De maligno morbo “Bibliomania” dicto

Di: Marco de Paoli
1 Settembre 2010

La bibliofilia è una grave malattia sempre passibile di degenerazione in bibliomania.

Il conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, aveva rischiato la bancarotta per mettere insieme quella prodigiosa biblioteca, che occupa tutte le alte pareti di grandi stanze tuttora visibili nel palazzo di famiglia nella piazza centrale di Recanati, su cui il figlio consumò i suoi «sette anni di studio matto e disperatissimo», «abbandonato, occulto, senza amor, senza vita». Nella solitudine e fra i libri si fa in fretta a diventare colti e Giacomo lo divenne. Benedetto Croce invece, essendo ricchissimo, non corse rischi di bancarotta nel raccogliere nel suo grande palazzo nel centro storico di Napoli (Palazzo Filomarino), guarda caso là ove è via San Biagio dei Librai e nella attuale via Croce, una biblioteca di 70.000 volumi disseminata per nove stanze (ora conservata all’Istituto Studi Filosofici). E si potrebbe continuare con le grandi biblioteche private italiane: la biblioteca di Giovanni Spadolini con 75.000 volumi, di Luigi Firpo con 70.000, di Giuseppe Pontiggia con 30.000, di Federico Zeri nella villa di Mentana con 85.000 volumi (poi portata a Bologna con la ricchissima fototeca del grande studioso d’arte), quella di Mario Praz nella sua casa-museo sul LungoTevere a pochi passi da Piazza Navona a Roma, quella di Augusto Del Noce conservata a Savigliano nel cuneese presso la Fondazione che prende il suo nome, quella di Ludovico Geymonat con 6.000 volumi conservati in una grande sala (chiusa al pubblico) del Museo di Scienze Naturali di Milano, quella più piccola di Mario Dal Pra all’Università Statale di Milano e alcune altre ancora. Io amo particolarmente la biblioteca di Piero Martinetti: consta di 10.000 volumi e non si sa come potessero stare nel suo modesto podere presso Castellamonte in Canavese. Ora la biblioteca è conservata in una grande sala della Biblioteca di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, in via Po 19 ove ha sede l’Istituto Martinetti: sono volumi di filosofia, storia delle religioni, letteratura, in buona parte in lingua francese, tedesca, inglese, con molte opere classiche in latino e in greco, che ho potuto vedere sotto l’occhio diffidente del poeta Domenico Ferla che anni fa ne era il geloso custode. Poi una delle biblioteche più interessanti, che ho recentemente visitato, è quella conservata nella grande casa del Carducci, non quella natale di Valdicastello o quella di Bolgheri in Toscana bensì l’ultima a Bologna: 40.000 volumi, stanze che si susseguono foderate di libri, varie edizioni (comprese i rariora) di Opera omnia di Dante, Ariosto, Boccaccio, Tasso, classici della scienza come Galileo e Redi, della filosofia come Giordano Bruno, e poi letteratura francese da Victor Hugo a Baudelaire, e ancora letteratura tedesca, spagnola, inglese in un tripudio di Schiller, Goethe, Shakespeare, Cervantes, Byron. Ma la biblioteca che più mi ha intimamente toccato è stata quella nella residenza in stile neoclassico di Goethe a Weimar, in cui si possono ammirare – in stanze più spartane che io ricordo non troppo alte – vari scaffali colmi di vecchi grossi libri usurati dal tempo che avevano l’aria di essere stati sovente consultati. Non saprei dire quanti erano, sicuramente qualche centinaio, forse un migliaio. Ebbene, io non sopporto il culto delle reliquie, religiose o laiche che siano: non sopporto i femori e le clavicole dei santi nelle chiese come non sopporto il dito di Galileo esposto nel Museo della Scienza (Museo Galileo) di Firenze, e nemmeno indugio troppo se quel cappello era di Darwin o di Freud: però devo dire che, camminando lentamente a passi felpati su e giù fra quegli scaffali, oltretutto in un momento in cui non v’era pubblico ma solo l’occhio indulgente del sorvegliante che aveva capito, ero commosso e come turbato. Non potevo ricacciare indietro l’ovvio e banale pensiero: qui ha vissuto Goethe, questo libro che sfioro rispettoso è stato letto o sfogliato da Goethe.

Queste, in effetti, sono biblioteche di eccezionale valore. Viceversa invece rimango freddo quando, nelle mie peregrinazioni, mi trovo a visitare certe antiche dimore e castelli ove talvolta vedo biblioteche colme di libri pur spesso antichi (l’ultimo è stato il castello degli Orsini sul lago di Bracciano): la mia impressione è che in questi casi gli eredi, discendenti di antichi signori più usi alle armi che alla cultura, abbiano collezionato libri essenzialmente per motivi di prestigio, forse senza mai nemmeno sfogliarli. Non vedo un nesso, in quelle biblioteche, non vedo in quei libri intonsi un filo conduttore che mi parli della personalità e del mondo spirituale di chi li possedette. Evidentemente fu invece ben diverso per il grande studioso dei simboli e dell’iconologia Aby Warburg che, discendente da ricchissimi banchieri ebrei, rinunciò a qualsiasi eredità a condizione che la famiglia si impegnasse a comprargli per tutta la vita tutti i libri che avesse desiderato: più che per la famiglia fu un ottimo affare per Warburg, uomo tormentato che non solo si liberò come Wittgenstein della seccatura di dover gestire troppo denaro ma anche mise in piedi la poderosa Biblioteca (e Fototeca) dell’Istituto Warburg di Amburgo, poi portata a Londra e giunta a 200.000 volumi, in cui i libri -spesso rarissimi e preziosissimi- non erano originariamente catalogati per discipline o per periodo storico, anzi non erano catalogati affatto ma erano accostati in base a rapporti di “buon vicinato”.

Certo, la mania per i libri è veramente una brutta malattia. Karl Marx diceva di sé: «sono una macchina che divora libri e produce pensieri»; Antonio Gramsci -è vero che in carcere aveva molto tempo a disposizione- leggeva in media due libri al giorno. Ma la bibliomania può essere ben più grave. La leggenda dice che il lungo esaurimento nervoso, per non dire la vera e propria malattia mentale, di cui soffrì Isaac Newton fu dovuto al dolore per la perdita della sua biblioteca in un incendio: in realtà la cosa non sembra vera (abbiamo ancora del resto molti libri della biblioteca di Newton), ma l’aneddoto è significativo. Racconta il grande logico e filosofo Bertrand Russell, nella sua autobiografia che è in non piccola parte una galleria di Portraits from Memory di personaggi da lui conosciuti, di avere una volta domandato a varie personalità, onde saggiarne il grado di pessimismo, se avendone la possibilità avrebbero distrutto il mondo. Ma quando pose la domanda al poeta Bob Trevelyan, fratello del famoso storico e persona gravemente ammalata di bibliomania, rimase interdetto: «gli posi questa domanda alla presenza della moglie e del figlio -racconta Russell-, e lui rispose: “Che? Distruggere la mia biblioteca? Mai!”» (Autobiography, tr. it. Autobiografia, Longanesi, Milano 1969-1970, vol. I, p. 98).

Il mondo di carta di Sartre

Jean Paul Sartre narra -in un racconto autobiografico che è un roman d’une âme privo di eventi e tutto interiore (Les mots, Paris 1964, Gallimard)- la passione bruciante, nata nell’infanzia, per i libri: «J’ai commencé ma vie comme je la finirai sans doute: au milieu des livres» (p. 37). Il nonno ne possedeva molti e il precoce bambino si abbandonava alla lettura: «mi si lasciò vagabondare nella biblioteca e io diedi l’assalto all’umano sapere. È stato questo a formarmi (c’est ce qui m’a fait)» (pp. 43-44). La solitudine del piccolo orfano di padre cresceva fra tante letture, e diventava malattia: «io non ho mai razzolato per terra, io non sono mai andato a caccia di nidi, non ho mai erborizzato né tirato sassi agli uccelli. I libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna. La biblioteca era il mondo chiuso in uno specchio: essa aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità di uno specchio» (p. 44). Le letture alimentavano le fantasie di potenza e i sogni di gloria del piccolo solitario, che diventato adulto e famoso avrebbe detto che il vero desiderio dell’uomo è di essere Dio: «io ero La Pérouse, Magellano, Vasco de Gama» (p. 44); e Sartre parlerà (ne La nausée) dell’immaginario autodidatta che nel suo sogno di onniscienza era già giunto alla lettera “K” nel leggere tutti i libri della Biblioteca Nazionale di Parigi. La lettura era diventata una salvezza: «j’avais trouvé ma religion: rien ne me parut plus important qu’un livre. La bibliothèque, j’y voyais un temple» (p. 53). Nacque qui il sogno d’infanzia: scrivere l’opera immortale. Infatti, Lire s’intitola la prima parte di Le mots; Écrire, s’intitola la seconda parte. Così, seguendo un cammino classico del bibliomane, Sartre passò dal leggere libri allo scriverne.

Si capisce molto del pensiero filosofico di Sartre leggendo i suoi ricordi d’infanzia. L’incontro con il mondo, con le cose, con le choses, era mediato e filtrato dalle parole, dai mots, donde una sorta di alienazione e di estraniazione dalla realtà, da quella realtà che il filosofo esistenzialista avrebbe lucidamente descritto nei suoi libri come un qualcosa di insensato e opaco, di morto e indifferente: «c’est dans les livres que j’ai rencontré l’univers» e «de là vint cet idéalisme dont j’ai mis trente ans à me défaire» (p. 46). Sartre intraprese il suo cammino dai mots alle choses, e credette di liberarsi dai suoi miti letterari d’infanzia e dal suo mondo di carta e dal suo esistenzialismo nichilista trovando la vera salvezza nell’engagement, nell’impegno politico, in una forma di peculiare marxismo, nelle simpatie prima per l’Unione Sovietica comunista e poi, resosi conto del clamoroso abbaglio, per il castrismo e per il maoismo (con rinnovato abbaglio). Ma avvenne veramente questo passaggio dalle parole alle cose? Nella copertina della mia edizione di Les mots v’è la caricatura di Sartre che getta via un libro come liberandosene, ma in realtà non fu così: non è vero che in quel libro si consumasse (come scrive Bernard-Henry Lévy in Le siècle de Sartre) «un adieu à la littérature». Forse Sartre può anche averlo pensato, ma aveva un bel dire che la letteratura è «une longue, amère et douce folie dont il est urgent de guérir», aveva un bel dire che «il faut prendre congé d’elle», aveva un bel rimarcare «l’erreur d’être littéraire». Nella scrittura, non nel comunismo, trovò la salvezza e nella scrittura diede il meglio di sé: «j’écris toujours scrive nelle ultime pagine di Les mots. Que faire d’autre?» (p. 212). E la scrittura non era in lui funzionale all’engagement (quella era un’altra storia) bensì era il piacere e il culto della scrittura fine a se stessa, che scrivesse su Flaubert o su Baudelaire o su Jean Genet o sulla luce in Tintoretto: se contestava il culto elitario della beauté in Flaubert, ne restava avvinto dedicandovi duemila pagine e mai egli uscì veramente da quel mondo di parole e da quel suo antico sogno.

Il vizio assurdo

In realtà il vero bibliomane non vuole saperne di fuggire dai mondi di carta per approdare in questo o quel “mondo vero”: non si convincerà mai che il mondo immaginato da un Ariosto o da un Cervantes o da un Dante valga meno del “mondo reale”. Come l’hidalgo y caballero Don Quijote de la Mancha, che ha letto troppi libri sulla cavalleria senza accorgersi che non esiste più, il bibliomane farà fatica ad adeguarsi alla realtà e facilmente confonderà una scodella rovesciata con un elmo, una servetta con una angelica principessa e un mulino a vento per un pericoloso nemico da combattere. Così, come il barone rampante di Calvino, il bibliomane se ne andrà su un albero per mettere una opportuna distanza fra sé e il mondo: ma si porterà un libro. Del resto, si guardi attentamente il bibliomane circondato dai suoi libri, e se ne capirà la sottile perversione feticista. Visibilmente, egli non si accontenta di leggere i libri bensì li vuole possedere proprio come un libertino le donne. Li vuole contemplare, ammirare, toccare, accarezzare, annusare, sfogliare. Li gira e li rigira fra le mani, li mette da parte e poi li riprende. Se il libro è vecchio e intonso con le pagine attaccate, le separa pazientemente col tagliacarte come se compisse un rito (c’è anche un bel film di Bellocchio ove si mostra questo rito). Quando ha finito la lettura di un libro, egli lo sfoglia e risfoglia prima di riporlo in biblioteca come se volesse trarne l’essenza in un ultimo sguardo, come quello languido lanciato all’amata che sta partendo in treno. Freud, senz’altro, la definirebbe una evidente sublimazione ma certo nulla potrebbe essere più drammatico per un bibliofilo, e per un bibliomane, che il futuro mondo da incubo preconizzato da Truffaut nel film Fahrenheit 451 (tratto da un romanzo di Ray Bradbury), in cui una società perfettamente organizzata vieta la lettura dei libri e li manda al rogo in quanto passibili di instillare strane idee perturbando l’ordine sociale. Il bibliomane, se mai potesse sopravvivere in tale società, farebbe certamente parte -come la donna protagonista del film di Truffaut- di una confraternita, di una consorteria, di una società segreta usa a riunirsi in moderne catacombe ove leggere libri. E resterà sgomento, anche se forse segretamente attratto come da una liberazione, per l’inconsulta ribellione del protagonista del film di Olmi Cento chiodi, docente universitario nauseato che alla fine, dopo averne letti troppi, crocifigge i libri. Del resto, ammoniva Schopenhauer sul pericolo del leggere troppo: «Quando leggiamo, vi è un altro che pensa per noi; noi ripetiamo soltanto il suo processo mentale. […] Di modo che nel leggere il lavoro del pensare ci viene tolto per la maggior parte»; nel leggere senza tregua, aggiunge Schopenhauer, «lo spirito perde la sua elasticità a causa dell’invadenza senza tregua di pensieri altrui» (Parerga und Paralipomena, II, Del leggere e dei libri, § 291). Ma, se il rischio di cui parla Schopenhauer è reale, va anche detto che in realtà il filosofo – come appare dal proseguimento del suo discorso – intende anzitutto sconsigliare la lettura dei libri inutili, mediocri, alla moda, e quindi dannosi, per invitare alla lettura attenta, e capace di assimilazione reale, di ruminatio, dei libri di valore e soprattutto dei classici: d’altronde egli stesso possedeva una bella e vasta biblioteca (attualmente conservata nell’Archivio Schopenhauer di Francoforte) composta per lo più di volumi di filosofia, scienze e letteratura.

Mi si conceda una breve postilla personale. Anch’io, come il lettore avrà capito, faccio parte della schiera dei bibliofili, anzi dei bibliomani. Parafrasando Totò, potrei dire: “bibliomani si nasce ed io modestamente lo nacqui”. Sì, sono un esecrabile Don Ferrante di manzoniana memoria, che passa «grand’ore nel suo studio». Me ne vergogno ancora, ma ormai è fatta e lo confesso: quando era ragazzo, rubavo libri. Non tanti, intendiamoci, ma qualcuno sì. Lo confesso con lo stesso senso di colpa con cui Sant’Agostino confessava nelle sue Confessiones il furto delle pere. Ma l’impulso che mi mosse a tanto non era quello del Padre della Chiesa: a casa mia -diceva Agostino- avevo delle pere molto più belle, e io da bambino le rubavo nell’orto altrui non per necessità ma solo per quel desiderio di trasgressione in cui consiste il peccato. Invece per quanto mi riguarda la faccenda con i libri era diversa, perché io non cercavo il piacere peccaminoso della trasgressione, non lì almeno: a dire il vero anch’io potevo avere tutti i libri che volevo come il piccolo Agostino le sue pere, ma a volte, quando in biblioteca vedevo un libro particolarmente interessante che magari non trovavo più in libreria, me lo prendevo. In quel periodo dell’adolescenza era più forte di me, anche se poi per fortuna -come si suol dire- ho perso il vizio. Ricordo anche quella volta -alcuni miei vecchi amici la raccontarono ridendo per anni- in cui, sui vent’anni, feci un viaggio in Francia e, nella Borgogna pullulante di abbazie e cattedrali romaniche e di castelli, superai ogni limite: già dopo pochi giorni spesi in libri tutto quanto doveva bastarmi per un mese e dovetti tornare di fretta e furia, saltando i pasti e costretto ad andatura lenta con il carburante centellinato. E quando un mio amico molto tempo addietro mi disse con voluta provocazione che la mia biblioteca sarebbe diventata inutile, come ogni biblioteca, perché tanto ormai presto attraverso Internet si sarebbero potuti leggere tutti i libri di questo mondo riducendoli in microchips, lo guardai inorridito e scappai via come se avessi visto il diavolo in persona. Le diable, probablement, avrebbe detto Bresson. Beninteso però: era un demone invidioso.

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