Il colore della luna

Di: Giusy Randazzo
1 Novembre 2010

Scrivere non è un’arte facile, esattamente come il vedere non è un’operazione semplice. Paola Bressan ha saputo  ne Il colore della luna scrivere bene su quest’attività umana apparentemente tanto lineare nel suo automatismo.  I luoghi comuni che sfata, con un linguaggio divulgativo seppur scientifico, divertente seppur serissimo,  comprensibile seppur forbito, sono davvero innumerevoli, a cominciare dal fatto che in realtà se si dovesse  valutare la capacità del sistema visivo umano sulla base della «minuscola parte dello spettro elettromagnetico  che genera in noi sensazioni visive, la luce, […] compresa fra i 380 e i 700 nanometri circa: di fronte alla  vastità dello spettro» non si potrebbe concludere altro che «siamo creature praticamente cieche» (p. 8).

Altro luogo comune, la cui verità una volta rivelata non può che lasciare interdetti e addirittura far irritare pittori, imbianchini, tinteggiatori sprovveduti, uomini di scienza testardi e riduzionisti ingenui, riguarda i colori.

Gli oggetti non sono colorati. Il colore è un’esperienza puramente soggettiva che dipende da due cose: la luce che gli oggetti riflettono e le proprietà del sistema visivo di chi guarda (p.54).

 

Non è certo questa una scoperta di Bressan, che però nel suo libro non si limita a enunciare il già saputo in una forma migliore e corredata scientificamente da esempi laboratoriali ed esperimenti shockanti. Va invece oltre, cercando di proporre le proprie teorie laddove i risultati raggiunti sembrano ancora deficitari di una comprensione completa, come per esempio nel caso della costanza di chiarezza che ci consente di far rimanere inalterata la chiarezza di un oggetto benché l’intensità della luce cambi.

 

Consideriamo ora una cornacchia nera, il cui piumaggio rifletta solo il 5% della luce incidente. In una giornata di sole in cui l’intensità dell’illuminazione sia 10.000, la luce riflessa dal piumaggio della cornacchia sarà pari al 5% di 10.000, cioè a 500. La quantità di luce proveniente dalla cornacchia sotto il sole è molto maggiore di quella proveniente dalla neve sotto i lampioni (potrebbe essere perfino migliaia di volte maggiore), tuttavia la cornacchia appare nera e la neve bianca. (p. 85)

 

Pare che la motivazione della costanza di chiarezza risieda nella particolarità della scena in cui gli oggetti figurano e da particolari regole di ancoraggio. Secondo Bressan però non si tratta di un’àncora unica, ma doppia: una alla massima luminanza, che permette una stabile rappresentazione della scena «a dispetto di variazioni dell’illuminazione nel tempo» (p. 89), e una allo sfondo che «permette di distinguere fonti di luce e riflessi speculari da superfici semplicemente chiare» (p. 95).

 

Vedere gli oggetti dunque sia nei loro colori acromatici sia cromatici è un’impresa molto complessa che esperiamo grazie al nostro sistema visivo che ci consente una visione tricomatrica in grado di percepire ben 150 tinte differenti, moltiplicando le quali per i possibili valori di chiarezza e saturazione, raggiungiamo un numero di colori percepibili «prodigiosamente alto» che «si aggira […] attorno ai 7 milioni e mezzo» (p. 57).

L’esperienza percettiva degli oggetti dipende, dunque, dalla combinazione tra la luce -ovvero quella particolare forma di energia elettromagnetica la cui proprietà fisica è la lunghezza d’onda, che si può diffondere, rifrangere, assorbire, riflettere-; la disposizione del nostro occhio a far entrare la luce attraverso la pupilla, convertirla, grazie ai fotorecettori, in attività elettrica, trasmetterla, attraverso il nervo ottico, alla corteccia cerebrale; e infine la capacità di elaborazione complessa dell’informazione ricevuta che avviene per l’appunto al livello cerebrale. Insomma, «che il cervello risponda a certe proprietà del mondo e le rappresenti sotto forma di eventi nervosi è sicuro» (p. 47), eppure questo non è ancora abbastanza per comprendere perché «gli oggetti appaiono nel modo in cui appaiono»; di fatto però «che sedie, teiere e cappelli appaiono fuori di noi è presumibilmente un’illusione: in un senso ben più concreto, essi si trovano nel nostro cervello» (pp. 47-48).

Analizzando una per una le regole di Max Wertheimer -che all’inizio degli anni Venti teorizzò le ragioni per cui il nostro cervello è in grado di organizzare in un modo corretto tutti gli elementi presenti in una scena- Paola Bressan non può che concludere che «L’espressione “costruire il mondo” può sembrare una licenza poetica, ma non lo è affatto» (p. 119).

 

Quando vi guardate attorno non avete l’impressione di costruire le cose, ma di guardarle: le cose stanno là fuori e hanno quell’aspetto, indipendentemente dal fatto che voi le guardiate o no. Ma questa sensazione è dovuta unicamente al fatto che siete esperti e veloci nel costruire. Sicuramente non avete nemmeno l’impressione di trovarvi su una palla sospesa nel vuoto che ruota alla velocità di millesettecento chilometri all’ora (all’equatore), eppure è proprio così che stanno le cose (Ibidem).

 

La differenza con il mondo che viviamo quando sogniamo rispetto al mondo che consideriamo reale è che «il primo comincia quando ci addormentiamo, e il secondo quando ci svegliamo» (p. 120).

Molte delle capacità che ci consentono di percepire in modo corretto un oggetto sono innate, ma l’abilità che ne consegue e che permette l’esperienza si apprende abitando la terra. Una conoscenza, dunque, dipendente da un a priori che interagisce con la materia, senza la quale sarebbe certamente una vuota forma, così come la materia senza l’a priori sarebbe caotica, esattamente come sosteneva Kant.

 

Pur essendo stata preceduta da molti studiosi, Paola Bressan in questo testo ci sorprende  costantemente, rendendo impossibile controbattere. Soltanto quando ormai –messe totalmente in  discussione le nostre certezze teoriche- accettiamo la realtà dei fatti, al filosofo più ingenuamente  realista che si possa incontrare non potrà non venire in mente Ludwig Wittgenstein e non potrà  non domandarsi come mai non si sia mai chiesto perché il filosofo viennese abbia dedicato tanto  tempo alla riflessione sui colori, fino al punto che il loro studio ne causò la rivalutazione del linguaggio ordinario. Infatti, proprio attraverso i colori Wittgenstein comprese che la logica non  poteva descrivere la realtà in modo compiuto, determinando così uno iato insuperabile con l’esperienza. Le proposizioni atomiche infatti erano incapaci di rendere i colori senza generare contraddizioni logico-matematiche. Ebbene, Wittgenstein ha esplorato, negli anni Trenta, molte delle problematiche che, scientificamente sostenute, si ritrovano nel libro della Bressan, dimostrando ancora una volta la sua geniale acutezza, che emergeva dalla sua immersione nel mondo sempre filosoficamente pensato.

Dunque, chi fa della filosofia il proprio manifesto di vita e legge Bressan, dopo non può fare a meno di leggere Wittgenstein oppure viceversa: se ha avuto la fortuna di comprendere -pur non essendo uno specialista del filosofo viennese- l’importanza di Osservazioni sui colori, poi non può fare a meno di assecondare l’esigenza interiore di sapere a che punto sono gli studi relativi alla loro visione. Gli si augura soltanto di imbattersi ne Il colore della luna. D’altronde, scrive Wittgenstein: «In ogni serio problema filosofico l’incertezza arriva giù, fino alla radici. Si deve sempre esser pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo» (Osservazioni sui colori, trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2000, I 15, p. 7).

Paola Bressan
Il colore della luna. Come vediamo e perché
Editori Laterza
Roma-Bari 2009
Pagine 192

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