Dalla tragedia al sillogismo: evento e forma

Di: Giovanni Dissegna
8 Luglio 2021

 

Apollineo e dionisiaco rappresentano, secondo un collaudato cascame ermeneutico, uno dei principali portati de La nascita della tragedia1. Nell’ispida asciuttezza del testo, sembra quasi che l’oggetto della contesa filologica, in nuce interpellata come istanza filosofica, si faccia spazio come linguaggio che, nominando la forma come estetica, venga al contempo da essa stessa formato. A partire da ciò, in questo contributo saranno indicate alcune tracce tematiche per mostrare come ciò avvenga non già per ragioni congiunturali o manieristiche, ma proprio in risonanza della domanda-conflitto cui l’oggetto del discorso tende: che rapporto sussiste tra l’estetica e la forma? Lo sviluppo della scienza estetica si trova a uno stadio che è, appunto, stasi, non riuscendo a operare il riconoscimento di se stessa con l’impulso originario da cui essa trae alimento. E, di più, è proprio la ricerca di riconoscimento che ne intensifica l’immobilismo: lo sguardo dell’arte, rivolto all’“oggetto-origine”, non vede altro che la maschera con la quale tale primum è offuscato o intravisto rendendo impossibile, con lo sguardo, attraversare le pur ridotte aperture che rendono tale la maschera stessa. In questo senso, la stasi dell’arte è anzitutto assenza di ékstasis e impossibilità di collocarsi al di fuori dell’orizzonte di comprensibilità dell’estetica come forma razionale, espressione artistica che cristallizza la dicotomia fittizia tra sensibile e sovrasensibile: da qui, l’irreversibilità dell’autoassolvimento razionalistico-moralistico euripideo, poi socratico e aristotelico, rispetto a ciò che significa la messa in opera del tragico. Ma questo, presentato come un fatto, non è più reso fruibile come verità: l’intento, o l’unica possibilità, di comprendere la civiltà greca rispetto alla sua scaturigine e non soltanto in relazione ai suoi effetti, consiste nella ricognizione di una figura doppia e primigenia, che possa perlomeno giustificare la decadenza come stadio dell’estetica.
Apollo e Dioniso sono interpretati come proiezioni archetipiche che, al contempo centrali e ausiliarie, orientano a ritroso verso la provenienza: il sacrificio rituale del capro (da cui la parola “tragedia”), localizzante e domestico nella dimensione di festa, ma altrettanto spaesante rispetto al rimosso che emerge come rito, si trasfigura nell’estetica tragica di Eschilo, Sofocle e Euripide che giocano, venendone al contempo “giocati”, nei confronti dello spirito simbolizzato e veicolato delle due divinità. La trasfigurazione tragica, però, assume già in prima battuta un valore contenitivo perché lenitivo del suo stesso spirito, riconoscendo così ab origine tale funzione, deformante perché formante, all’arte. Si tratta di un’impronta iniziale che, stante il mimetismo che l’arte assume verso il suo “esser-forma”, impedisce di riconoscere come il predominio euripideo della forma razionale sia già espresso nella comprensione stessa dell’apollineo e del dionisiaco. Essi, infatti, possono venire considerati impulsi artistici della natura2 non perché la natura operi da medium estetico: meglio sarebbe dire, piuttosto, che apollineo e dionisiaco sono impulsi artistici “verso” la natura. L’esser-forma è anche un prender-forma? È proprio da questo interrogativo che si avvia il gioco di specchi delle forme: la sintesi di apollineo e dionisiaco, da qui, non costituisce più un percorso di avvicinamento all’origine quanto una sua inconscia rimozione. L’artista tragico, vicario delle due forme polari, lungo il continuum che dalla vita conduce al pensiero della vita, è funzione vettoriale di allontanamento dalla sorgente del primo impulso, perso di vista a favore di un’identificazione della vita “vera” come spazio del dionisiaco, cui potrà eternamente opporsi soltanto l’ordinamento apollineo, in un gioco di specchi che riflette all’interno di se stesso un’immagine infinita e sempre più piccola, rendendone definitivamente impossibile il riconoscimento della prima impressione, del primo riflesso.
Il dionisiaco, come baluardo da contrapporre alla decadenza, non viene compreso nella sua struttura di forma: la falsa coscienza dell’estetica ne mimetizza il ruolo originario di maschera, immaginandone una configurazione pre-formale quando, invece, è proprio l’uniforme polarità di apollineo e dionisiaco, pur caratterizzata da una sorta di doppio legame con l’artista tragico, a costituire il primo movimento dell’estetica come forma pura. Oltre La nascita della tragedia emerge la natura di tale vincolo reciproco che, fittiziamente unificato dal razionalismo euripideo, pone l’artista tragico nel conflitto, nella consapevolezza che il gioco di forme tra apollineo e dionisiaco non costituisce che un pallido rimando alla vita, un segno pacificatore. La tragedia rappresenta, così, la prima maschera di allontanamento verso la forma, in cui residuano il sogno di Apollo e il canto di Dioniso. In questo senso, apollineo e dionisiaco configurano la prima estetica in quanto prima forma che si dà come maschera: la sintesi dei due, allora, non tanto pertiene all’artista tragico; piuttosto, egli è tale sintesi che, per mezzo della forma-tragedia, opera la trasfigurazione della realtà includendo il mito nell’arte. L’addomesticamento in forme richiama, dunque, non tanto la contrapposizione intellettuale di apollineo e dionisiaco quanto il loro ruolo mimetico rispetto alla vita qualificata come evento3, trasfigurandone l’insopportabile insostenibilità come contenuto della forma. Solo così il rimosso può operare in maniera perturbante, delocalizzando l’arte dalla regione vitale di pertinenza e sublimandola come estetica: in questo senso, la decadenza può essere concepita come un declino verso l’alto, verso il teoreticismo della ragione. Quest’ultimo atteggiamento costituirebbe allora il secondo movimento di allontanamento verso la forma: mentre nel primo, ossia la comparsa della maschera di apollineo e dionisiaco, lo slittamento si sviluppa in verticale distaccando, nella tragedia, la forma dalla vita, la bonifica in chiave razionale dell’elemento tragico avviene invece entro un piano orizzontale, teso e sbilanciato verso l’espressività onirica e proporzionata dell’apollineo.
Le ragioni del conflitto con il dionisiaco, identificato in antitesi rispetto alla pura forma tradizionalmente assegnata all’apollineo, vengono risolte indicando la co-appartenenza delle due istanze al ruolo di maschera formante e deformante:

Così si potrebbe in realtà simboleggiare il difficile rapporto fra l’apollineo e il dionisiaco nella tragedia con un legame di fratellanza fra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell’arte in genere4.

Nonostante la simmetria che li caratterizza, esiste una differenza che favorisce l’installazione egemonica, rispetto allo sviluppo della tragedia, a favore dell’apollineo: non si tratta, però, di un differenziale performativo, quasi come se la vis apollinea fosse superiore rispetto all’indeterminato dionisiaco, quanto di una comunanza reciproca posta in essere tramite un gioco di specchi che, evolvendosi in anelito formale, semplifica e contiene lo spirito tragico primigenio. Il mondo del dionisiaco, infatti, pur consentendo all’impulso vitale (da mascherare) di risuonare con maggior facilità, lo traduce e lo inquadra entro il “cattivo infinito” dell’indefinito e dell’indeterminato. Il passaggio all’apollineo non è dunque legato al contenimento del dionisiaco ma costituisce la struttura estetica più efficace per consentire all’arte di darsi e autoassolversi come forma, completando il processo di primo mascheramento messo in opera dalla stessa genesi della coppia apollineo-dionisiaco. Esiste quindi una linea della decadenza che si sviluppa verticalmente (l’arte come forma apollinea e dionisiaca in contrapposizione alla vita come evento pre-formale) e che, però, prosegue sul piano orizzontale privilegiandone i tratti apollinei5. I segni canonici di tale decadenza orizzontale risiedono nella struttura lirica della tragedia euripidea: la scomparsa del coro e la presenza ingerente del deus ex machina non rappresentano una risposta al dionisiaco quanto, piuttosto, una presa di posizione rispetto a ciò che non rientra nei canoni della forma. In questo senso è possibile intendere apollineo e dionisiaco non come una doppia manifestazione dello spirito tragico ma come una risposta formale ad esso e ricercata, da un lato, come luogo in cui individuarsi; identificata, dall’altro, come flusso incontrollato e violento.
Il rimosso della forma o, meglio, il rimosso “come” forma si riproduce nello sforzo di comprendere, mettendolo in scena, proprio tale spirito. Di nuovo, come di fronte a uno specchio, ciò che viene riflesso nella messa in scena della tragedia non è l’impulso naturale ma, come dramma, lo sguardo che l’artista tragico getta su tale impulso, filtrato e guidato dalla maschera di apollineo e dionisiaco. La pretesa antitesi tra il mondo vero e il mondo apparente germoglia a partire da istanze estetiche che, proprio nel negare il loro aspetto formale, lasciano intravedere la loro natura di forme. La maschera tragica è dunque un momento di passaggio nel percorso (concepibile, in ultima istanza, come decorso) che dalla vita come evento conduce al pensiero come forma. In effetti, tale percorso si risolve a favore della ragione, del già citato declino verso l’alto che, da Euripide a Socrate, favorisce e legittima l’approccio razionalistico come canale di riferimento per la comprensione della realtà, introducendo così un secondo movimento: la forma, da espediente estetico, diviene formulazione e risposta razionale.
Ciò avviene secondo una gradazione progressiva: se, in Eschilo, la tragedia risulta ancora regolata dall’intuizione, è con Euripide che la dimensione misterica dell’arte viene definitivamente meno per lasciar spazio a una prospettiva razionalistica e filosofica (una «tendenza antidionisiaca»6) che si svilupperà con il «logico dispotico»7 Socrate. Ma in cosa consiste lo sviluppo della forma oltre l’estetica? Che ruolo assume l’orizzonte pre-formale in seguito al dispiegamento razionale del pensiero? Se è vero che, all’interno de La nascita della tragedia, il bersaglio critico è rappresentato da Socrate e dalle istanze razionalizzanti che gli vengono fatte corrispondere, il predominio della forma maturerà una conformazione completa come lόgos apofantico, in particolar modo rispetto al territorio concettuale aperto dal sillogismo aristotelico.
È, quest’ultimo, il tracciato di Carlo Diano8: la massima espressione della forma risiederebbe proprio nell’impostazione complessiva, frutto di uno sguardo logico in quanto metafisico, del pensiero aristotelico9. Lì si compirebbe, sovrapponendo e intrecciando la trama nietzscheana con lo studio sulle forme compiuto da Diano, la piena manifestazione della forma nella sua contrapposizione non tanto al dionisiaco, quanto a tutto ciò che è “non-forma”. In questo senso, lo slittamento dalla forma come estetica alla forma come logica non rappresenta un’evoluzione progressiva dell’estetica quanto, facilitata dall’estensione onnicomprensiva dell’approccio apollineo e dunque tramite il passaggio intermedio della forma-arte, di una metamorfosi in chiave razionale della forma stessa. Secondo questo mutamento, che è in realtà attuazione, del paradigma formale, la costruzione sillogistica è in un rapporto di reciprocità con il calco euripideo-socratico che ha determinato lo sviluppo formale della prima maschera. È proprio il persistere della decadenza che rende intelligibile tale coappartenenza: se, infatti, la tragedia (pur sterilizzata dal sostrato misterico originario) è una maschera, per così dire, di primo livello, la conformazione formata-formante dell’impianto aristotelico è maschera di secondo livello sia in quanto sviluppo della prima, sia perché portatrice di un allontanamento sempre più vigoroso dalla “realtà dei corpi”. In questa prospettiva, l’irreversibilità della forma è tale in quanto non concepisce più il suo “essere” come proveniente da un’origine: essa si fonda sulla base dell’autoevidenza del pensiero, rimuovendo definitivamente il proprio ruolo di maschera a favore di uno sguardo che “spiega” la realtà pensando se stesso. L’aspetto pacificante della forma come logica, che sarà poi estremizzato e dilatato nella metafisica del motore immobile, deriva direttamente da una concezione “essenzialista” della forma stessa:

una forma che in sé contiene i contrari, e, come tutte le forme del nostro mondo sublunare, non ha realtà se non nella successione degli individui che nell’ordine del tempo la rivestono: [ma] questi passano, come le foglie della similitudine d’Omero10.

Nel tracciato aristotelico, il sillogismo categorico è fondato sulla forma, derivata come essenza universale rispetto alla manifestazione delle singolarità individuali. L’estrazione dell’essenza costituisce così il movimento di astrazione che caratterizza il processo di determinazione categoriale della forma: tale operazione, che da reductio ad essentiam si svilupperà come reductio ad fundamentum non distinguendo più l’essenza dal fondamento (e gettando le prime basi per lo sviluppo della metafisica della soggettività), assume la forma come antitetica rispetto all’evento. Quest’ultimo, pur in termini evocativi, rimane adombrato, nell’orizzonte territoriale della forma, come symbebekòs, ossia nel tratto che, in quanto accidentale, è sospensione dalla realtà intelligibile: se la conoscenza è tale in quanto ha come oggetto l’essenza, identificabile come universale rispetto a una serie di particolari (il primo gerarchicamente connotato e posizionato, a suo favore, rispetto ai secondi), allora tutto ciò che non pertiene all’essenza è nient’altro che accidente.
Da tale nozione, come accennato, risuona il senso della realtà come evento, nelle sue conformazioni (accolte e teorizzate da Aristotele) di autòmaton e tyche. In questa dimensione emerge il valore della forma-logica come seconda maschera: ciò che non è forma non possiede la dignità di evento, ma è considerata una specifica categoria non riconducibile all’essenza e, quindi, ancillare rispetto alla conoscenza.

Aristotele, nella Fisica, […] considera l’autòmaton come proprio degli eventi accidentali della sfera della natura e del mondo animale, la tyche, invece, come specifica del mondo dell’uomo. […] tutti gli eventi che non accadono in vista del fine e si sottraggono alla necessità della forma […] hanno come ultimo principio il nulla e si producono “da sé”11.

La rimozione dell’evento come fondato sul “nulla” e, quindi, sottratto alla necessità della ragione, costituisce così il centro nevralgico della realtà concepita integralmente come forma, fornendo sostanza e peso alla prima maschera emersa in ambito estetico. Se l’estremizzazione del mondo della forma risiede, come accennato, nella concezione di dio come primo motore immobile (prôton kinoûn akíneton) che, nella dimensione univoca di pura attuazione, è noûs con oggetto se stesso, la possibilità di interrompere il processo di mascheramento potrebbe risiedere proprio nella revisione della struttura logica che sorregge l’intera impalcatura metafisica fondata sul theoreín. La logica sarebbe, in questo senso, non tanto un punto di approdo quanto di ripartenza, ossia una condizione “dalla” quale (e non “per” la quale) è possibile gettare uno sguardo verso l’evento. È, in interlinea, la tesi di Carlo Diano: se il sillogismo aristotelico della forma, qui individuato come matrice strutturale della concezione razionalistica del mondo, opera una diminutio di ciò che è accidentale, il sillogismo stoico recupera invece, del per accidens, il tratto “eventuale”. Questo non già per reazione, ma in base a una presa d’atto fondativa rispetto alla necessità di riabilitare un diverso tipo di conoscenza, equidistante dal razionalismo apollineo quanto dall’irrazionalismo dionisiaco: tale baricentro, che è tale in quanto derivante da un equilibrio dinamico, costituisce il punto di fuga dal quale operare non uno “smascheramento” ma, quantomeno, l’interruzione del mascheramento.
Sfuggire alla necessità “necessitante” della forma può significare rivolgersi alla necessità del factum: tale mutamento di paradigma non è, però, una virata repentina: piuttosto, esso rappresenta la presa d’atto simbolica che la formazione del sillogismo non riguarda esclusivamente la vuota concatenazione logica di nessi causali ma, introducendone il carattere ipotetico, si riferisce a una dimensione ontologica che non trae più la sua necessità dalla sola forma. Nel sillogismo stoico, l’evidenza è posta primariamente sui «corpi come realtà storica, nell’atto in cui sono colti dal senso: come eventi: tà tugchánonta»12. L’aísthesis non è superata ma recuperata in chiave storica, per indicare l’insufficienza della forma (estetica e poi logica) come spiegazione onnicomprensiva del mondo. In questo senso svolge un ruolo primario il concetto di tyche, evocato nel termine tà tugchánonta. Paradossale e inconcepibile rispetto allo stoicismo13, l’elemento accidentale viene recuperato non come argomento “anti-logico” ma, forse in maniera meno evidente, nella dimensione di enigma, di domanda rispetto alla pretesa legittimità dell’esistenza concepibile come realizzata soltanto in chiave contemplativa. In questo senso, il dio degli Stoici

non contempla, ma fa: è per eccellenza “colui che fa”, tò poioûv. E, se come corpo è nello spazio, per il suo fare è nel tempo, ma l’essere coincidendo col fare, spazio e tempo fanno uno: perché la realtà è evento, e quindi storia, la storia delle sue epifanie14.

La logica stoica è, dunque, ontologia del tempo e dell’evento contrapposta alla metafisica dello spazio e della forma. Sarebbe tuttavia erroneo riconoscere un’opposizione diretta delle due concezioni: si tratta, invece, dell’indicazione di un principio, ossia «il senso della realtà come evento»15. Il rischio di una formulazione sintetica e conclusiva è mitigato dalla dimensione già evocata di enigma, di domanda, che essa porta con sé e che si esprime anche attraverso il passaggio dalla teoresi all’ipotesi: ciò che si schiude con il sillogismo stoico non è una formulazione vaga e prodromica di un Erlebnis, ma la possibilità ontologica di una riconsiderazione della nozione di forma. È infatti importante sottolineare come ciò avvenga, pur entro il territorio della logica, in chiave ontologica e non estetica. Il movimento, però, non corrisponde al raggiungimento di un obiettivo che sarebbe, seguendo l’argomentazione, lo smascheramento finale dell’irrigidimento formale in cui staziona il pensiero: è proprio qui che l’evento si costituisce come domanda, come segno e non nei termini di un’asserzione. In questo senso, l’apertura stoica indica la possibilità di poter concepire la forma come maschera e non come unicum del pensiero: tale apertura, che è una “crepa”, non costituisce una delegittimazione della ragione universale ma ne indica, piuttosto, l’orizzonte entro il quale è possibile inserire in prospettiva tale predominio formale, concependone il ruolo mimetico espresso originariamente secondo il medium estetico. In questo senso si spiegano l’introduzione e la centralità del concetto di tyche:

Dove non c’è tyche, non c’è storia: nei cieli, il cui moto ha l’immobilità dell’identico; al di là dei cieli, dove la forma è attività pura, il nudo e astratto intelletto del motore non mosso; nell’intelletto dell’uomo [e in] quello divino […]. Ed è nell’ozio contemplativo di questo intelletto che Aristotele […] invita l’uomo a rinchiudersi16.

La logica stoica, così, si svincola dal lόgos apofantico per costituirsi come riferimento ontologico dell’eventualità temporalmente connotata, ma non conduce ad essa come a una méta: piuttosto, il rimando alla dimensione pre-categoriale in quanto pre-estetica (perché è dall’estetica, come si è visto, che si può sviluppare il mondo come forma) costituisce una fenditura dalla quale è possibile cogliere l’estetica e la logica come maschere: in questo senso l’evento, proprio perché non rappresenta un punto d’arrivo, è l’apertura che, trasparente, rende così visibili le prime due.
L’evento, svincolandosi dal principio di individuazione così come dalle turbolenze dell’indistinto, entra in rapporto con ciò che è pre-categoriale: lontano da essere principio di “svelamento”, esso rappresenta piuttosto lo sfondo dal quale è possibile prendere atto del mascheramento, interrompendone il ciclo di sovrapposizioni. La rilettura dalla necessità-necessitante della forma conduce il pensiero dell’evento a superare l’horror vacui espresso dalla forma-tragedia così come dalla forma-logica, per trovare un elemento di confronto diretto con il “nulla”. Distanziandosi da ricadute moralistiche o fondazionali, il nulla cui l’evento si riferisce, e sul quale esso è fondato, consente di recuperare e rileggere il ruolo della forma, ripartendo dall’estetica e schiudendone il rapporto di reciprocità, latente, con l’evento. La forma, ora, «non si manifesta [più] nel suo splendido isolamento»17, ma è interpellata, come arte, «tra la verità contemplabile del visibile e i condizionamenti epifanici dell’evento»18.
Di essa si opera una trasfigurazione che ne recupera una nuova prospettiva proprio in virtù della presa di legittimità dell’evento come orizzonte pre-formale: «è Dioniso che irrompe nel mondo delle forme e lo sconvolge, un Dio che ha il simbolo di una maschera cava: la forma vuota e precaria che l’evento riveste nei suoi mutevoli aspetti»19. La cavità della maschera recupera la dimensione simbolica del nulla, come calco negativo della maschera stessa; ma tale vacuumapre anche la possibilità di una nuova messa in opera, di un gioco che, circolarmente, recupera il legame originario di forma ed evento, facendo emergere la relazione che ne contraddistingue, come domanda e oltre la lettura “oppositiva” veicolata dalla razionalità, il problematico rapporto reciproco.

 

Note

1 Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, nota introduttiva di G. Colli, versione di S. Giametta, Adelphi, Milano 1978.

2 Cfr. ivi, p. 21: «Per accostarci di più a quei due impulsi, immaginiamoli innanzitutto come i mondi artistici separati del sognoe dell’ebbrezza; fra questi fenomeni fisiologici si può notare un contrasto corrispondente a quello fra l’apollineo e il dionisiaco».

3 R. Bodei, «Cristalli di storia», prefazione a C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, Marsilio, Venezia 1993, p. 9: «[L’evento] costituisce un vissuto, non un pensato. Riguarda la finitudine dell’hic et nunc di ogni cuique a cui si manifesta e, simultaneamente e inseparabilmente, la periferia spazio-temporale indeterminata e infinita nella quale l’evento è inserito e da cui proviene, ossia l’indistinta, informe, tremenda e ineludibile presenza complementare dell’ubique et semper».

4 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 145.

5 C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, cit., p. 53: «oltre la forma c’è l’evento: ne è l’ombra non appena questa si muove, e nessuna divinità è interamente una divinità della forma, neanche Apollo, in cui se n’è vista l’espressione più alta: come dio che porta la morte e risanatore, come dio della mantica, è dio dell’evento».

6 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 97.

7 Ibidem

8 Cfr. C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, cit.

9 R. Bodei, «Cristalli di storia», cit., p. 11: «Con il sillogismo aristotelico, dunque, la forma rimuove l’evento; con quello ipotetico stoico l’evento riassorbe la forma».

10 C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, cit., p. 35.

11 Ivi, p. 41.

12 Ivi, p. 36.

13 R. Bodei, «Cristalli di storia», cit., p. 27: «Com’è che dalla luminosa categoria della forma si regredisce nuovamente al vissuto dell’evento, da cui però con gli Stoici nascerà anche una vera e propria logica, dando luogo all’apparente paradosso per cui si può parlare – in termini di universale, di logos – dell’individuale e del caso?».

14 Ivi, p. 37.

15 Ivi, p. 39.

16 Ivi, p. 51.

17 Ivi, p. 25.

18 Ivi, p. 21.

19 C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, cit., p. 57.

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