Biuso, Disvelamento

Di: Lucrezia Fava
1 Settembre 2022


Alberto Giovanni Biuso

Disvelamento
Nella luce di un virus
Algra Editore, Catania 2022
Pagine 146
€ 12,00

 

Per amor proprio, per attaccamento a certi ideali, per una radicata, meccanica e funzionale ripetizione degli schemi mentali, per credenza e assuefazione alle narrazioni mediatiche pubbliche e istituzionali, per tutti questi motivi e per altri ancora più difficili da definire, noi fatichiamo ad accogliere questa verità elementare: l’epidemia Sars-Cov2 ha reso evidenti ed efficaci «le fonti e i modi del Dispotismo e della Servitù» (47). Dunque l’arbitrio del Potere, e con esso la rovina delle dinamiche normali e naturali della vita individuale e comunitaria, la cancellazione dei significati condivisi; e l’Obbedienza praticata o credendo nella sua necessità, o con rassegnazione e indifferenza, o con disprezzo e rabbia quando appare ingiusta, miope, esiziale ma non è possibile evitarla, non del tutto.
Il Male causato da chi esercita il dominio e da chi alimenta questo dominio inseguendo il fine annunciato, profetato, reso supremo, urgente e indiscutibile di debellare il Covid19, è una realtà che viene continuamente ignorata, smentita e mascherata perché si pensa che sia giusto o inevitabile ciò che è stato fatto e che si fa per arginare il virus. Ma questo Male c’è ed è possibile comprenderlo con gli strumenti adatti del desiderio di conoscenza, della riflessione e dell’apprendimento critico, vale a dire con quella tecnica essenziale che è la filosofia. È la filosofia di libri come Disvelamento. Nella luce di un virus di Alberto Giovanni Biuso. 

Il successo e il senso di Disvelamento sta infatti nel mostrare tutto il male emerso dallo scoppio dell’epidemia Sars-Cov2, o meglio, da una minaccia specifica denominata Sars-Cov2 che secondo l’autore è servita come combustibile di dinamiche politiche, sociali, economiche e culturali che sono distruttive per l’esistenza, che hanno una logica nichilista, che non soltanto esulano dal campo delle azioni necessarie o per lo meno utili a immunizzare l’individuo dal virus, ma anche limitano, logorano, contrastano ciò che realmente serve a tutelare, curare, migliorare la salute umana. Queste dinamiche, dunque, mentre vengono pubblicizzate e imposte come necessarie a proteggere il nostro organismo dalla Sars-Cov2, al contrario disintegrano proprio le condizioni indispensabili alla buona salute dell’individuo e della sua comunità. Non può che essere così, se è vero, come sostiene Biuso, che al fondo di esse vi sono l’ignoranza, l’alterazione, l’incomprensione dei significati di salute e malattia e più in generale di che cosa sia il corpo umano, di come si compia la sua identità, il suo senso, la sua vita piena e gaia.
In questo stato dilagante e profondo di ignoranza «quello che sta accadendo è molto pericoloso perché si sta ridisegnando lo statuto dei corpi, di che cosa sia un corpo, che cosa può fare, che cosa non può fare, che cosa un corpo deve fare» (71). Ma alterare le condizioni naturali in cui esiste la corporeità umana, voler riscrivere le esperienze possibili, le capacità e i bisogni di essa, significa minare l’esistenza in ogni sua dimensione costitutiva. Nel suo Disvelamento Biuso fa una diagnosi estremamente negativa dell’attualità proprio perché come origine e fine degli interventi, dei comportamenti, delle tesi e dei dati siglati Covid19 egli riconosce un’incomprensione radicale e un degrado della vita umana altrettanto radicale, giacché da questa incomprensione nasce e a questa incomprensione inchioda.
È evidente quindi, in Disvelamento, che la nuova epidemia e minaccia non è e non può essere vissuta come un problema esclusivamente biologico, esclusivamente medico o sociale, e non può essere gestita servendosi soltanto dei dati delle scienze dure e di strumenti tecno-scientifici. Un problema sanitario «costituirà sempre anche una questione di natura sociale, politica, culturale» (45), al chiarimento della quale sono essenziali la visione, la conoscenza, la verità e la misura, in una parola, la gnosi, che soltanto la filosofia produce. «A questa altezza della questione ogni riduzionismo sociologico, medico o di altra natura si mostra evidentemente del tutto inadeguato. Ogni prospettiva positivista può infatti comprendere gli effetti ma non può che restare ignara sulle cause. La gnosi, invece, è conoscenza di tali cause» (129). Se non afferriamo questo punto non arriviamo ad alcuna spiegazione adeguata, ad alcuna soluzione giusta, ad alcuna cura efficace del presente. Non si tratta di ‘minimizzare’ la nocività del virus, i risultati di commissioni scientifiche, le competenze di agenzie del farmaco, le notizie di morte e malattia, e di occuparsi d’altro. «Si tratta di capire la complessità di ciò che accade e di affrontarlo con coraggio e lucidità, sine ira et studio, con equilibrio esistenziale e scientifico. Il contrario di ciò che informazione e politica praticano a proposito del coronavirus come di tutto il resto, il contrario di ogni fideismo, il contrario di ogni cieca fede nell’onnipotenza degli Stati anche nei confronti delle malattie, della finitudine, del morire» (13), il contrario della maniera in cui si è risposto all’emergenza coronavirus.
Una maniera infima, autolesionista, innaturale, feroce. È vile e disumano infatti lasciare che degli innocenti muoiano «da soli, nella disperazione della fine, nella distanza dai propri affetti e figli, nel gelo di istituzioni geriatriche sbarrate a chiunque non sia tra i controllori della vita che muore mentre muore piangendo e soffocando senza che nessuno stringa la mano del morente» (103). Se viene negato persino «l’ultimo baluardo della socialità, il dolore intorno al defunto e il pianto rituale sul suo cadavere, vuol dire che mediante il terrore del contagio l’autorità è riuscita a penetrare nel luogo sacro della vita assorbendola interamente ai propri parametri e obiettivi» (Ibidem).
Al coronavirus si è risposto con la stasi, l’inettitudine e la fuga dei corpi assediati dalla paura per questo fenomeno mostruoso che è parso ovunque e in ogni cosa, non perché fosse effettivamente onnipresente ma perché è diventato tale nel rapporto deviato e inquieto del Sè con la sua stessa costituzione esistenziale, in quel rapporto cioè insidiato, annebbiato, inquinato continuamente dal «fantasma di una salute immaginaria» (112) e da un generale, totale e vano rigetto della mortalità del vivente.
Nel tempo presente domina infatti «la concezione che nella morte vede il male assoluto e tenta quindi in tutti i modi di allontanarne l’accadere e di relativizzarne la potenza» (138). Nel tempo presente, di conseguenza, domina  anche «la tendenza igienista di società che si danno l’assurdo e raggiungibile obiettivo di trasformare l’esistenza dei corpi nel grado zero del rischio, nell’utopia della salute come diritto inalienabile. A costituire un diritto sono le cure e non la salute, la quale per definizione è destinata a dissolversi, poiché i corpi muoiono, tutti i corpi […] Un irrazionale igienismo trasforma la vita in un angosciante Sein-zum-Tode, in un essere per la morte continuamente paventato, esorcizzato, negato. […] l’inevitabile dialettica del vivere fa sì che più si tenta di allontanare il negativo più esso si espande. Il risultato è un vivere da defunti, un essere morti già da vivi, il trasformarsi in zombie» (111-112).
Si è risposto al coronavirus fomentando emozioni negative come il timore, l’odio, l’aggressività per coloro che non hanno rispettato le direttive dei governi e non hanno condiviso il dettato dell’informazione pubblica, ma hanno invece mosso delle obiezioni che avrebbero meritato risposte adeguate o sono apparsi semplicemente e comprensibilmente scettici. D’altra parte, sul fenomeno della Sars-Cov2 si è esercitato un terrorismo politico, sanitario e mediatico che non poteva che provocare il panico, l’odio collettivo, l’indebolimento e la frammentazione del corpo sociale. Se non si pone un freno a questa «psicosi di massa, ogni altro membro del corpo sociale diventa un potenziale pericolo e quindi un nemico. La dissoluzione del contatto sociale diventa in questo modo la migliore garanzia per chi governa […] È chiaro infatti che degli atomi sociali irrelati non potranno unirsi tra loro per contrastare le decisioni di colui che comanda» (50). Questo «è il sogno di ogni potere autoritario. È questo sogno che si va realizzando sotto i nostri occhi ormai complici, distratti, rassegnati» (72).
A sostegno della causa anti-Covid19 sono riemersi anche «l’oscurantismo, che trasforma la scienza in una vera e propria religione» (125); «la superstizione, […] capace di trasformare gli scienziati in maghi al servizio dell’autorità politica» (Ibidem); il moralismo di «etichette sbrigative, mediatiche e cumulative quali ‘negazionisti’, ‘complottisti’, ‘novax’» (64); il moralismo delle colpe commesse e delle pene che devono colpire i dissidenti, della necessità salvifica di sacrifici con cui la vita svigorisce, diventa triste e fanatica. Stanno riaffiorando negli anni Venti del XXI secolo «antiche tendenze ascetiche e penitenziali, intrise di risentimento e di odio. Tutto questo condito con l’immancabile ingrediente di ogni ferocia: il sentimentalismo» (126) preconfezionato delle comunicazioni di massa.
Tra gli interventi disposti contro l’epidemia figura anche la didattica a distanza, cioè la fine del reale processo educativo. L’insegnamento infatti «consiste nell’incontro tra persone vive, tra corpimente che occupano lo stesso spazio tempo non per trasmettere nozioni ma per condividere un mondo» (73-74). «A distanza tutto questo è semplicemente impossibile poiché università e scuole non costituiscono un servizio amministrativo, burocratico, formale, che possa essere svolto tramite software; università e scuole sono un luogo prima di tutto fisico dove avviene uno scambio di totalità esistenziali» (74). Sebbene sia facile riconoscere i limiti e i danni di questo sistema scolastico e universitario in costruzione, i governi ma anche non pochi docenti insistono sull’utilità incondizionata di questo assetto diseducativo. «‘Apprendere a distanza’ è infatti una delle caratteristiche dell’idiota digitale che si vorrebbe tutti noi diventassimo» (76).

Ma il modo in cui gli umani hanno reagito all’epidemia significa molto altro. Significa praticare un rigido riduzionismo epistemologico, secondo il quale conoscere equivale ad aderire alle tesi di alcuni autorevoli scienziati che vengono annunziate, fraintese e imposte come la Verità di tutti, e dimenticare che ciò che serve all’esistenza è sempre e soltanto il prodotto della pluralità, della differenza, dello scambio, della maturazione e del tempo duraturo dei saperi. Biuso rimarca che una delle prime vittime del Covid19 è proprio la scienza, anche a causa di un «utilizzo irrazionale, arbitrario, cangiante e non oggettivo dei dati quantitativo-numerici» (57); e che proprio «su questa assenza di numeri plausibili e verosimili, sull’assenza di rigore metodologico e scientifico, è stata costruita la narrazione dell’epidemia. In realtà i governi […] hanno semplicemente detto vere e proprie bugie o hanno presentato i dati in modo funzionale alle decisioni di natura politica e non sanitaria» (51).
Ma in atto è anche un generale e feroce riduzionismo della stessa esistenza quotidiana, piegata alle disposizioni di un pensiero assillante e monocorde, che mira a preservare il dato fisico-biologico del corpomente anche se in questa nuda vita non c’è nulla che spinge a vivere, perché curarsi soltanto del funzionamento organico dell’individuo significherebbe annichilire gli stimoli, gli interessi, l’alterità, la pienezza, in sintesi il mondo di cui l’umano vive, il mondo che lo anima, gli dà senso e gioia.
Nel tentativo di debellare la Sars-Cov2 i corpi collettivi si sono poi confinati in un isolamento estremo, suicida, in cui la persona sospende la sua normalità, le sue possibilità esistenziali, si angoscia e si spegne. Si è fuggito il contatto con i propri cari, l’esperienza vivificante della condivisione del mondo sentito, interpretato, mostrato, rivelato dagli altri, e ci si è persi, inghiottiti nel vuoto che si estende ovunque quando si assottiglia il proprio legame naturale all’altro, quel rapporto dinamico, mutevole, che impegna il sé nella sua integralità e unicità, che lo mantiene permeabile all’alterità dell’altro grazie alla quale definisce se stesso e si comprende.
Siamo rimasti per lungo tempo segregati in casa a fare al suo interno qualsiasi cosa, dai pasti alle attività lavorative, fisiche e culturali, sperimentando una «situazione emotiva nella quale si mescolano e allungano il tempo privato, il tempo collettivo, il tempo di apprendimento, il tempo professionale. L’esito è una condizione nella quale tutti gli istanti sono ugualmente pieni di fantasmi virtuali e ugualmente vuoti di esistenza reale». (19). L’esperienza del mondo si è dissolta in realtà minimali come lo spazio in cui esse avvengono; in realtà compresse in cui devono risultare praticabili, ripetibili e trasmissibili quante più azioni possibili in un solo contesto e momento; in realtà statiche, disincarnate, estranianti, disfunzionali, perché sono soltanto immaginate, riprodotte virtualmente e mediaticamente dalle tecnologie informatiche e consegnate a domicilio 24h su 24. Se continuiamo «a sostituire le relazioni del mondo degli atomi con la finzione del mondo dei bit rischiamo di perdere la nostra stessa carne, il senso dei corpi, la sostanza delle relazioni. Non saremo più entità politiche ma fantasmi impauriti e vacui» (74). Cadremo in stati patologici e depressi, tipici del Sé che dismette la sua vita, si disimpegna dal mondo e s’abbandona sempre più cupo e irriconoscibile nel suo stato d’abbandono.
Fuori da questo nuovo lockdown dell’esistenza sono rimaste quelle attività essenziali che ovviamente non possono essere svolte nella propria tana domestica e che per la prima volta nel XXI secolo i governi, anche quelli democratici, hanno ritenuto necessario elencare, legittimare e regolarizzare con azioni e in base a criteri e distinguo che sono parsi troppo spesso insensati, se l’obiettivo era quello dichiarato della lotta al coronavirus.
A dire il vero, questo potere esecutivo, continuamente gonfiato da uno stato d’emergenza che necessita di soluzioni nuove e immediate e dall’obbedienza dei cittadini che chiedono proprio un salvifico interventismo politico e tecno-scientifico, si è convulsamente e arrogantemente diretto su tutto, definendo proprio i termini e le condizioni dello stato d’emergenza e intervenendo su ogni aspetto della vita individuale e comunitaria. Come se fossimo infanti o sudditi che necessitano dell’approvazione dei grandi per qualsiasi spostamento dai luoghi privati ai luoghi di tutti e viceversa. Come se per difendersi da questo virus – sì minaccioso e letale ma in misure e condizioni estremamente variabili – fosse realmente necessario che ogni movimento, ogni iniziativa, ogni essenziale e costituzionalmente garantita libertà risultassero eterodiretti e avessero sempre e solo il significato di gesto eretico od ortodosso rispetto alla dottrina istituzionale sulla Sars-Cov2.
Oggi stiamo assistendo a «uno dei più potenti dispiegamenti della repressione e dell’antisocialità che la storia contemporanea abbia visto» (71). Soltanto nel XXI secolo, infatti, «gli umani sono stati reclusi dentro i sepolcri delle loro case da sani. Le quarantene del passato isolavano i malati dagli altri e non l’intero corpo sociale da se stesso, dispositivo anche logicamente assurdo. Soltanto nel presente il terrore mediatico si è scatenato contro individui solitari nelle campagne o sulle spiagge; soltanto nel tempo dei totalitarismi novecenteschi e del XXI secolo i cittadini sono stati discriminati in soggetti che fanno pienamente parte del corpo sociale e in soggetti esclusi dalla vita collettiva, dalla vita concreta, dalla vita vera, dal tessuto dell’esistenza quotidiana, dall’utilizzo di treni, scuole, università, aerei, ristoranti, cinema e altro e altro. Soltanto nel presente la suasione dell’autorità è entrata sino a tal punto nelle cellule e nei pensieri dei corpimente biologici e politici» (48-49).
Ma se un esercizio di potere così scriteriato e autoritario è stato possibile ed è avvenuto dappertutto è perché – secondo una delle tesi più dure e tragiche di Disvelamento – l’effetto più grave del Covid19 è stata «l’assoluta introiezione del controllo, del divieto, dell’autorità diventata l’anima stessa delle persone» (90). E dunque una servitù non soltanto «volontaria ma anche felice, convinta, complice. Pubblicamente rivendicata. Vale a dire totale» (93).
Ha ragione Biuso nel sostenere che non è stato il fenomeno Coronavirus a generare forme di controllo, servilismo e dominio così funeste da ricordare e da innovare i regimi totalitari del Novecento. Sono state e sono la condizione di minorità e servilismo della più parte dei cittadini; la paranoia e la foga del potere; la miseria economica e politica; le insufficienze del sistema sanitario; l’accumulazione privata da parte delle Corporations del digitale, della comunicazione e del farmaco; l’isolamento, la povertà spirituale e materiale prodotti dall’individualismo liberista; la natura burocratica e finanziaria dell’Unione Europea; la degenerazione della cultura; l’ossessione e la fobia della morte; il sensazionalismo, il martellamento, la falsità dell’informazione di massa; la virtualità illusoria ed estraniante dei social network; la frammentazione e la debolezza del corpo collettivo; sono stati questi e molti altri fattori che nel libro di Biuso convergono tra loro in maniera incredibilmente sintetica e chiara se consideriamo l’ampiezza e il numero delle questioni discusse.
Ma tra tanti fattori del male presente mi sembra che uno in particolare, più o meno nascosto tra le righe di questo libro, stia al fondo di tutti gli altri: l’inadeguatezza generale degli umani alla comprensione e al compimento delle loro stesse migliori condizioni di vita. È allora fondamentale, per garantire la nostra sopravvivenza, imparare a elaborare dei dispositivi non di potere ma di conoscenza che insegnino a pensare e a sanare «uno dei frangenti più stupidamente tragici della storia contemporanea» (143). Dei dispositivi come, per l’appunto, Disvelamento. Nella luce di un virus, che mostra come sia limitata e fragile ogni dimensione dell’esistenza umana attuale; quanto antichi, radicati e già coltivati in passato siano i mali del presente; che cosa significa tutto ciò per l’avvenire. Se infatti, allo scopo di debellare l’epidemia, il Sé sta vivendo uno stato d’abbandono del mondo che determina altri problemi essenziali e gravi come e più del Covid19, allora stiamo andando pericolosamente avanti in un «piano inclinato: una volta che la pallina è messa in moto, essa acquista nel tempo e nello spazio velocità, sino a non poter più essere fermata e, alla fine, a schiantarsi» (43). Evitare lo schianto: questo è il vero obiettivo.

 

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