La pragmatica deweyana dell’intelligenza

Di: Massimo Vittorio
27 Luglio 2019

 

«È possibile essere a un tempo gioiosi e seri, e questo definisce l’ideale condizione della mente. L’assenza di dogmatismo e di pregiudizi, la presenza di curiosità e flessibilità intellettuale sono manifeste nel libero gioco della mente su un argomento. […] Gioco della mente significa apertura mentale, fede nella capacità del pensiero di preservare la propria integrità senza puntelli esterni o restrizioni arbitrarie»1.

Come talvolta capita, ci sono accadimenti biografici – e spesso aneddotici – dai quali si capisce molto del pensiero di un filosofo e delle ragioni che lo sorreggono. Come quando, per esempio, nel leggere Kierkegaard, si trovano indizi preziosi nel suo Diario, che corre parallelo alla pubblicazione delle sue opere. Spesso si tende a dimenticare che vi è una vita pensatache è tale in quanto vissuta e idee, concetti, teorie emergono sempre da un Erlebnis che si staglia sullo sfondo, perché «la proiezione di una vita migliore deve sempre essere basata sul riflesso della vita già vissuta»2.
Così, è significativo che una lectio, che John Dewey presentò alla Columbia University nel 1908 col titolo Ethics, fosse pubblicata due anni dopo col titolo Intelligence and Morals: dice molto di ciò che lo Statunitense intendesse per “morale” (e per “intelligenza”). Se aggiungiamo che questo suo breve saggio fu pubblicato all’interno di un volume di altri suoi scritti brevi, emblematicamente intitolato The Influence of Darwin on Philosophy (1910), il puzzle inizia a prendere forma.
Per Dewey, la rivoluzione darwiniana è la rivoluzione galileiana nel campo organico e biologico: Darwin ha detto «della specie umana ciò che Galileo aveva detto della terra, “e pur si muove”»3. Ma la grande influenza non è solo quella darwiniana; come ricorda, tra gli altri, Fernandes4, vi è molto del pragmatismo di Peirce nella concezione che Dewey elabora dell’intelligenza: l’idea che l’ordine delle cose sia incerto; che la conoscenza umana sia una costruzione finalizzata alla risoluzione di problemi concreti e al raggiungimento della soluzione migliore (noto è che Dewey criticasse pessimisti e, specialmente, ottimisti, proponendo la sua alternativa, il “migliorismo”); l’idea che l’intelligenza sia uno strumento al servizio della comunità (la cosiddetta “comunità di ricerca”). Questi sono tutti temi che ritroviamo trasversalmente in molte delle opere centrali di John Dewey, da How We Think (1910; 1933) a Experience and Nature (1925), da The Quest for Certainty (1929) a Logic: The Theory of Inquiry (1938), per citarne solo alcune.

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Ma è in Reconstruction in Philosophy (1920) che Dewey segnala alcuni passaggi indicativi. Al di là dell’auspicio volto alla necessità di una “ricostruzione della filosofia” (in particolare, della logica, dell’etica e della politica) su basi scientifiche, vi è il riconoscimento di una svolta storica: l’inizio dell’età moderna – che più volte era stata segnalata da storici e filosofi come punto di rottura rispetto ad un mondo passato e, soprattutto, rispetto ad una concezione del mondo non più sostenibile. Dewey opera una severa critica alla filosofia, puntando alla tradizione greca. Nel riconoscere a Socrate il grande merito di aver «portato la filosofia sulla Terra e dentro l’uomo»5, rimprovera ai successori, Platone ed Aristotele, di aver compromesso l’idea socratica collocando l’uomo nello stesso mondo in cui la filosofia era stata posta: un mondo al centro di cieli gerarchici situati nella purezza, il più lontano possibile “dalla grezza e fangosa Terra”. Per Dewey, dal programma socio-politico della città-stato greca, cioè da Platone in poi, la ragione è sì stata al servizio del bene comune, grazie alle qualità del filosofo-governante, ma ha sempre operato all’interno di una rigida gerarchizzazione di classi sociali – al cui consolidamento anche l’educazione si è prestata – che avrebbe trovato conferma, ancora secoli dopo, nell’ordine feudale.
Pertanto, la nascita della scienza moderna è la pietra angolare che ridefinisce metodi e concetti tradizionali e il cui campione è senz’altro Bacone, «che può essere considerato come il profeta di una concezione pragmatica della conoscenza»6. La celebre equazione baconiana, “sapere è potere”, fa proseliti e trova in Dewey un entusiasta seguace. Per Dewey, Bacone è l’emblema di una concezione finalmente rinnovata del sapere, di un uso pratico dell’intelligenza e di una critica senza quartiere alla vecchia logica aristotelica dell’argomentazione e della persuasione, alla quale si sostituisce la logica della scoperta. Ricorda Dewey che

quando si liberò la natura dalla morsa dei fini prestabiliti, l’osservazione e l’immaginazione si emanciparono e il controllo sperimentale a scopo scientifico e pratico ne venne enormemente stimolato. Poiché i processi naturali non erano più confinati a un numero fisso di fini o di risultati immutabili, poteva accadere di tutto7.

L’età moderna, già con Descartes, segna l’affrancamento dall’autorità: adesso, la natura, il mondo circostante e il cosmo diventano liberamente osservabili, manipolabili, sperimentabili. Che si tratti di sezionare un corpo sul tavolo anatomico alla ricerca della ghiandola pineale o di studiare le macchie solari, la natura perde la sua sacra inviolabilità. Il sapere diventa magico, mescola e combina, veleggia sui mari della curiosità e del possibile, esplora nuovi mondi, come alchimista o come navigatore. È la rottura del paradigma della “vecchia logica”, basata sulla ricerca di fini fissi e prestabiliti: il divenire non è più quello aristotelico, che corre sui binari che la natura ha posto; il divenire è deragliare, cambiare percorso e mezzo di locomozione. Lo stesso Dewey precisa:

Oggi se una persona, un fisico o un chimico, vuole conoscere alcunché, la contemplazione è l’ultima cosa che fa. Non sta a guardare un oggetto, per quanto a lungo e in modo intenso, sperando così di scoprirne la forma stabile e caratteristica. Non si aspetta che un esame siffatto gli riveli alcun segreto. Procede col fare qualcosa, imprimere una qualche energia all’oggetto per vedere come reagisce; lo pone in condizioni insolite per indurvi un cambiamento. […] In breve, il cambiamento non è più considerato la perdita dello stato di grazia, un errore della realtà o un segno dell’imperfezione dell’Essere. La scienza moderna non cerca più una forma o un’essenza stabile dietro ogni processo8.

L’età moderna segna così, e su un piano più ampio, la rottura tra scienza e filosofia o, in termini più tipicamente deweyani, tra vecchia e nuova logica. Una lacerazione che implica un rovesciamento del concetto di ordine: il sapere e l’intelligenza non operano più all’interno di un quadro di entità fisse e immutabili e appannaggio di pochi eletti; adesso il cambiamento, il mutamento di sapore darwiniano –quindi, come le mutazioni, casuale– è l’obiettivo della conoscenza. Il punto è che sia la filosofia, sia la scienza sono nate –come ricorda Dewey– da un animismo mitologico. Tuttavia, mentre la filosofia è rimasta ancorata al tentativo di identificare l’ordine, la scienza ha assunto gradualmente il compito di ridurre il capriccio dell’irregolarità a connessioni regolari. In questo tentativo, la scienza ha spostato l’interesse della conoscenza dalla conquista di entità assolute o di proprietà definitive ai processi, alle regole che collegano i cambiamenti:

No, la natura non è un ordine immutabile, che svolge sé stessa maestosamente dal filo della legge sotto il controllo di forze deificate. Essa è un ammasso indefinito di mutamenti. Le leggi non sono regolazioni che governano e limitano il cambiamento, bensì formulazioni convenienti di porzioni selezionate di cambiamento connesse nel breve o nel lungo periodo, e poi registrate in forma statistica per l’agevole manipolazione matematica9.

 

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Il progresso dell’intelligenza si verifica in due modi: o come accrescimento di conoscenza a partire da vecchi concetti, che vengono rivisitati e (parzialmente) ridefiniti; o come alterazione, non addizione, cioè come cambiamento qualitativo e non quantitativo – e qui potremmo ritrovare certi echi kuhniani. La filosofia non si sottrae, secondo Dewey, a questa distinzione; solo, essa è, come paradosso, incredibilmente conservatrice, non tanto nelle soluzioni che offre, quanto nei problemi a cui resta avvinghiata. Questo intrinseco conservatorismo –che Ortega y Gasset chiamava, con un ossimoro che ossimoro non è, “bigottismo della cultura”– radicato nella storica alleanza della filosofia con la teologia, è stato perfino rafforzato, dopo la Scolastica, dall’insegnamento accademico10. Qui sembra di ritrovare Giordano Bruno che si prende gioco di Manfurio –simbolo di questo conservatorismo accademico (e clericale)– allorché nella Scena VII dell’Atto III de Il candelaio, gli domanda: «Vorrei sapere da voi che vuol dire: pedante»11, ottenendone, nella risposta, definizione e satira.
Il pragmatismo rivendica per la filosofia la funzione di strumento per il problem solving –a tutti i livelli, da quello meta a quello applicato– e, secondo la dinamica pragmatica della transazione, invoca un rapporto diretto con l’ambiente. Il darwinismo non influenza la filosofia solo a grandi linee, nell’esorcizzare il ruolo del cambiamento e dell’errore, ma anche sul piano assai concreto dell’adattamentoall’ambiente – quello che Dewey chiamerà accomodamento. Lo spazio-ambiente è, del resto, la definizione propria di ήθος, come dimora dell’essere umano e, pertanto, l’etica «è la cura di collocare l’uomo nella sua “dimora”. La “dimora” propria dell’uomo è la dimora del nomade, non una sede abituale e stabile, non un luogo fisso, ma lo spazio, tutto lo spazio che il suo cammino è capace di esplorare»12. Intelligenza e morale s’incontrano nella filosofia deweyana come bussole per orientarsi nel mondo, a partire dal punto di vista del soggetto, dal luogo specifico che è sua la città invisibile della memoria o del desiderio (o una delle tante altre di Calvino), quel aquí che Ortega y Gasset individuava come punto-zero dell’esistenza individuale13, ma aperta e proiettata nell’incontro con l’altro – come possibilità o come pericolo – o in quell’altra dicotomia che de Certeau rendeva con ici-là14.
È in questo rapporto costante con lo spazio-ambiente che l’intelligenza diventa operativa, osservando, formulando ipotesi e testandone la validità: quell’animale è preda o predatore? Quella bacca è commestibile o tossica? Quel materiale utilizzato per rivestire il tetto di un palazzo è affidabile o cancerogeno? Il pensiero è pensiero-azione, sempre rivolto a ripristinare un equilibrio perduto: la punta della matita che si rompe e non mi permette di continuare a sottolineare, la corsa di un autobus soppressa senza preavviso, la pioggia improvvisa dopo aver lasciato l’ombrello a casa, il capo che chiede un lavoro per una scadenza ravvicinata, quell’informazione rivelatasi inesatta, sono tutti esempi di un ambiente che, in continuo cambiamento, ci impone continue risposte adattive. L’intelligenza è lo strumento col quale produciamo queste risposte e ne verifichiamo la validità. Quindi, intelligente non è soltanto colui che risponde, ma è colui che, dopo aver risposto e verificato, riconosce se sia necessario un ulteriore adattamento. In un’ottica evoluzionistica, del resto, l’intelligenza stessa è oggetto di modifiche e cambiamenti. Grosso modo negli stessi anni, a Dewey faceva eco Ortega y Gasset, quando affermava che

il destino dell’uomo è prima di tutto azione. Non viviamo per pensare, ma al contrario pensiamo per riuscire a sopravvivere. Questo è il punto fondamentale, sul quale a mio giudizio urge opporsi radicalmente a tutta la tradizione filosofica. Occorre cioè negare in modo risoluto che il pensiero, nel senso compiuto del termine, sia stato dato all’uomo una volta per tutte, di guisa che egli lo trovi a sua disposizione come una facoltà o potere perfetto pronto per essere usato e posto in esercizio, paragonabile alla possibilità data all’uccello di volare ed al pesce di nuotare15.

Nondimeno, Dewey denuncia che nella filosofia sono rimaste l’idea della conoscenza come contemplazione e l’idea che la vera conoscenza è conoscenza di ciò che è perfetto, immutabile ed eterno; ed è accaduto che, dopo Platone e Aristotele,

in particolare col neo-platonismo e Sant’Agostino, queste idee si sono fatte strada nella teologia cristiana; i grandi pensatori scolastici hanno insegnato che il fine dell’uomo era di conoscere l’Essere Vero, che la conoscenza è contemplativa, l’Essere Vero pura Mente Immateriale, e conoscere è Beatitudine e Salvezza. […] Ha anche tramandato a generazioni di pensatori un assioma mai messo in discussione: la conoscenza è intrinsecamente e unicamente contemplazione o visione della realtà, cioè una concezione da spettatori della conoscenza16.

Ed invece, la conoscenza è utilizzo dell’intelligenza in modo critico, servendosi della memoria e dell’immaginazione (come nei Gedankenexperimente) per formulare ipotesi, strategie, recuperare tradizioni ed esperienze di successo, per modificarle se opportuno, dando vita ad una valutazione dei possibili piani d’azione in relazione ai fattori che caratterizzano la situazione specifica. In effetti – e questo è uno degli snodi su cui si basa l’incomprensione di Dewey in Italia – il pragmatismo è un idealismo, solo che non è l’idealismo hegeliano, né quello gentiliano: Dewey riconosce l’importanza delle idee per la comprensione della realtà, ma le idee non sono altro che piani d’azione, progetti, intenzioni e programmi la cui validità può essere verificata solo dopo il riscontro empirico. L’intelligenza è la capacità di adattarsi, cioè di recuperare l’equilibrio rotto, formulando un piano d’azione, producendo un’idea: solo l’esperienza dirà se l’idea è valida o no. Il dogmatismo, su cui si basano le ideologie – o gli “ismi” tanto criticati da Ortega y Gasset – è esattamente la negazione di questa metodologia; è la pretesa di fare a meno dell’esperienza; è l’ostinazione di voler realizzare i piani prefissati nonostante tutto indichi un imminente fallimento. Il percorso che conduce alla “liberazione” dell’intelligenza continua sulla strada segnata da Descartes e Bacone;

Darwin dà un colpo definitivo al principio centrale della gnoseologia tradizionale: dal momento che non c’è alcuna realtà che si sottragga alla legge del mutamento, cade la distinzione tra esperienza sensoriale, come conoscenza delle cose che si trasformano, e perciò imperfetta ed inferiore, e scienza, come conoscenza razionale, certa, definitiva, del regno dell’immutabile17.

Non siamo dopo tutto lontani dalla visione di certe filosofie orientali in cui il pensiero è votato all’azione, più che alla contemplazione: per esempio, nel Tao, il saggio è colui che sa quando agire e quando non agire. Certo, è un’azione diversa da quella del pragmatismo, retta sul concetto del wu wei, cioè agire senza agire; delle tante metafore utilizzate da Lao Tzu, certamente quella dell’acqua è la più nota e indicativa: «Non c’è nulla al mondo più molle e debole dell’acqua, eppure nell’attaccare ciò che è duro e forte nulla può superarla»18; il saggio deve essere come l’acqua: si arresta se incontra un ostacolo, non lo forza, non crea tensione, ma è pronto a muoversi se l’ostacolo è rimosso. Nella prospettiva pragmatica, la filosofia è la scienza di questo accomodamento, di questo tentativo omeostatico di esistere nel mondo, di affrontare le sue sfide e di provare a riequilibrare – magari a nostro favore – le vicissitudini del quotidiano. L’intelligenza è lo strumento operativo di questo fare, è la via– appunto, il Tao– del saggio.
Ma, al di là delle possibili comparazioni, agli occhi di Dewey è in gioco un cambio di prospettiva radicale che investe anche la filosofia politica (se ci fossero dubbi sull’unitarietà del pensiero di Dewey): non si tratta più di possedere la conoscenza, ma di usarla. Se “sapere è potere”, non si tratta più di un sapere come potere sugli altri uomini, ma di un sapere come potere per gli altri uomini. La separazione tra scienza e filosofia, avviatasi alla fine del Medioevo, ha sancito la natura di ancillache la filosofia ha ancora nei confronti dell’autorità. Quando Bacone distingueva tre tipi di apprendimento, si soffermava nello specifico sul cosiddetto “contentious learning”, caratterizzato da “vane liti” intorno a dogmi19 – un po’ il “pedante” di Giordano Bruno. Il problema della vecchia logica, ben rappresentata da questo “apprendimento inutilmente polemico”, consiste nel fatto che mirava sì al potere, ma non nel senso baconiano-deweyano, in quanto mirava al «potere sugli altri uomini nell’interesse di qualche classe o setta o persona, e non al potere sulle forze naturali nel comune interesse di tutti»20. Nella prospettiva deweyana, retta sulle considerazioni di Bacone, la filosofia dovrebbe adottare la nuova logica del metodo scientifico, che si basa sull’osservazione e sulla formulazione di ipotesi da verificare con l’esperienza, e abbandonare la vecchia logica, inversa, che pretende di fare a meno dell’esperienza e dell’osservazione, perché il suo fine è quello di creare principi che giustifichino ex post una visione del cosmo, cioè, infine, il potere di un’autorità.
Il cambiamento di prospettiva, che abbiamo sperimentato con l’avvento della scienza moderna e che Dewey auspica possa investire presto o tardi anche la filosofia, ha conseguenze significative anche in uno degli ambiti su cui Dewey ha più scritto, per i quali è stato più letto e, ahimè – almeno in Italia – più incompreso21: l’educazione. Nel suo “educational scheme”, l’intelligenza pragmatica si articola in 3 punti, l’ultimo dei quali dichiara significativamente:

Uno degli ostacoli principali al progresso dell’umanità è stato l’abito mentale dogmatico, il credere che alcuni principi e alcune idee abbiano un tale valore finale ed una tale autorità che debbano essere accettati senza domande e senza revisione. L’abito mentale sperimentale, che considera le idee e i principi come metodi per tentare di risolvere problemi e di organizzare dati, è molto recente. Un’educazione basata sulla concezione pragmatica spingerebbe le persone inevitabilmente verso la necessità di testare continuamente le loro idee e le loro credenze mettendole in pratica e di rivedere le loro credenze sulla base dei risultati di tale messa in pratica22.

 

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Ed è qui che giungiamo al punto in cui il cerchio si chiude: separare politica, etica, pedagogia, estetica, logica è il più grande errore che si possa commettere nell’avvicinarsi a Dewey – e, ahimè, è proprio ciò che è stato fatto nei primi anni del Novecento in Italia. Se l’intelligenza è lo strumento attraverso cui l’individuo opera nel e sull’ambiente, è anche vero che quest’operare non è circoscritto alla sola sfera individuale: la grande lezione di John Stuart Mill sulla libertà individuale – e sull’emergere dei “geni”23– contro ogni “tirannia della maggioranza”, si basava sull’idea che il conformismo sociale, nel reprimere gli istinti creativi individuali, finisse col danneggiare non solo e non tanto l’individuo, ma la società tutta, che non poteva beneficiare del contributo di individualità che si muovevano fuori dagli schemi. Senza con ciò richiamare la critica di Nietzsche al cristianesimo, o l’argomento kantiano sull’utilità dello spirito competitivo degli individui per il progresso della civiltà, è certamente vero che Dewey s’iscrive a questa battaglia contro ogni omologazione, che la orteghiana ribellione delle masseha portato alla ribalta.
Allora, dovremmo parlare di intelligenze, perché una società pluralistica, aperta e multi-culturale, cioè democratica liberale nel senso pienamente deweyano, non può che avvalersi del fatto che i suoi individui adoperano l’intelligenza e contribuiscono al progresso della società nel risolvere problemi e fornire nuove strategie di successo. L’intelligenza non è soltanto lontana dall’essere una facoltà posseduta o ricevuta una volta per tutte – come fosse una delle “dotazioni iniziali” indicate da Rawls; nell’essere operativa e nell’essere essa stessa soggetta all’evoluzione, l’intelligenza opera trascendendo l’individuo e lavorando per la specie, cioè per la comunità. L’intelligenza non è una capacità individuale, ma uno strumento collettivo, «un metodo per dirigere l’azione sociale»24, uno strumento col quale prendiamo parte attiva alla società civile di cui facciamo parte. Di più: «La funzione dell’intelligenza in ogni problema che una persona o una comunità affronta è produrre una connessione efficace tra vecchie abitudini, tradizioni, istituzioni, credenze, e le nuove condizioni»25.
Si potrebbe obiettare che non tutti gli individui siano in grado di contribuire intelligentemente al progresso della società. Ma Dewey non è affatto d’accordo, ritenendo che la partecipazione alla società civile non richieda competenze specifiche: soltanto alcuni uomini inventeranno il treno o il telegrafo, ma non è corretto pensare che tutti gli altri non sappiano usarli se inseriti nel contesto sociale adeguato. Del resto, se parliamo di intelligenze è perché esistono diversi modi di essere intelligenti e spesso non è l’individuo a non essere intelligente, bensì è il contesto a non essere appropriato perché l’individuo riesca a far emergere la propria intelligenza26. Democrazia significa società liberale e aperta, in cui sono all’opera intelligenze libere che producono idee che liberamente circolano – a patto che vi siano le condizioni etico-sociali – oggi diremmo di welfare – perché ciò accada. Allora, sulla scia delle capacitazioni e dei funzionamenti, ai quali Sen e Nussbaum ancorano la dignità umana, bisognerebbe domandarsi:

Quale reazione suscita questo ordinamento sociale, politico, o economico, e quale effetto ha sulle inclinazioni di quelli che vi partecipano? Libera le loro capacità, e fino a che punto? […] I sensi sono resi più acuti oppure più ottusi da questa o da quell’altra forma di organizzazione sociale? La mente viene allenata perché le mani siano più agili e capaci? La curiosità è risvegliata o appannata?27

Una società in cui ciascuno è messo nelle condizioni di contribuire incarna, per Dewey, lo spirito democratico. Per lo Statunitense, la democrazia, prima di essere un ordinamento politico, è una mentalità: è la mentalità della società aperta e pluralistica che adotta la metodologia della scoperta scientifica e del dibattito scientifico, in cui si rifiutano i dogmi e le ipotesi circolano liberamente all’interno della comunità perché tutti possano verificarle e migliorarle. La democrazia è il garantire rispetto dei criteri e delle regole, affinché gli individui possano tutti contribuire, ciascuno a suo modo. Tutto ciò non è possibile se la società non condivide una pragmatica dell’intelligenza come guida per l’azione sociale. Perciò, come in Democracy and Education(1916), ogni democrazia si fonda sull’educazione dei suoi cittadini, in un connubio sugellato dall’intelligenza: allora non resta che impegnarsi quotidianamente perché non si ignori il ruolo dell’educazione; come spiegava Mill, se gli individui progrediscono, con loro progredisce la società tutta.

 

Note

1 J. Dewey, How We Think, in J. A. Boydston, (ed.), The Middle Works, Vol. 6, SIUP, Carbondale 2008, p. 351.
2 Id., «Intelligence and Morals», in J. A. Boydston, (ed.), The Middle Works, Vol. 4, SIUP, Carbondale 1977, p. 32.
3 Id., “The Influence of Darwinism on Philosophy”, in J. A. Boydston, (ed.), The Middle Works, Vol. 4, cit., p. 8.
4 Cfr. J. P. Matos Fernandes, «Democracy, Intelligence and (Sound) Education in the Perspective of John Dewey», in Educação e Pesquisa, 44, 2018.
5 J. Dewey, «Intelligence and Morals», cit., p. 34.
6 Id.,Reconstruction in Philosophy, in J. A. Boydston, (ed.), The Middle Workds, Vol. 11, SIUP, Carbondale 2008, p. 100.
7 Ivi, p. 119.
8 Ivi, pp. 144-145.
9 J. Dewey, «Intelligence and Morals», cit., p. 47.
10 Id., “A Recovery of Philosophy”, in J. Dewey, A. Webster Moore, Creative Intelligence, Holt, New York 1917, p. 5.
11 G. Bruno, Il candelaio (1582), BUR, Milano 2013, p. 116.
12 A. Masullo, Filosofia morale, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 36.
13 Cfr. J. Ortega y Gasset, L’uomo e la gente, (El hombre y la gente, in Id., Obras completas, Vol. X, Taurus, Madrid 2010), trad. di A. Boccali, Mimesis, Milano 2016, p. 79.
14 Cfr. M. de Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard, Parigi 1990, p. 150.
15 J. Ortega y Gasset, L’uomo e la gente, cit., pp. 31-32.
16 J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, cit., pp. 144-145.
17 M. Alcaro, “La riflessione di Dewey sulla scienza”, in AA. VV., Croce e Dewey. Cinquanta anni dopo, a cura di P. Colonnello e G. Spadafora, Bibliopolis, Napoli 2002, p. 201.
18 Lao Tzu, Tao Te Ching, Newton, Roma 2011, cap. 78.
19 F. Bacon, The Advancement of Learning, Clarendon Press, Oxford 2000, p. 21.
20 J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, cit., p. 96.
21 Su questo tema rinvio alla mia ricostruzione, «The Origins of the Italian Misunderstanding of Dewey’s Philosophy», in J. R. Shook, P. Kurtz, (eds.), Dewey’s Enduring Impact, Prometheus, New York 2011, pp. 339-347.
22 J. Dewey, “History for the Educator”, in J. A. Boydston, (ed.), The Middle Works, Vol. 4, cit., p. 188.
23 J. Stuart Mill, On Liberty, Oxford University Press, Oxford 2008, p. 72 e sgg.
24 J. Dewey, Liberalism and Social Action, in J. A. Boydston, (ed.), The Later Works, Vol. 11, SIUP, Carbondale 2008, p. 37.
25 Ibidem.
26 Cfr. E. W. Eisner, “The Role of Intelligence in the Creation of Art”, in D. Adair Breault, R. Breault, (eds.), Experiencing Dewey, Routledge, New York 2014, p. 201.
27 J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, cit., pp. 192-193.

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