze hanno prodotto molti vantaggi, Feyerabend risponde che la vita consiste non soltanto nella durata e in altri elementi quantitativi ma anche nel suo spessore e significato qualitativo. Dove quantità non vuol dire in ogni caso soltanto l’allungamento dell’età media della vita. Quest’ultima infatti non dipende solo dallo sviluppo della medicina occidentale ma da una varietà assai complessa di fattori sociali, di costumi, di atteggiamenti, che poco hanno a che fare con la medicina riduzionistica che domina l’occidente. È stata questa la prospettiva di Ivan Illich, le cui analisi critiche sulla nemesi medica costituiscono il dispositivo concettuale più profondo e più completo per comprendere il presente epidemico5. Anche «Feyerabend spesso prende spunto dalla medicina, a suo giudizio fulgido ricettacolo dei peggiori difetti riscontrabili nella scienza occidentale, per portare esempi della prevaricazione istituzionalizzata sugli individui»6.


Feyerabend

L’epistemologia di Feyerabend, che tale è anche se il suo autore non la riteneva un’epistemologia, ha come elementi caratterizzanti: la critica alle pretese dello scientismo; la continuità tra i dati osservativi e le teorie che li spiegano; l’inesistenza di un sapere oggettivo e assoluto; la funzione feconda e critica della metafisica; la pluralità dei discorsi, dei giochi linguistici, della tradizioni; il conflitto tra razionalità e scienza; la continuità tra scienza e mito. Vediamoli un poco più in dettaglio.
Contro le pretese del linguaggio scientifico dell’occidente che ritiene se stesso l’unico linguaggio legittimo e praticabile, Feyerabend afferma che «la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. A ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili»7. Anche da qui scaturisce l’idea e la pratica di una società libera, nella quale nessun tecnico o esperto possa presentarsi come detentore di verità ultime e nella quale il corpo sociale mantenga il controllo sui conflitti di interesse che ad esempio legano i ricercatori in campo farmacologico agli obiettivi finanziari delle multinazionali del farmaco. Un controllo collettivo su tutte le pratiche sociali, e la scienza lo è come ogni altra espressione umana, è infatti garanzia di efficacia prima di tutto per queste stesse pratiche, come hanno ben mostrato anche l’epistemologia di Popper, di Lakatos e di altri filosofi del Novecento, mentre nel XXI secolo sembra di essere tornati (davvero incredibilmente) all’ingenuo dogmatismo dei positivisti, con l’affermarsi di una «fiducia acritica nei confronti della scienza», la quale «ha soggiogato anche molti intellettuali, oltre alla maggioranza dei cittadini»8.
Le osservazioni empiriche sono sempre intrise di teoria e, di contro, non è possibile alcuna teoria che non si riferisca in qualche misura e modalità a delle osservazioni empiriche. L’apprendimento accade mediante il transitare continuo dall’osservazione alla teoria e viceversa. Non si danno esperienze che non abbiano a fondamento una teoria, consapevole o meno che essa sia. Il circolo epistemologico tra osservazione e teoresi, tra ‘empirismo’ e ‘razionalismo’ è costante, completo, costitutivo. Esso è stato ben individuato da David Hume, per il quale le teorie non derivano e non possono derivare da fatti ma dalla loro diversa interpretazione e da altre teorie.
L’unione profonda tra fatti e teorie rende necessario un confronto serio e rigoroso con le cosiddette interpretazioni naturali, con il senso comune, con le credenze condivise da un gruppo, una comunità, un’epoca. Nella scienza non si fa mai tabula rasa del passato e nello stesso tempo non si rimane mai ancorati alla tradizione, a ciò che è stato in altre epoche osservato, scoperto, pensato.
La continuità tra i dati osservativi e le teorie è uno dei nuclei della celebre tesi nietzscheana (esplicitamente formulata contro il dogmatismo dei positivisti) sui fatti che sono interpretazioni; tesi ribadita dal razionalismo critico di Popper quando afferma che «le osservazioni […] sono sempre interpretazioni dei fatti osservati: sono interpretazioni alla luce delle teorie»9. Feyerabend sostiene che se tutti i fatti sono teorici, essi sono dunque tutti interpretazioni. Questo non esclude affatto l’esistenza dell’oggetto analizzato, del fatto osservato, ma significa solo che l’indubitabile esistenza e accadere degli enti, degli eventi, dei processi è una realtà sia empirica sia ermeneutica.
Ha dunque ragione Michael Devitt a sostenere (in Against Incommensurability, 1979) che la densità teorica dei giudizi sulla realtà non esclude affatto l’autonomia della realtà da tali giudizi. Gli eventi accadono. Essi sono sottoposti a una grande varietà di analisi, osservazioni, interpretazioni dalle quali scaturiscono molteplici teorie; queste ultime non possono essere convalidate o smentite da fatti ma da altre teorie (sta qui uno degli elementi di maggiore distanza tra il falsificazionismo di Popper e l’anarchismo metodologico di Feyerabend).
Tutto questo implica e significa la rinuncia al mito di un sapere oggettivo, impersonale, assoluto. Un mito che può essere giustificato e coerente in alcune pratiche religiose ma certamente non nelle procedure che ritengono di essere razionali, come quelle scientifiche e filosofiche. Già alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso Michel Polanyi in Personal Knowledge (e poi in The Tacit Dimension) e Norwood Russell Hanson in Patterns of Discovery sostenevano la tesi persino ovvia – date le modalità, le condizioni e i limiti della conoscenza umana – che non esistono dati osservativi neutri e che tutte le osservazioni empiriche sono sempre già condizionate dalle convinzioni dell’osservatore. Non create, si badi bene, ma condizionate, il che è comunque sufficiente a escludere la natura oggettiva e assoluta delle osservazioni empiriche. Si tratta della  theory-ladeness, che rende impossibile distinguere in modo netto il linguaggio osservativo dal linguaggio teorico. E questo pone fine a uno dei dogmi centrali del neopositivismo.


Scienze e storia

Nessun metodo scientifico come nessuna tesi filosofica sono certi per sempre, sono perenni. Nel corso del tempo, delle ricerche, delle scoperte, dell’elaborazione di paradigmi che sostituiscono i precedenti, tutte le metodologie mostrano e confermano i propri limiti. E questo anche perché la filosofia della scienza, la storia della scienza e la storia socio-politica non sono ambiti e saperi tra di loro irrelati ma costituiscono un campo epistemologico all’interno del quale ogni metodologia, ogni ipotesi e ogni legge vanno compresi, utilizzati e interpretati in una prospettiva storica.
Un esempio è la vicenda del cannocchiale e in generale il confronto tra astronomia tolemaica e astronomia copernicana, tra dinamica aristotelica e fisica galileiana. La dinamica di Aristotele è molto più ampia di quella galileiana e moderna, non limitandosi al solo movimento – in particolare al moto locale – ma concernendo anche le trasformazioni qualitative, il generarsi e dissolversi degli enti, l’accrescimento e la diminuzione di tutte le componenti in gioco in un fenomeno naturale. Galilei potè procedere all’elaborazione della propria dinamica soltanto circoscrivendo in modo netto questo insieme di linee di ricerca e applicando a quanto rimaneva l’utilizzo di uno strumento che fino ad allora aveva funzionato perfettamente nell’osservazione terrestre e che potè essere usato in ambito celeste soltanto a condizione di caricare l’osservazione di una densità teorica con la quale cercare di superare le questioni ancora irrisolte e indecidibili con il semplice utilizzo del cannocchiale, come di qualunque strumento scientifico-tecnologico.
Come operò Galilei per convincere i suoi interlocutori e lettori della verità del copernicanesimo rispetto all’aristotelismo tolemaico? Operò come un metafisico e come «un ciarlatano» e questo fu il suo merito, il suo genio, il suo contributo fondamentale all’ampliarsi della conoscenza. Sta qui, in questo giudizio solo apparentemente paradossale, uno dei nuclei fondamentali dell’epistemologia anarchica di Feyerabend. Galilei è Galilei perché non seguì alcun metodo come si pratica una fede religiosa, perché adoperò tutte le risorse e i trucchi retorici nei quali era un vero maestro, perché non si fermò a uno strumentalismo empirista ma ragionò, pensò e scrisse da quel metafisico platonico che era. «Si potrebbe dire che Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici»10.
Galilei è uno dei massimi esempi della fecondità di risultati e dell’apertura di orizzonti verso i quali conduce il rifiuto dei dogmi più consolidati, ai quali il pisano oppose non un metodo ma una pluralità di metodologie, non l’idolatria dei fatti o delle teorie ma l’invenzione di nuove verità, di altri miti, di una diversa metafisica rispetto alle verità, ai miti e alla metafisica dominanti nel suo mondo.
La necessità di un pluralismo metodologico è motivata anche dalla stretta relazione che intercorre tra le leggi/protocolli scientifici e i diversi linguaggi naturali dentro cui leggi e protocolli germinano e dai quali sono resi possibili non come semplice veicolo di conoscenza ma come condizioni stesse di tali conoscenze; circostanza la quale fa sì che non esista alcun linguaggio neutro e universale di osservazione e di interpretazione/resoconto dei dati osservativi ma ogni osservazione abbia senso e formuli i suoi risultati soltanto all’interno di un linguaggio dato, sia esso naturale sia esso scientifico.
Tale pluralità di linguaggi e di pratiche culturali aiuta le scienze a non cadere nel dogmatismo. Tra queste pratiche rientra la metafisica, dalla quale la scienza ha sempre tratto e continua a trarre nutrimento. Dietro e dentro ogni teoria e pratica umana, comprese le teorie e le pratiche delle diverse scienze, sta sempre una cosmologia, vale a dire una visione del mondo, degli enti e delle loro reciproche relazioni. La metafisica è anche un gioco linguistico, come lo sono le scienze, le religioni, linguaggi artistici. La tesi di Kuhn e di Feyerabend sulla reciproca incommensurabilità delle teorie scientifiche si fonda anche sulla teoria wittgensteiniana dei giochi linguistici. Il contributo di Feyerabend concerne soprattutto un’intelligente e argomentata difesa delle differenti tradizioni che nel tempo storico e nello spazio delle civiltà hanno letto diversamente il mondo fisico, la natura, il cosmo.
Come ogni fatto umano, anche la scienza è dunque soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Essenziale è però che la scienza non si presenti più nelle forme colonialiste che hanno caratterizzato alcune delle sue fasi storiche e sulle quali l’analisi di Feyerabend è molto netta:

La scienza moderna schiacciò i suoi oppositori, non li convinse. La scienza si impose con la forza, non col ragionamento (ciò vale particolarmente nel caso delle ex colonie, nelle quali la scienza e la religione dell’amore fraterno furono introdotte come cosa ovvia, e senza consultarne gli abitanti o discutere con essi la cosa). […]
Le tribù non vengono soppresse solo fisicamente ma perdono anche la loro indipendenza intellettuale e sono costrette ad adottare la religione assetata di sangue dell’amore fraterno: il cristianesimo. […] La libertà viene recuperata, vecchie tradizioni sono riscoperte, sia fra le minoranze in paesi occidentali sia fra estese popolazioni in continenti non occidentali. Ma la scienza regna ancora sovrana. Essa regna sovrana perché coloro che la praticano sono incapaci di comprendere, e non disposti ad ammettere, ideologie diverse, perché hanno il potere di imporre i loro desideri, e perché usano questo potere esattamente come i loro predecessori usarono il loro potere per imporre il cristianesimo ai popoli in cui si imbatterono nel corso delle loro conquiste 11.

Alla luce di tutto questo, la proposta dell’epistemologo anarchico è di affrancare anche la scienza dal principio di auctoritas, come dovrebbe essere nella sua stessa natura, e separare stato e scienza come sono state separate nell’Europa moderna stato e chiesa:

Poiché l’accettazione e il rifiuto di ideologie dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di stato e chiesa dovrebbe essere integrata dalla separazione di stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa. Una tale separazione potrebbe essere la nostra unica possibilità di conseguire un’umanità di cui siamo capaci, ma che non abbiamo mai realizzato compiutamente12.

Il fatto che non sia possibile intendere una teoria scientifica fuori dall’epoca che l’ha prodotta conferma i limiti e gli errori dell’individualismo metodologico che caratterizza le pratiche scientifiche nelle società liberiste e liberali. È infatti un grave errore immaginare un individuo, anche lo scienziato, che pensi, agisca e lavori al di fuori di una qualche tradizione. Una società davvero «aperta» dovrebbe difendere non soltanto il pluralismo razziale e di genere ma anche l’uguaglianza delle tradizioni. E invece «ci si limita a garantire a tutti la possibilità di accedere alla tradizione razionalista e liberale dell’uomo bianco»13. In realtà una ‘razionalità’ valida per tutti e per sempre non esiste, semplicemente. E le scienze sono un frutto della storia come lo è ogni altra espressione umana.


Miti e razionalità

Soltanto alla luce di questa ricchezza di prospettive, che affonda nel meglio della tradizione filosofica europea, si possono comprendere gli elementi più fecondi dell’epistemologia di Feyerabend quali il conflitto tra razionalità e scienze e la continuità invece tra scienza e non scienza, tra la scienza e il mito. Se il sapere scientifico è una parte di un mondo culturale e antropologico più ampio, è chiaro che esso è intrinsecamente legato a ogni altra forma: arte, religione, filosofia, politica. L’unità di  questi dispositivi di conoscenza e di vita era ben presente nel mondo del mito, in quello omerico ad esempio.
Nel corso della storia la scienza è stata ovviamente coniugata ai saperi non scientifici e se ne è sempre servita per conseguire i propri scopi. Le conseguenze politiche e sociali della consapevolezza che il sapere scientifico è legato per continuità e per differenza a tutti gli altri consistono nel superamento del legame tra liberalismo e scientismo e soprattutto, come detto, nella necessaria separazione tra lo stato e la scienza.
Questo è alla fine uno dei significati e degli obiettivi dell’anarchismo metodologico: rendere libera e matura la pratica scientifica. Non cancellarla – Feyerabend non lo ha mai voluto –  ma farla più coerente con una razionalità aperta e feconda. Una solida e reale acquisizione di conoscenza è infatti possibile, pensabile e praticabile dove si dà libertà metodologica, dove si permette un pluralismo di itinerari, dove a essere rifiutati sono soltanto i dogmi di qualunque natura. La ricerca più feconda infrange sempre le norme metodologiche stabilite. E questo accade anche perché nessuna teoria scientifica o di altro genere è completa e in accordo con tutti i fatti del campo che intende spiegare.
In generale, i risultati di un’osservazione vengono espressi e comunicati con i termini e nel linguaggio della teoria che si vuole con essi dimostrare e difendere, quindi in un’altra lingua rispetto a quella delle osservazioni e teorie rivali. Si tratta per Feyerabend di una vera e propria fede linguistica, alla quale va ricondotto gran parte di ciò che chiamiamo scienza e riteniamo per questo indubitabile. E invece «l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria»14.
Una proposta politico-epistemologica così forte si inserisce all’interno di una visione plurale e aperta di ciò che chiamiamo scienza e di ciò che definiamo non scienza, le quali devono convivere, collaborare, intersecarsi e interagire a favore di un progresso dell’umanità che sia libero dagli schematismi dell’idealismo e del positivismo.
Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno raggiunto ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato e, di più, non avrebbero potuto esistere. L’astronomia e la dinamica moderne, ad esempio, «non avrebbero potuto progredire senza quest’uso scientifico di idee antidiluviane. […] Innovatori come Paracelso tornarono a idee anteriori e migliorarono la medicina. Dovunque la scienza si arricchisce con metodi non scientifici e con risultati non scientifici, mentre procedimenti che sono stati spesso considerati parti essenziali della scienza vengono tacitamente sospesi o aggirati» ed è per questo che «anche oggi la scienza può e deve trarre profitto da una mescolanza con ingredienti ascientifici»15.
La separazione del campo epistemologico in elementi tra di loro irriducibili o in insuperabile conflitto rappresenta un ostacolo al progresso della conoscenza. Comprendere la natura e la sua complessità implica l’utilizzo di una varietà di prospettive, metodologie, sguardi: «L’affermazione che non c’è conoscenza fuori della scienza – extra scientiam nulla salus – non è altro che un’altra favola molto conveniente»16.
L’esigenza di rigore che è tipica della scienza conduce a demistificare la scienza stessa e ad affermare che «c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene»17. Qualsiasi cosa che serva ad ampliare la conoscenza dell’intricato enigma che il mondo sempre rimane e indagare il quale senza illusioni, chiusure, dogmi costituisce lo statuto e l’obiettivo stesso delle scienze.


In difesa della scienza

All luce di tutto questo, emerge evidente il fatto che l’utilizzo irrazionale, arbitrario, cangiante e non oggettivo dei dati quantitativo-numerici ha fatto della scienza una delle prime vittime dell’epidemia Covid19. Come abbiamo visto, infatti, le scienze hanno a fondamento:

-il rifiuto di ogni fanatismo
-la diffidenza verso il principio di autorità
-la necessità di verifiche accurate e pubbliche di tutto ciò che si sostiene
-la ripetibilità delle procedure
-il ragionamento oggettivo su dei dati quanto più possibile accurati, estesi, condivisi.
Si tratta di un sapere che è sempre avvertito del contesto, dei limiti, degli interessi di varia natura che muovono ogni fare umano. Pensare che la ricerca scientifica – e in particolare quella farmacologica – sia autonoma dal potere politico ed economico significa ignorare l’intera storia ed epistemologia del Novecento.
La scienza è stata trasformata in religione, in dogma, in una struttura soteriologica, quando invece la procedura scientifica è per definizione pubblica, ripetibile, controllabile. In caso contrario si tratta di magia, di superstizione, di guru, di sette. Il pervasivo diffondersi di una forma mentis settaria e antiscientifica è una delle conseguenze più devastanti dell’utilizzo politico dei dati scientifici e della prostituzione di troppi studiosi all’autorità politica.
Una delle conseguenze più gravi dell’epidemia Sars-Cov2 è stata dunque la rinuncia all’atteggiamento scientifico e l’interiorizzazione invece dell’obbedienza allo Stato etico, l’interiorizzazione del divieto, l’interiorizzazione dell’autorità diventata l’anima stessa delle persone.
«L’une des grandes fonctions de la médecine […] a été précisément de prendre le relais de la religion et de reconvertir le péché en maladie, de montrer que ce qui était, ce qui est péché bien sûr ne sera peut-être pas puni là-bas, mais sera certainement puni ici; Una delle grandi funzioni della medicina […] è stata esattamente prendere il posto della religione e trasformare il peccato in malattia, mostrare che ciò che era ed è certamente peccato potrà non essere punito nell’aldilà, ma sarà di sicuro punito qui»18.
Abbiamo anche visto che il linguaggio scientifico è soltanto uno tra i fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. E invece la vicenda dell’epidemia Sars-Cov2 è un esempio di oscurantismo culturale, che ha trasformato la scienza in una vera e propria religione. Effetto e insieme radice dell’oscurantismo è la superstizione, pratica e atteggiamento da sempre utilizzato da parte di chi comanda, capace di trasformare gli scienziati in maghi al servizio dell’autorità politica.
Tutto questo costituisce un grave regresso dello spirito scientifico nelle società occidentali, rappresenta la cancellazione o l’oblio delle più raffinate e argomentati tesi dell’epistemologia contemporanea, alle quali si è sostituito un rozzo positivismo, come se da Auguste Comte al XXI secolo nulla fosse accaduto.
Sembra che si stia facendo di tutto per dare ragione a Heidegger  quando sostiene 

daß die Wissenschaft ihrerseits nicht denkt und nicht denken kann und zwar zu ihrem Glück und das heißt hier zur Sicherung ihres eigenen festgelegten Ganges. Die Wissenschaft denkt nicht. Das ist ein anstößiger Satz. Lassen wir dem Satz seinen anstößigen Charakter auch dann, wenn wir so-gleich den Nachsatz anfügen, daß die Wissenschaft es gleichwohl stets und auf ihre besondere Weise mit dem Denken zu tun hat; 

che, dal canto suo, la scienza non pensa, che non può pensare; per sua fortuna invero, perché ne va delle garanzie del suo modo di procedere. La scienza non pensa.  Quest’affermazione è scandalosa. Lasciamo all’affermazione il suo carattere scandaloso anche se aggiungiamo subito che la scienza ha comunque, sempre e in una sua maniera peculiare, a che fare con il pensiero19.
E invece la scienza pensa. Lo fa con le sue metodologie cangianti e nei suoi limiti sempre aperti. Purché non la si voglia trasformare in una religione comtiana, con i suoi sacerdoti: gli esperti televisivi; con i suoi templi: le case farmaceutiche e i laboratori; con i suoi dogmi, il più incredibile e contraddittorio dei quali è la formula ‘Abbi fede nella scienza’. Nei confronti delle scienze (al plurale) non si deve nutrire fede ma argomentazione, critica, falsificazione, superamento, interrogativi. Nei confronti delle scienze si deve esercitare ciò che un miserabile regime ambulatoriale sta cercando di negare. Senza riuscirci, per fortuna, grazie anche all’atteggiamento scientifico dei suoi oppositori.


Note
1 T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza (The Structure of Scientific Revolutions, The University of Chicago, 1962 e 1970), trad. di A. Carugo, Einaudi, Torino 1969-1978, pp. 166 e 201.
2  Ivi, p. 199.
3 R. Corvi, I fraintendimenti della ragione. Saggio su P.K. Feyerabend, Vita e Pensiero, Milano 1992, p. 143.
4 Ivi, p. 319.
5 Su Illich rimando al mio Nemesi e dismisura, in «il Pequod», anno 3, numero 5, giugno 2022 [/]
6 R. Corvi, I fraintendimenti della ragione, cit., p. 296.
7 P.K. Feyerabend Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, BNL, 1975), trad. di L. Sosio, pref. di G. Giorello, Feltrinelli, Milano 2021, p. 244.
8 R. Corvi, I fraintendimenti della ragione, cit., p. 298.
9 K.R. Popper, La logica della scoperta scientifica (The Logic of Scientific Discovery, London 1959), trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970, p. 103.
10 P.K. Feyerabend Contro il metodo, cit., p. 77.
11 Ivi, pp. 241-243.
12 Ivi, p. 240.
13 R. Corvi, I fraintendimenti della ragione, cit., p. 279.
14 P.K. Feyerabend Contro il metodo, cit., pp. 38-39; il corsivo è di Feyerabend.
15 Ivi, pp. 248-249.
16 Ivi, p. 249.
17 Ivi, p. 25.
18 M. Foucault, Les grandes fonctions de la medicine sociale dans notre société. Dits et Écrits, 1954-1988, Gallimard, Paris 2001, vol. I, p. 1249.
19 M. Heidegger, Was heisst Denken?  Corso del semestre invernale 1951-1952, «Gesamtausgabe», Band 8, herausgegeben von Paola-Ludovika Coriando, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2002, p. 9; trad. di U. Ugazio e G. Vattimo, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1978, vol. I, p. 41. Ho riportato ampiamente il brano nel suo contesto, in modo da comprendere meglio un’affermazione di Heidegger che ha generato troppi equivoci e pregiudizi.

 

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