Persona e comunicazione

Di: Marco Schiavetta
1 Settembre 2010

Questo scritto nasce con l’intento di riflettere sull’essenza dell’efficacia di una buona comunicazione, in particolare nelle dinamiche di relazione inter-personale. Ritengo a tal fine utile fare una premessa sul concetto di persona; infatti nella tradizione filosofica sono state avanzate varie definizioni tra loro affini e che per la loro coerenza razionale si pongono come imprescindibili termini di confronto.

In primis quella boeziana, secondo cui persona è rationalis naturae individua substantia 1. Concettualmente vicine si  presentano le definizioni di Riccardo di San Vittore (rationalis naturae individua exsistentia) e di Tommaso d’Aquino (individuum subsistens in rationali natura).

Possiamo facilmente verificare che queste definizioni tengono insieme tutti i concetti necessari, ovvero natura, individuo, sostanza, esistenza, razionalità/spiritualità. Esse non escludono il livello corporeo-biologico-genetico, nel senso che la sostanza individuale umana è considerata anche corporea. Nell’idea di individuum, elaborata da Tommaso d’Aquino (quod est in se indistinctum, ab aliis vero distinctum), si possono riconoscere i concetti di unità, totalità, concentrazione unificante.

Nell’espressione in se indistinctum si esprime non il concetto di una fisica atomicità dell’individuo come realtà non ulteriormente separabile, ma il possesso unitario del proprio atto d’essere 2. Nella determinazione sostanziale risulta perciò salvaguardata l’eccedenza della persona rispetto ai propri atti e fondata la differenza tra l’esser persona e la personalità, volendo con questo termine indicare la progressiva acquisizione su piano operativo (atto secondo) di qualità che appartengono alla persona in quanto fluiscono dalla sua essenza, ma che non necessariamente accompagnano fin dall’inizio l’esistenza della persona; ritengo che tra queste qualità rientrino anche il linguaggio e molti dei comportamenti in atto nelle dinamiche di comunicazione.

Non c’è perciò contraddizione nel sostenere che un individuo può essere a un tempo persona in atto e personalità in potenza. Mentre il divenir persona, come possesso del proprio statuto ontologico radicale, non è un processo ma un evento o atto istantaneo, per cui si è stabiliti nell’esser persona una volta per tutte; invece, la personalità è qualcosa che si acquista processualmente, attraverso l’effettuazione di atti personali (secondi).

La riflessione sulla dignità umana, per noi occidentali, inizia all’interno di un contesto religioso, più precisamente cristiano, proprio perché secondo questa visione, l’uomo racchiude in sé l’immagine e la somiglianza con Dio: privilegio che lo eleva al di sopra di ogni altra creatura. Questa caratteristica creaturale dell’uomo spiega il successo della parola “persona” e il suo significato traslato, cioè trasferito dal teatro all’antropologia 3.

In breve, si vuole dire che, come uomini, siamo maschere che celano qualcosa che “sta sotto” e vale più dell’apparenza, dunque più della maschera che indossiamo al di sopra. Seguendo un percorso di riflessione semantica collegato al concetto di maschera o di volto si potrebbe rappresentare con maggiore fedeltà la presenza nel termine “persona” di due tratti caratteristici: quello occulto e quello manifesto.

La poliedricità di questo concetto impedisce di ritenere che la sua origine risieda nella semplice rappresentazione della realtà empirica dell’essere umano, a meno di non considerare l’essere umano nulla più che la sua fisicità 4.

Oggi il concetto di persona viene variamente definito e le concezioni più autorevoli sono le seguenti:

a)         Concezione convenzionalista

b)         Concezione essenzialista

c)          Concezione fenomenista

Nella prima visione la realtà ha il significato che l’uomo le attribuisce, essa non ha alcun senso o valore intrinseco. È pertanto la società, nel suo sviluppo storico a stabilire che cosa s’intenda per persona. Si tratta di una fondazione storico–sociale del senso e del valore da attribuire a ciò che viene definito persona.

La seconda trova la sua origine nel pensiero di Platone e Aristotele, tale concezione si fonda su un approccio metafisico e gnoseologico, poi sviluppato dalla tradizione scolastica medioevale, moderna e contemporanea. Secondo questa visione è possibile, mediante un’opportuna analisi, definire la nature e l’essenza di un determinato ente. Dunque sarebbe possibile definire l’essenza di ciò che chiamiamo persona. L’espressione più autorevole di questa concezione è il personalismo ontologicamente fondato.

Nella terza ciò che definisce la persona sono le caratteristiche con cui essa concretamente si manifesta.

Se non si vuole rinunciare a porre l’accento sulla rilevanza etica di considerare ogni essere umano moralmente significativo, è possibile considerare la soggettività di ognuno come soggettività biografica. Ciò comporta che, quando s’instaurano relazioni intersoggettive significative, dovremmo sempre considerare che noi, come i nostri interlocutori, siamo individui situati e come, proprio per questo, le interazioni sociali e i contesti in cui viviamo possano incidere sul modo in cui veniamo socialmente riconosciuti, sul  nostro modo di autopercepirci e sulla formazione e modificazione della nostra identità morale 5.

Solo considerando che “persona” sia un termine in grado di rappresentare, a un tempo, il soggetto e il proprio oggetto, e quindi un “qualcosa” che manifesta e nel contempo sottrae allo sguardo la propria natura, si potrebbe comprendere il motivo che impedisce, ma nel contempo sollecita, una definizione univoca e più rispondente alle necessità di accordo tra le diverse concezioni.

Alcuni  filosofi, tra cui ad es. H.T. Engelhardt 6, definiscono la persona attraverso i caratteri dell’autocoscienza, dell’autonomia, della razionalità, del possesso del senso morale; altri, come ad es. D. Parfit 7, in base al possesso di stati mentali/psicologici coscienti. Questa determinazione della persona è più ampia della precedente, per cui coloro che sono persone in base al primo paradigma lo sono anche secondo Parfit, mentre è falso il viceversa.

È opportuno osservare che nelle due posizioni si verifica rispettivamente una sovra-determinazione e una sotto-determinazione dell’idea di persona: in genere l’approccio di Engelhardt inclina verso il primo corno, perché include nel concetto di persona le sue funzioni alte, mettendo tra parentesi il lato biologico-materiale, mentre l’approccio psicologico-empirico volge verso una sotto-determinazione della persona.

Con l’assunto secondo cui la condizione necessaria e sufficiente per essere persona è il possedere stati mentali coscienti, si viene tra le altre cose a impoverire la vita psichica, perché il riferimento al livello della coscienza psicologica lascia da parte sia la vita dell’inconscio istintuale, sia quella del sopraconscio o preconscio dello spirito. La definizione psicologica di persona sembra assumere senza prove sia l’identità di mente (o spirito) e di attività psichica conscia, con un passaggio indebito dall’ordine dell’essere e della sostanza a quello della funzione, sia la riconduzione-riduzione del livello psichico stesso a quello cerebrale-neuronale. Si è perciò di fronte a una forma di riduzionismo, se intendiamo con questo termine l’intento sistematico di riportare il più alto al più basso e nella fattispecie lo spirituale allo psicologico, e questo al cerebrale. Nell’insieme rimane come problema quello dell’identità personale, affidata ormai alla precaria e fluttuante continuità stabilita dalla memoria 8.

In base alla  concezione  funzionalistico-attualistica, che determina la persona sulla scorta della coscienza/autocoscienza, è possibile che esistano individui umani non ancora, non più persone 9. Tale è ad es. la posizione di Engelhardt che, negando l’equiestensione dei termini “essere umano” e “persona”, ne conclude: «non tutti gli esseri umani sono persone… I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane. Tali entità sono membri della specie umana» 10.

Engelhardt, nel definire i caratteri propri della persona, li fa afferire a un’entità, cosicché l’identificazione fra caratteri propri ed ente finisce per comportare l’assunzione di tali caratteristiche come reali con tutte le implicazioni metafisiche che ciò comporta 11.  Tuttavia la definizione di persona come un ente dotato di coscienza o di autocoscienza o di stati psichici non stringe adeguatamente il ragionamento, perché non costituisce una definizione pienamente reale della persona; ne coglie solo un aspetto o un attributo che non è in senso proprio essenziale, cioè relativo ai caratteri essenziali. Se nella definizione di una cosa si seleziona infatti una sua proprietà, si determina una classe di oggetti, a cui naturalmente appartengono tutti coloro che la possiedono. Con questo siamo però lontani dall’aver risolto la questione di una definizione reale, che è quanto soprattutto importa, perché la proprietà prescelta potrebbe non essere essenziale in senso proprio.

Il personalismo laico e quello ontologico sembrano inconciliabili; ciò rende interessante la posizione di E. Agazzi: “persona” è una definizione nominale basata sulla selezione della proprietà “coscienza”. Il rischio sta nell’assumerla come reale, perché reale è l’essere umano nella sua integralità, anche se le facoltà concernenti la persona sono allo stato potenziale o per fattori contingenti, in parte o in toto assenti 12.

Il ragionamento sul concetto di persona è importante per focalizzare in maniera costruttiva un intervento basato concretamente sulla comunicazione o meglio sull’entrare in comunicazione, dando la giusta rilevanza al fatto che ogni persona è un soggetto biografico, con una sua propria storia di vita vissuta e condizionata culturalmente da moltissimi fattori, che si possono o meno conoscere.

Su questo punto deve essere fatta molta chiarezza, proprio per non rischiare di perdere il contatto con l’individuo, soggetto verso cui è rivolto l’atto linguistico della comunicazione e che si ha intenzione di aiutare a sollevare quel velo che gli impedisce di sentirsi capace nella propria situazione di vita, accompagnandolo in questo percorso ricordando che uno dei principi che regolano l’istaurarsi di un rapporto comunicativo efficace riguarda la capacità di utilizzare il linguaggio dell’altro 13.

Qui sta il valore etico del comportamento che un bravo esperto di comunicazione deve essere in grado di attuare: riuscire a instaurare una relazione dialogica con ogni individuo, ponendo sempre molta attenzione nell’evitare di cadere in errori di valutazione innescati da una mancata analisi in profondità del soggetto verso il quale è tenuto a personalizzare o meglio individualizzare il suo lavoro. Individualizzare, intervenire quindi sull’individuo come soggetto definito e collocato in un frame, nel suo contesto di frameset specifico, risulta la mappa migliore da seguire per evitare di prendere direzioni che ci porterebbero a scivolare su argomenti più vicini alla persona nel suo rapportarsi con l’altro; quindi per un esperto di comunicazione vige l’imperativo di confrontarsi dialogicamente pensando al soggetto esclusivamente come individuo.

Riprendendo il filo dell’argomento, penso di aver indirizzato lo sguardo sulle correnti di pensiero che animano il confronto su questo tema molto sottile e dibattuto, con l’intento di essere riuscito a  mettere in luce, almeno in parte, quanto  quella di “persona” sia una nozione controversa proprio per il fatto che questo termine mantiene dei confini troppo sfumati e vaghi che non permettono di utilizzarlo senza incorrere in equivoci in merito a cosa si vuole significare e a chi ci si riferisce utilizzandolo.

Concludo, quindi, osservando che è preferibile, per assicurarci una più certa posizione sull’argomento, che riguarda chi sia il soggetto di riferimento in un processo di comunicazione, focalizzare l’attenzione sull’ “individuo”, termine che garantisce una più sicura specificità, rimanendo ancorato al piano “operativo” della personalità.

Note

1 Pochi decenni prima della salita al trono dell’imperatore di Bisanzio Severino Boezio (480-525) dette, nel Contra Eutychen (III. 5), la definizione di persona –«sostanza individuale di natura razionale»– la cui fortuna fu larghissima per tutto il medioevo e anche in seguito. Il contesto nel quale appare tale formulazione è decisamente teologico, dato che Boezio si occupa, nel trattato, della Trinità e delle persone divine: Padre, Figlio e Spirito Santo. Il dato è decisamente importante: ritroviamo la medesima fondazione teologica nel significato della parola ‘individuo’ e nell’aggettivo ‘individuale’ (usato nella definizione boeziana, sopra riferita) che significano, alla lettera, ‘indivisibile’. Individua – dunque indivisibile – è, in primo luogo, la Trinità: l’invocazione corrente, nel medioevo è Sancta et individua Trinitas.

2 Tommaso d’Aquino concludeva che la persona è quanto di più perfetto si dia in tutto l’universo, poiché in nessun altro individuo si può rinvenire una così ricca gamma di perfezioni ontologiche e operative, e una più profonda unità, scaturente dalla forma sostanziale. La singolarità della persona si condensa in una qualità che soltanto essa possiede: la quasi paradossale compresenza di incomunicabilità ontologica e di comunicabilità intenzionale: incomunicabilità nell’ordine dell’esistere, perché essa possiede ed esercita il proprio atto d’essere, che è solamente suo e non compartecipabile con altri; comunicabilità intenzionale nell’ordine dell’agire, cioè in quello del conoscere, dell’amare, del dialogare, del ‘vivere con’, per cui la persona è -essa sola- apertura all’Intero.

3 Il termine latino persona deriva dall’etrusco phersu che, da divinità dell’oltretomba, passò ad indicare la maschera dell’attore, coprente tutto il capo e diversa secondo i diversi caratteri (dei od eroi) da rappresentarsi. Persona deriva, etimologicamente, da per-sonare, cioè ‘suonare forte’ ‘risuonare’ che allude, appunto, all’amplificazione della voce entro la bocca della maschera.

4«L’essere umano è persona per la sua natura sostanziale individuale che ‘eccede’ le sue proprietà ed i suoi atti: gli atti sono ‘della’ persona…non sono ‘la’ persona»  (L. Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli, Torino 1996, p. 240).

5 Ibidem.

6 Cfr. H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991.

7 Cfr. D. Parfit, Reasons and Persons, Oxford University Press, Oxford 1984; tr. it. Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano 1989.

8 Cfr. V. Possentini, L’impiego dei concetti di persona in bioetica: due correnti di pensiero a confronto, HTML Document: http://www.portaledibioetica.it/documenti/000577/000577.htm

9 Ibidem.

10 H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, cit., p. 252.

11 Cfr. F. Manti, Bioetica e tolleranza. Lealtà morali e decisione politica nella società pluralista, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, p. 20.

12 Cfr. ivi, pp. 21-22.

13 Cfr. R. May, L’arte del counseling, Astrolabio, Roma 1991, pp. 49-63.

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