Annotazioni sul presente

Di: Enrico Moncado
16 Novembre 2020

 

I Che cosa significa pensare?

La domanda è la partitura fondamentale del pensiero filosofico occidentale: dal socratico ti estì al dubbio cartesiano, dalla critica genealogica nietzscheana all’heideggeriana Frage nach dem Sein, la filosofia si è sempre posta domande. Alcune di esse sono rimaste insondate, ancora cariche di preziose prospettive. All’interno di questa storia non sono però i nomi o i contenuti filosofici di ciascun pensatore a contare in ultima istanza; così come non contano i molteplici orientamenti filosofici di cui oggi tanto si dibatte.
Ciò che conta è invece la domanda. Essa è l’atteggiamento metodologico fondativo del pensare, di un pensare che, di fatto, domandando comincia sempre daccapo. Si può convenire sul fatto che è proprio questo uno degli aspetti decisivi del pensare, specie di quello filosofico. Ovvero il saper ricominciare, il saper fare breccia entro lo statuto stesso dell’atto di pensiero, il saper tentare un altro, un nuovo inizio. E fa ciò, la filosofia, con lo sguardo rivolto contro ogni dogma e imposizione, contro ogni violenza che non sia il metodo proprio del suo pensare.
La domanda è anche lo spazio e insieme l’elemento linguistico dell’agire del pensiero. Quest’ultimo agisce pensando la questione, interrogando le questioni fondamentali. Fondamentali non perché siano più importanti di altre, ma perché pensano il fondamento, svelano – agendo – la fondatezza, la dignità, la verità della domanda. La domanda è anche e soprattutto esercizio di verità, della parola che è nella verità del discorso, nel dipanarsi quindi dello spazio di pensiero che si estende fra logos e aletheia, fra la parola e lo svelarsi di essa nella verità.
È questo, forse, il più grande insegnamento dell’agire pensante di Martin Heidegger: il saper porre la domanda, la questione. Si può anche essere d’accordo o meno sulla importanza del nome ‘Heidegger’ nel tracciato storico della filosofia, e tuttavia la cifra decisiva del suo saper pensare e insieme della filosofia intera è e rimane una profonda spregiudicatezza della domanda di pensiero. Pensare, già in Sein und Zeit, è un agire ermeneutico gettato e violento, dimodoché il pensiero nel suo comprendere il mondo, quale tessuto di rimandi che intesse l’esserci, e nella sua parola, che si fa comprensione esistenziale, è violento, è in un certo qual modo feroce. Il denken non ricompone dunque le maglie del reale, bensì abita già da sempre nella violenza di ciò che si impone; alla quale violenza non re-agisce ma a essa fa rispondere un’altra violenza. Tuttavia, il pensiero non è qualcosa di affatto scontato.
In Was heisst Denken? leggiamo di fatto quanto segue:

Il più considerevole è che noi ancora non pensiamo, continuiamo ancora a non pensare, benché la situazione del mondo diventi sempre più preoccupante. Questa situazione sembra invero esigere piuttosto che l’uomo agisca, anzi che agisca subito, invece di parlare in conferenze e congressi, muovendosi nella semplice rappresentazione di ciò che dovrebbe essere e di come lo si dovrebbe realizzare. In questa prospettiva, ciò che manca non è certo il pensiero, ma l’azione1.

Non manca una certa ironia nell’ultima battuta del testo appena riportato: ciò che viene meno, «in questa prospettiva» dell’oggi, non sono il pensiero e il suo pensare, ma è l’azione, la prassi. Il parlare, infatti, il tenere conferenze e seminari, l’incontro corporeo fra maestro e allievo sembrano ciò che è privo di azione, ciò che non risponde bene alla situazione attuale, nella sua preoccupante necessarietà. Il denken, ove realmente praticato, è con ciò cosa minore rispetto alla produzione concreta di risultati e insieme di dati di fatto che rispondono a un profitto certo o a una situazione reale.
Ma, al di là delle secche dualistiche che ragionano sul binomio ‘teoria-prassi’, la questione qui in tema è soprattutto questa: che cosa significa pensare? Pensare, potremmo concludere, è un agire che opera attraverso la domanda e in grazia del saper questionare. Per Heidegger, nonostante ciò, l’uomo occidentale – pur avendo pensato molto attraverso la scienza e la filosofia – non pensa ancora in modo corretto, non è ancora in grado di imparare a pensare: «L’uomo non è propriamente in grado di pensare, finché ciò che va pensato si sottrae»2. Una sottrazione di ciò che va realmente pensato mette quindi l’uomo nell’impossibilità di pensare, tant’è che l’uomo non pensa ancora o comunque lo fa in modo inessenziale. Aggiunge il filosofo: «La scienza non pensa, che non può pensare; per sua fortuna invero, perché ne va delle garanzie del suo modo di procedere»3. È questo uno dei momenti più discussi dell’intero testo se non dell’intero Denkweg heideggeriano. Cosa vuol dire che la scienza non pensa? Forse che la scienza sia da meno rispetto alla filosofia? Seguita il testo:

La scienza non pensa. Questa affermazione è scandalosa. Lasciamo all’affermazione il suo carattere scandaloso anche se aggiungiamo subito che la scienza ha comunque, sempre e in una sua maniera peculiare, che fare con il pensiero. Ma questa sua maniera è autentica e carica di conseguenze solo quando l’abisso che sta tra il pensiero e le scienze diventa visibile e se ne riconosce l’insuperabilità. Qui non ci sono ponti, ma soltanto il salto4.

Muovendoci sui margini concettuali dei passaggi appena citati, possiamo notare che sono molteplici i modi attraverso i quali comprendere e giustificare la scandalosa affermazione heideggeriana: dal presunto anti-tecnicismo del filosofo, alla sua lettura della storia della metafisica come storia di un ritiro dell’essere motivato da un sempre più pervasivo assolutismo soggettivistico; dal rapporto privilegiato che la scienza intrattiene con l’ente a discapito dell’essere, all’idea di una macchinazione calcolante che fa del reale un fondo di produzione e di profitto. Così come sono realmente innumerevoli e allo stesso tempo ben motivabili le strategie mediante le quali aggredire e decostruire l’affermazione ‘la scienza non pensa’. Ma un aspetto – ed è ciò che più ci interessa – di questa affermazione rimane realmente preoccupante, potente, scandaloso, sia per la scienza che per la filosofia.
Invero, la ‘scandalosità’ inclusa nell’affermazione la scienza non pensa induce, per molti motivi, a chiedersi quanto segue: se la scienza non pensa, perché non pensa? Che cosa significa, più in generale, pensare? La domanda apre uno spazio di convergenza che riguarda e la filosofia e la scienza, soprattutto se tale spazio, nel presente, si è fatto sempre più stretto, asfissiante e allo stesso tempo più confuso, dilatato, dilazionato.
La domanda, infatti, ha il pregio di scuotere la convinzione di un operare certo, ultimo e insieme definitivo. La domanda di pensiero spinge il comprendere dello scienziato e del filosofo a un’apertura verso l’intero contro il particolare, contro un esserci di pensiero che sia soltanto specialistico/prospettivistico. La domanda in questione – che cosa significa pensare? – pone la necessità, sia in senso epistemologico che euristico, di un interrogarsi sull’agire scientifico/filosofico che di volta in volta comprende non soltanto l’ambito oggettuale dei diversi saperi, ma anche la physis, la totalità esistenziale, sociale e politica in cui tali saperi necessariamente si radicano in un determinato momento storico.
La provocazione heideggeriana, da questo punto di vista, può anche risultare una guida preziosa, una frattura di pensiero che reclama un comprendere che sia misurato rispetto alla sua provenienza, al suo elemento originario. Porsi, come un mantra, la domanda che cosa significa pensare? implica la necessità di un pensare che mediti sul fatto che ciò che va realmente pensato, come sostiene Heidegger, è che il pensiero in alcuni attimi della storia può venire a mancare, può celarsi sottraendosi.
La sottrazione di pensiero si fa palese specie quando le scienze, le filosofie e, in senso più ampio, i diversi saperi perdono la loro proprietà e dignità di domanda sciogliendosi in un calcolo feroce che crea gerarchie e punti di vista autoritari.  La filosofia e la scienza, dunque, non pensano quando si trasformano in fede, norma e credenza; dimodoché il pensare, in tal guisa, non è più un agire che domanda mettendo in crisi lo statuto ontologico del dato di fatto, ma agisce confermando, giustificando il reale senza una concettualità che lo delimiti e lo racchiuda nella prassi del pensare.
Filosofia e scienza, seppure e correttamente da prospettive autonome, condividono lo stesso destino, la cui forma storica è il sottrarsi del pensiero nell’attimo in cui la morsa del tempo si fa più stringente. Tale destino, dunque, non afferisce soltanto alla scienza ma anche alla filosofia, in quanto la misura che registra lo svanimento del pensiero è interna al denken e al suo fragen, e non a una e a una sola delle due discipline. La sottrazione è con ciò un venire meno della domanda di pensiero che, proprio per la sua generalità, convoglia tutti i saperi; sicché l’affermazione di Heidegger, che è tacitamente una domanda, si fa preziosa e insieme violenta se praticata di volta in volta come parametro di comprensione del proprio tempo: la scienza non pensa? Che cosa significa pensare?

 

II A che punto siamo?

 Il pensiero nella sua molteplicità di saperi e scienze non è soltanto incardinato, per suo intimo rigore, entro una comunità scientifica di riferimento, ma è anche puntualità, è tempo che si fa materia ‘attimale’ ed è perciò pensiero che si contamina necessariamente con la storicità a lui prossima. Secondo la nota affermazione hegeliana la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero, ciò significa anche che il tempo nella sua forma più rara e sfuggente, e altresì più carica di conseguenze, è attimo. Quest’ultimo è una puntualità di coalescenze di vario tipo che reclama e chiama il pensiero a decidersi: «Si tratta di interventi puntuali, a volte molto brevi, che cercano di riflettere sulle conseguenze etiche e politiche della così detta pandemia e, insieme, di definire la trasformazione dei paradigmi politici che i provvedimenti di eccezione andavano disegnando»5.

Le parole appena riportate sono di Giorgio Agamben, le quali aprono il suo recente libello: A che punto siamo? L’epidemia come politica. Tali passaggi figurano nell’«Avvertenza», che ha lo scopo di introdurre il lettore, di guidarlo nel cuore della riflessione, nel cuore dell’attimo della domanda: a che punto siamo? In quale punto, in quale attimo di pensiero e di esistere storici ci troviamo?
Ammesso che le domande che si possono trarre dal testo di Agamben siano quelle appena indicate, un dato di fatto che riguarda il pamphlet è l’accanimento con il quale è stato accolto e recepito. Una furia di iureconsulti e di filosofi lo ha prima triturato e poi compreso – in silenzio, senza farne parola pubblica. Al di là di un siffatto dramma mediatico, il testo ha il pregio di esercitare – cosa che può sembrare un paradosso – una genealogia dell’attimo, del punctum. Un pregio che non è distante da un esercizio di pensiero profondo e acuto, da un pensiero stretto nella morsa della situazione, dell’attimo.
La tesi di Agamben è più o meno nota e la sintetizziamo con le sue parole: «Possiamo chiamare ‘biosicurezza’ il dispositivo di governo che risulta dalla congiunzione fra la nuova religione della salute e il potere statale con il suo stato di eccezione»6. Che cos’è la «nuova religione della salute»? Che cos’è «il potere statale con il suo stato di eccezione»?
La nuova religione della salute si manifesta e appare come il fenomeno decisivo degli ultimi mesi pandemici. Essa è infatti un accentramento ontologico e insieme eccezionale di uno dei tanti tratti attraverso i quali si esprime non soltanto la vita sociale ma anche e soprattutto la vita. La salute diventa religione nei termini in cui la ‘vita’ è rimessa a rispettare non una semplice norma, ma un dogma o una norma di tipo dogmatico; e ciò implica che la salute si impone, come accade adesso, in quanto assoluta protezione della vita biologica, della vita che preserva se stessa nel suo semplice esserci. Una simile disposizione normativa non può di certo sussistere senza un contesto politico, statale, sociale che la renda legittima. Stiamo quindi parlando di ciò che Agamben definisce «il potere statale con il suo stato di eccezione».
Un’eccezione, per definizione, è qualcosa di raro e temporaneo, un qualcosa che nel suo nascere scompare, ma non senza sortire effetti concreti. Agamben, più nello specifico, parla di uno «stato di eccezione permanente», cosa che è giustamente una contraddizione in termini. Lo stato di eccezione o è temporaneo oppure non è tale. Va osservato, però, che i termini e le definizioni non sempre producono una situazione di fatto, oppure che è la situazione di fatto a non essere tale.
Come definire, più dappresso, l’eccezione e con essa lo stato di eccezione? Lo stato di eccezione (Ausnahmezustand) – strumento di per sé poliedrico – è una commistione extra-normativa e parimenti politica, attraverso la quale si produce sovranità sulla base di un dispositivo endogeno e insieme esogeno al diritto, quale è la decisione sul caso di eccezione.
L’eccezione non è qualificabile ex lege – ciò comporterebbe, anche in questo caso, una contraddizione – ma è quanto chiama in causa l’origine della sovranità: un’origine che sta dentro e fuori il diritto attraverso una doppia cattura fra ciò che è e non è diritto.
L’eccezione crea altresì un rapporto fra vuoto e pieno, fra vuoto normativo e iperattività normativa.
L’eccezione non è qualcosa che accade ex abrupto, è invece un sancire, a partire da una situazione non ‘normabile’, che si dà eccezione, che ci è eccezione.
L’eccezione, nel suo essere decretata, determina anche e soprattutto un nuovo ordine dal disordine – senza che quest’ultimo venga però ‘superato’.
La biopolitica si inserisce in questo luogo fatto di pieghe e ripiegamenti tra ordine e disordine, vuoto e pieno, origine inaccessibile e accessibilità fondativa dell’origine, comportando irrimediabilmente una riconfigurazione dello spazio nel quale il potere reagisce e si ricostituisce. L’eccezione, ed è questo il ‘dato biopolitico’ più importante, media lo spazio interno nel quale potere e vita interagiscono, nel quale dunque la sovranità – decidendo – si appropria del suo originario diritto al comando di vita e di morte.
Il disordine mediante il quale l’eccezione si produce non è un accadere anomico ed esterno allo spazio sovrano (un nemico pubblico, ad esempio, che mette a rischio l’esistenza di un popolo), bensì è un disordine interno alla sovranità, è un’incompiutezza principiale che deformando dà forma a una restaurazione di ordine o a una nuova configurazione di ordine. Il nemico non è perciò fuori, ma è dentro, è dentro di noi e ci fa lottare un «polemos epidemios»7, una guerra civile che decostruisce o preserva un ordine di fatto.
Nello spazio liscio che intercorre fra vita e potere in una situazione eccezionale permanente, è il bios che, ricevendo una nuova forma, subisce una striatura biopolitica destinata a far parte irrimediabilmente del corpo sociale. La permanenza dell’eccezione non è infatti soltanto, nella sua forma più nota, una rottura costituzionale evidente e permanente (si pensi alla Repubblica di Weimar), ma è altresì una pressione che diviene costante nell’esistere sociale, politico e giuridico di un corpo collettivo. Sulla scia di Agamben e oltre, basti fare alcuni esempi: l’assenza di bilanciamento fra i diritti costituzionali e con essa una particolare gerarchizzazione degli stessi, il ‘distanziamento sociale’ – anch’esso un dispositivo eccezionale sia in termini che di fatto –, la ‘socializzazione virtuale’, la didattica a distanza, la ‘mascherina’. Sono questi tutti strumenti totemici del potere destinati a permanere per un lungo periodo, e che emergono proprio dalla piega tra ordine e disordine, dallo spazio kenotico che crea un nuovo ordine mobilitando il precedente.
A che punto siamo, dunque? Siamo nel punto in cui una epi/pandemia – decisa e stabilita – trasforma in modo radicale l’essere politico, o almeno un essere politico tradizionale: «Che cos’è una società fondata sul distanziamento sociale? Si può ancora chiamare politica una tale società? Che tipo di relazioni si possono stabilire tra persone che si devono mantenere a un metro di distanza, col viso coperto da una mascherina?»8. Agamben domanda, esercita la domanda, scaglia domande che genealogizzano l’attimo storico, lo scavano pensandolo. A queste domande si può rispondere per partito preso, oppure le si possono lasciare lì con tutta la loro violenza di pensiero.
La domanda, come è stato detto sopra, sta anche alla base di un esercizio del discorso vero, del logos parresiastico che dica il vero e che lasci spazio all’apertura, alla verità: «L’umanità sta entrando in una fase della sua storia in cui la verità viene ridotta a un momento del falso». Il mulinare mediatico, l’acclarato divenire della società in société du spectacle, la caduta del vero in assoluto momento del falso, indicano che «è il linguaggio stesso come luogo della manifestazione della verità che viene confiscato agli esseri umani»9. Una confisca che è più costosa della perdita di qualunque bene materiale, di qualunque esistenza soltanto biologica. È una confisca che sottrae il mondo, ed è, a tutti gli effetti, una perdita di mondo. Una perdita che è tale in quanto presuppone l’illusoria scissione della parte dal tutto, del singolo dall’intero sociale, politico, esistenziale.
Eppure, nello scenario presente, la vita biologica, la fede nella nuda vita, la credenza in una corporeità fatta soltanto di spirito legittimano un accentramento ontologico e, parimenti, oscillatorio dei saperi atti a interrogare e guidare l’attimo storico. Ciò appare chiaro quando il rapporto secolare fra scienza, fede e tecnica assume pregnanza teologica in senso trinitario, dimodoché è proprio questo trinomio a divenire un katechon paolino, un freno che salva; ciò che rattiene la vita e la morte in una dimensione di speranza che custodisce il corpo negandolo, negando il volto dell’altro con la sua esistenza individuale. Come è evidente, l’esercizio anti-corporale della fede in ciò che salva – ovvero nella tecnica – trasforma l’intero, l’olos, in un diorama di irradiazioni conflittuali e allo stesso tempo legittime: «La tecnica raggiungerà vertici tali che noi potremo ammantarci di aloni di luce e calore. Mirabile. Ma ancor più. Noi trasformeremo la materia del nostro stesso corpo in irradiazione»10. Irradiazioni ora tecniche, ora virologiche, ora medicali che – con le parole di uno Schmitt quarantenato nella cella di Ex Captivitate Salus – faranno del corpo soltanto un alone di luce, di gelido calore elettrico; irradiazioni che trasformeranno il corpo in non corpo. Siamo, infine, a questo punto?

 

III Che cos’è il potere?

Il punto è che «quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire»11. Così Don Abbondio giustifica il suo rifiuto a celebrare il noto matrimonio letterario fra Renzo e Lucia. E ha le sue buone ragioni per farlo, ché sono le ragioni di chi non solo sente fra i muscoli, le ossa e il cervello una paura atavica, ma anche di chi accoglie acriticamente in se stesso la forza del comando, del potere. Quando appunto la vita non la si deve contare, enumerare, catalogare, scindere in infinite frazioni (appestati asintomatici, appestati sintomatici, deboli, fragili) fino a farla disperdere nel terrore più profondo, cosa ne rimane? Quando non si obbedisce al potere, cosa rimane? Ciò che resta è lo spazio aperto di chi resiste sentendo il proprio esserci di pensiero come domanda costante: di chi sa che esserci significa praticare l’esercizio del vero, del domandare nell’ora e qui dello spazio-tempo che si è.
Don Abbondio, come suggerisce Alberto Giovanni Biuso, non è quindi soltanto l’«anima nera»12 del romanzo di Manzoni, ma è il punto di inizio di una fenomenologia del potere e delle sue ragioni, è un modello e insieme un paradigma. Il «paradigma Don Abbondio»13 è infatti una possibile guida epistemologica per scavare nel fondo melmoso del potere e della sua ricezione inconsapevole, ed è anche uno strumento che induce il pensiero alla domanda, alla serena violenza della domanda.
Anzitutto, dove agisce il potere? Qual è il suo Zentralgebiet? È senza ombra di dubbio la vita nella sua complessità e nella sua dimensione materica, sociale, politica e soprattutto corporea a dare fondamento ai dispositivi del potere. È nei corpi che il potere si esprime in tutta la sua forza. Nei corpi che vengono minacciati di morte improvvisa. Nei corpi che sentono l’angoscia di una perdita imminente: «Il dispositivo fondamentale dell’autorità tirannica, di ogni regime dispotico, è infatti ed esattamente la paura della morte che diventa pensiero ossessivo del decesso»14.
Quando il terrore e l’angoscia dilagano nel tessuto dell’essere al mondo, il mondo perde di significato insieme ai suoi rimandi simbolici; perde la potenza di linguaggio attraverso la quale il mondo stesso risponde con la pienezza di senso, fatta di caduta e ascesa, che intride l’umano. Il pensiero ossessivo della morte – intesa, quest’ultima, come vita che diviene cadavere – fa sì che ogni appiglio e aggancio di pensiero critico svaniscano nel vortice libidinoso di chi comanda e di chi esercita un totalitarismo mediatico. Il potere, nella sua forma più feroce, è quindi e per lo più comando terroristico e poliziesco che si fa carne nel corpo di chi al potere è sottoposto, di chi al potere non è in grado, per paura e terrore, di sottoporre la domanda di pensiero che è in se stessa una prassi: Che cos’è il potere? Chi è il potente che al potere obbedisce praticandolo?
Queste domande, che in verità sono una, operano sul piano inclinato del tempo. Come Agamben, Biuso, nell’attimo e nella necessità della domanda, s’interroga su che cosa sia la vita, la nuova vita in relazione ai dispositivi di controllo che spengono la luce materica della vita nella tenebra di chi comanda. La nuova vita, se così la si vuole chiamare, è la nuda vita di chi, assuefatto dalla televisione e ammalato di infodemia, educa la potentia dei corpi all’auctoritas: all’esercizio del controllo, del potere reciproco, della sorveglianza permanente.
Perché dunque, a causa di una minuscola e poco mortifera forma di ‘vita’ chiamata Covid-19, i corpi sociali, individuali e collettivi, hanno risposto e rispondono (ancora per poco, forse), nell’oggi, con tanta obbedienza al comando del potere con il suo stato di eccezione permanente? Quali sono le ragioni, al di là di quelle già indicate, che hanno dato fondamento a questa prima e riuscita mobilitazione totale da Covid-19? Perché i tanti don Abbondio (intellettuali, docenti, studenti) hanno rinunciato allo spazio e ai luoghi nei quali la vita, la loro vita, prende senso? Perché è stata accettata una gerarchizzazione dei diritti fondamentali della Costituzione italiana? Se «l’esistenza umana è incompatibile con il comando della separazione»15, perché è accaduto tutto ciò? Biuso dà molteplici risposte a partire dalle quali è necessario interrogarsi: la paura, il terrore, la dittatura televisiva, la scissione del bios dall’intero (la physis). Ai primi tre punti abbiamo dato una possibile ‘risposta’, l’ultimo punto rimane invece non interrogato.
Difatti, che uno dei motivi per i quali è stata accettata la mobilitazione totale sia una scissione del bios dalla physis vuol dire che l’umano si è creduto e si crede una parte autonoma rispetto all’intero, una parte che può essere l’intero. Nel primo senso, l’umano – in quanto individuo rarefatto – ha perciò la pretesa di poter esistere e agire al di là di una totalità che lo riguarda, una totalità animale, materica, sacra. Una totalità che sia mediazione fra olos e oikos. Nel secondo senso, invece, l’umano crede di rappresentare di per sé il tutto dell’essere e crede, per dirla con Nietzsche, che la sua sia la storia del mondo.
L’insieme di queste credenze è ciò che porta alla hybris, alla perdita di misura attraverso la quale si ritiene sia possibile separare l’umano dalla sua esistenza prassica. Ed è la stessa perdita di misura mediante la quale si perpetra un’indiscriminata ferocia ai danni dell’ambiente, degli animali, del sacro che è la convergenza dei divini e dei mortali. I quali specchiandosi nel cielo e nella terra abitano in comunione, nel rispetto della comunione in cui parte e tutto si attraversano reciprocamente.
Se questi sono alcuni dei motivi fondamentali attraverso i quali l’oggi è almeno in parte comprensibile, credere, dunque, di poter essere degli atomi isolati e isolabili che socializzano attraverso connessioni a distanza, credere di poter imporre al tutto lo scopo della parte, credere di poter sancire il senso dello stare al mondo senza uno sguardo che comprenda l’intero-physis, significa per ciò stesso sposare l’atteggiamento e il presupposto dell’agire indiscriminato del potere e del potente, che è un decretare, iusta causa,  privo di domande e insieme ricolmo di azioni criminose.
Che cos’è, dunque, il potere?
A che punto siamo?
Che cosa significa pensare?
Infine e sopra tutto: «A che cosa si è ridotta la vita, della quale tutti si ergono a difensori?»16.

 

Note

1 M. Heidegger, Che cosa significa pensare? [Was heisst Denken?, 1954], a cura di G. Vattimo e trad. di U.M. Ugazio, Sugar&Co, Milano 1996, p. 38.
2 Ivi, p. 40.
3 Ivi, p. 41.
4 Ibidem.
5 G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020, p. 11.
6 Ivi, p. 13.
7 Ivi, p. 81.
8 Ivi, p. 84.
9 Ivi, p. 67.
10 C. Schmitt, Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47 [Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945/47, 1950], trad. di C. Mainoldi, Adelphi, Milano 2019, p. 88.
11 A. Manzoni, I Promessi Sposi [1840], a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. XXV, p. 606; citato da A.G. Biuso, in id., «Vita e salute. Il paradigma Don Abbondio», in Aa.Vv., Krisis. Corpi, Confino e Conflitto, Catartica Edizioni, Sassari 2020, p. 27.
12 A.G. Biuso, in Aa.Vv., Krisis, cit., ibidem.
13 Ibidem.
14 Ivi, p. 35.
15 Ivi, p. 50.
16 Id., «Il volto, la morte, i giovani» in Corpi e politica, 23.10.2020.

* Colgo l’occasione per ringraziare Enrico Palma, i cui suggerimenti stilistici e formali sono stati assai preziosi per la definizione di alcuni momenti del testo.

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