Mazzarella, Colpa e tempo

Di: Enrico Moncado
1 Settembre 2022

 

Eugenio Mazzarella
Colpa e tempo. Un esercizio di matematica esistenziale
Neri Pozza, Vicenza 2022
Pagine 112
€ 14,00

 

Il cristianesimo, nei suoi fondamenti nella struttura della coscienza religiosa dell’ebraismo, cristianesimo che questo libro assume come ‘compimento’ della scoperta dialogica dell’uomo con il suo Dio propria alla tradizione vetero-testamentaria, porta con il suo sorgere la scoperta dell’umano come Sé, come coscienza intrisa di tempo e di storia, perché è nel tempo e nella storia che, per scelta di conoscenza, l’umano sta come un destino. Questa scoperta ontologica, prim’ancora che antropologica, dell’umano come sé/coscienza – il quaestio mihi factus sum di Agostino, su tutto – si configura come un’esperienza originaria e fondativa di colpa, come esperienza, cioè, della coscienza che per volontà di sapere si fa consapevole del suo stare e durare nella nuda carne del proprio tempo. Un sapere inquieto quello cristiano che, proprio in quanto sa del suo Sé, vive sempre la frattura e la fattura del tempo, il kairòs escatologico nel quale tutto il tempo si concentra per, dipoi, tornare a non essere più tempo.
Questo cammino ontologico ed esistenziale di colpa istituito dalla caduta avviene, giocoforza, nel tempo. Nel ‘mattatoio’ della storia che si esprime, cristianamente, come storia personale e comunionale di salvezza, come un ritornare dell’umano al suo tutto, all’unità indivisa dell’Eden, alle radici unitarie dei due alberi, l’uno della vita e l’altro della conoscenza, dove la nudità carnale è redenta e insieme assolta. Ma più in generale, il cristianesimo scopre la finitudine come colpa, e cioè il fatto che nella carne, in tutto il corpo che ha voluto essere cosciente di sé, si consuma l’esserci: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3, 10). Genesi, dunque, è il luogo principe di riflessione sullo stare e sul venire al mondo come colpa e nella colpa originaria quale produzione di Sé da parte della coscienza, che per affermarsi come cultura e cura di sé paga il prezzo più alto: la morte.
Eugenio Mazzarella parla di questi temi nel suo ultimo libro aureo, frutto di una saggezza teoretica che sa dire la colpa del tempo attraverso una restituzione di calore ontico all’ontologico del pensiero: Colpa e tempo. Un esercizio di matematica esistenziale.
L’incipit del testo non può che essere un affondo netto, un atto di sicurezza teoretica pregno di conseguenze: «La colpa è il tempo: il venire-al-tempo, lo stare-al-tempo, l’esservi esposti porta con sé la colpa, l’esser-colpevole di chi vi sta, di chi lo scopre – l’uomo» (9). Questa struttura originaria della vita, la colpa come venire al tempo, non dice soltanto il fatto della vita, cioè il suo prodursi e stare come esposizione alla sua condizione temporale, ma anche il suo tenersi nel tempo come tempo saputo, percepito, sentito. Da qui il sottotitolo del libro: «Se ta mathemata significa, presso i Greci, ‘ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo’, l’essere-in-colpa, il sentirsi-in-colpa è ciò in cui l’uomo conosce in anticipo se stesso, quella che sarà la sua saputa e agita condizione umana: l’esser-uomo dell’uomo» (Ibidem). Insieme, dunque, all’essere tempo come colpa, l’umano, abitando il mondo – che è il suo mondo – si sente in colpa. Più radicalmente: l’umano si schiude a sé e al suo mondo a partire dal suo essere in colpa, giacché sente il fatto di esserci come apertura dello sguardo sul dolore del mondo, su quello spazio aperto che gli è negato e che soltanto all’animale è dato nella sua purezza. L’essere in colpa, tuttavia, è anche in senso cristiano sapere di un debito, del «debito di sé del ‘bene’ della vita, che si paga vivendo alle condizioni che la rendono possibile, alla fallibilità cui si è esposti – in ultima istanza al ‘male’, e al massimo male, la ‘morte’, come contropartita della propria vita saputa, della ‘coscienza’» (Ibidem). È questo il cuore filosofico, antropologico e fenomenologico di Genesi, del mito adamitico che secondo Mazzarella

illustra bene in che cosa effettivamente consista la sostanza dogmatica del peccato di Adamo come peccato originale, che cosa di questa colpa si trasmette. Fa chiaro, cioè, di che cosa antropologicamente si trasmetta nel peccato che in Adamo ha segnato ogni uomo, nella sua colpa a lui consustanziale nel genere. E questa sostanza è una sostanza conoscitiva. Il peccato originale è un peccato conoscitivo. Del bene e del male, cioè della vita e della morte, del nostro originario essere esposti al male; al massimo male del bene saputo, e non solo vissuto, della vita (37).

La cacciata dall’Eden non è in sé il male, né è atto malvagio di un dio punitivo, ma è figura di quella decisione originaria di una volontà che, contravvenendo al limite, si getta ed è gettata nella sua condizione finita, temporale. La ‘caduta’, quindi, è la Geworfenheit: la gettatezza voluta, la scissione dall’intero, il venire meno dell’identità a favore della differenza, della molteplicità. Nella gettatezza si dà la colpa, la possibilità, di fatto, del sentirsi in colpa: l’esperienza tremenda del sapersi in mano al tempo – alla morte, insomma.
A partire da questa condizione secondo Mazzarella si produce l’umano, che prima di essere pensiero, dubbio, raziocinio è esperienza della propria colpa in quanto comprensione della sua temporalità. La colpa, dice il filosofo napoletano, è allora «l’esperienza in cui il Sé, l’esistere umano, il modo di essere dell’uomo come coscienza, si fonda e si tiene nel fondamento» (11).Ma la colpa, sul versante antropologico, è anche «il secondare una spinta che nella vita viene alla vita in un vivente che la raccoglie, e in questo raccoglierla si costituisce a più che vita, e insieme a meno che vita, perché muore» (17). Ed è grazie a questa spinta «che noi, i viventi, siamo della stessa sostanza dei morti; non lo sparire di una cosa, e neppure lo spegnersi del vivo, ma un fatto personale e saputo che ci fa quello che siamo, sostanza di tempo» (Ibidem).
Essere ‘sostanza di tempo’ significa altresì sapere e sentire una certa labilità della vita che sfocia in una «mestizia del finito» (19), della quale i poeti hanno saputo dire la giusta parola, che è parola di istituzione e destinazione del Sé al sacro del mondo, il mistero potente e radicale del trovarsi ed essere-qui. In un precedente libro, Mazzarella ha sostenuto che «la poesia è il mondo come parola, il mondo come presa di parola, in cui l’io comincia a essere detto e poi pienamente si dice, sapendo cosa dice mentre ascolta il battito di sé: in sé, la sistole del mondo»1. È con Rilke, adesso, che questo battito del Sé diviene il lamentopoetico della finitudine che gorgoglia proprio nel qui, nel ci dell’umano. Lamento che non è canto di morte o semplice attestazione della colpa, ma è istituzione della meraviglia e della gloria di esserci, nonostante tutto. Hiersein ist herrlich, perché Hiersein viel ist. Essere qui è splendido, giacché essere qui è molto – forse troppo. Hier ist des Säglichen Zeit, hier seine Heimat. Questo qui, come poeta Rilke, è il tempo della dicibilità, e cioè il fatto che una volta venuti al qui, nella Heimat del tempo, questo essere lo si deve dire – sind wir vielleicht, um zu sagen –, istituire, perché questo qui è herrlich e insieme viel.

Così, tuttavia, non è per Qohelet, il quale anticipa di molto la traduzione meccanicistica moderna della vita nel mistero della vita, ovvero il fatto che essa, questo viel, è un’eccezione rispetto alla morte fredda che abbraccia l’universo. Non è, in tal modo, la morte il vero mistero – come accade con il ‘panvitalismo’ degli antichi, il cui sforzo consiste nella «normalizzazione concettuale della morte» (22) –, bensì è la vita che, secondo Qohelet, è inspiegabile e inaccettabile nel suo essere male, giacché «l’enigma è la vita, un insulto logico visto che si nasce non solo per morire, che già basterebbe, ma bisogna pure saperlo – uno sfregio in buona sostanza» (23). Per Qohelet la vita non è un dono, un debito che va restituito nell’integrità del sapersi attenere al limite creaturale, ma è infezione alla radice. Il dolore, la sofferenza, il patire, appunto, la colpa e dunque il male della morte; tutto ciò non giustifica la pena di esserci. Seguendo questo tragitto, come suggerisce l’autore, si arriva a una «una teologia della distanza, dell’indifferenza, cui mancherà solo di cassare, come flatus vocis esornativo della sapienza, il nome stesso di Dio, per trovarsi nella situazione spirituale dei moderni, cui sarà ‘morto Dio’» (24). La colpa, secondo questa ipotesi, è il tempo nei termini in cui non è instrumentum di salvezza, bensì è soltanto condanna alla solitudine, alla separazione, alla molteplicità di sé e al dolore della coscienza del Sé che non trova conforto nel dialogo personale con l’Altro.
È anche questo, con presupposti ed esiti diversi, lo scenario dell’ontologia heideggeriana della colpa, nella quale l’esserci sta solo a recepire la chiamata della coscienza come tacito richiamo che parla della sua colpa di esserci. È la vita dell’esserci angosciato a chiamare, là dove, quindi, nessun altro può farsi sentire se non il Sé del Dasein. Nessun Altro, alla lettera, abita la coscienza. È per queste ragioni che Mazzarella sostiene acutamente che «l’esserci è tautologico, può dir solo di sé. Caduto, può solo riprendersi da sé, tenersi stretto alla sua colpa, se vuole avere tempo, il contenuto della colpa, ciò in cui è caduto nella spinta della coscienza: decidersi per il suo originario esser-colpevole, mantenersi in esso, in un nesso retributivo ineludibile con la pena di vivere scoperta nell’angoscia» (51). In altri termini, quella heideggeriana è un’ontologia escatologica – quantunque privativa – dove l’esserci è l’eschaton di se stesso, o meglio: dove l’eschaton è la morte come possibilità più estrema. Come possibilità escatologica di aversi, decidersi, curarsi e nient’Altro.
Tuttavia, per Mazzarella il nesso di coscienza, colpa e tempo non è soltanto questo. È certamente, come si lasciava intendere poc’anzi, quel nesso ontologico che viene al pensiero, ma è anche cifra della gettatezza genesiaca, è temporalità che, entrando nella storia e facendosi storia, «è anche l’ingresso nella possibilità di incontrare il suo redentore; che la vita nella coscienza, quando si sia data, è un’occasione di più che vita, di un dialogo aperto della vita con se stessa, che si benedice e si dice sì, nonostante tutto» (44). Se la vita, dunque, è colpa in quanto tempo, l’accedere alla storia non è un male irredimibile, perché nella storia, che è la storia del singolo e della collettività, si dà la possibilità della salvezza, ovvero si schiude un cammino di redenzione nel mondo attraverso il mondo. Salvezza è anche il dire sì alla vita, ai suoi dolori, alla sua peste ontologica che affligge l’unità psicosomatica del corpo. È un bene-dicere, un trasformare nella e con la parola il fatto che, zunächst und zumeist, «a me la vita è male»2. Si tratta, cristianamente, di custodire nel tempo e nella storia la scintilla di luce che a ogni vita è data, il suo lumen che riluce nella tenebra del dolore.
Da questo punto di vista, conclude Mazzarella, la storia «non è nient’altro che la storia del rapporto dell’uomo con il suo Sacro, come nesso di colpa coscienza destino, in cui l’uomo apre i suoi occhi a sé e al mondo, e a sé nel mondo» (46). Potranno dunque venire meno i nomi di dio, anche del dio di Abramo, potranno gli dèi fuggire e nonostante ciò, secondo il filosofo napoletano, non può venire meno quel rapporto profondo fra l’umano e il suo Sacro, in ogni sua forma ed espressione: «Perché dall’orizzonte del Sacro può sparire Dio, il dio di Abramo e tutti i nomi possibili di Dio, ma non può sparire il Sacro, il rapporto dell’uomo con l’ultrapotenza del destino, il nesso della coscienza con la sua circostanza, con il suo sapere di sé e del mondo; perché questo sarebbe la fine di quell’esperienza che chiamiamo uomo, coscienza» (47). Ciò che, dunque, non potrà mai venire meno è il fatto di esserci nella coscienza di esserci, che è la meraviglia di un mondo che si è e che si dà: il sacro della physis.
Il testo si conclude con un’appendice davvero significativa che ancor di più definisce la posizione del filosofo: L’interpretazione carnale del mito della ‘caduta’. Gnosi. Gnosi e cristianesimo. Come già si evince dal titolo, per la tradizione gnostica – e anche per la sua elaborazione contemporanea3 – la ‘cacciata’ dall’Eden non è appunto una ‘cacciata’, un atto di volontà che si fa coscienza e colpa, bensì una caduta, un precipitare della luce pneumatica nella carne del mondo. In questo senso, la tradizione gnostica è la spina nel corpo del cristianesimo, che è soltanto spina e non rimando a quel ‘soffrire più in alto’ proprio della gnosi cristiana. Mazzarella non può, dunque, che essere estremamente critico nei confronti della gnosi, per la quale, in sintesi, il cammino nel mondo, attraverso la carne del mondo, è un percorso di estraneazione, perdizione e insieme di ritorno all’origine e di reminiscenza di ciò che si è stati. Questo cammino è anche e soprattutto domanda di conoscenza, come si esprime nella gnosi valentiniana, sul «chi siamo, che cosa siamo diventati; dove siamo, dove siamo stati precipitati; dove tendiamo, donde siamo purificati; che cosa è la generazione, che cosa è la rigenerazione»4.
Il contrasto che emerge potentemente concerne, pertanto, la diversa interpretazione gnostica della carne del tempo. Se per il cristianesimo, come si è visto sopra, il divenire tempo, storia e mondo da parte dell’umano custodisce la possibilità – secondo la concezione cristologica della felix culpa – di un patire in vista di Altro; per la gnosi tutto ciò è mera caduta, condanna. È colpa, la vita carnale/temporale, che nessuna azione, atto o fede può redimere. Alla salvezza, infatti, si è predestinati secondo la propria natura di ilici, psichici e pneumatici. La gnosi da un punto di vista ontologico è dunque «l’aspirazione a togliersi di dosso il tempo» (59), da quello escatologico è predestinazione secondo ciò che si è stati, da sempre. Questo discorso non può che contrastare alla radice con la verità del cristianesimo, per la quale

l’uomo pneumatico, l’uomo che può essere visitato dallo Spirito, o è tutto l’uomo, o non è. E se non si accetta questo punto, per la coscienza, che è tempo, non c’è che la sua dismissione come coscienza attiva, in un’ipostasi ontologica che, per il desiderio di salvare il Sé in un altro mondo, lo perde già sempre in questo mondo, in una presa di distanza dall’egoico visto come luogo e motore del dolore del mondo, ma che in sostanza non è che l’insostenibilità del proprio dolore, l’insostenibile in sé vissuto gemito della creazione; in definitiva un amore di sé che si ama troppo per patire, per amarsi davvero, là dove solo può amarsi, presso di sé (61-62).

Eppure, se qualcosa si deve dire a favore della gnosi, quest’ultima è anche la presa di coscienza/conoscenza del fatto che, a volte, esserci – la colpa di esserci – è davvero troppo. Là dove il dolore sentito, al di là del dolore che si è ab origine, è davvero troppo per essere tradotto in qualcosa di più alto, la gnosi è quel logos che dona lo sguardo meduseo grazie al quale è il dolore che, a volte, può morire e non deve essere, sempre, il Sé a morire di dolore. Gnosi in tal modo è luce che salva. Quella luce di cui sono fatte le occasioni alle quali Mazzarella accenna nelle ultime pagine del testo dedicate ai ringraziamenti. Pagine che chiudono un eone di luce e ne aprono uno nuovo, ancora più luminoso.


Note

1 E. Mazzarella, Perché i poeti. La parola necessaria, Neri Pozza, Vicenza 2020, p. 110.

2 G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti, a cura di G. De Robertis, Felice Le Monnier, Firenze 1998, v. 104, p. 235.

3 Nelle battute che seguono, Cioran sintetizza potentemente tutti i temi della gnosi contemporanea: «La carne ha tradito la materia; il malessere che essa prova, che essa subisce, è il suo castigo. In genere, l’animato fa la figura del colpevole nei confronti dell’inerte; la vita è uno stato di colpevolezza, tanto più grave in quanto nessuno ne prende realmente coscienza. Ma una colpa che è coestesa all’individuo, una colpa che pesa su di lui a sua insaputa, che è il prezzo da pagare per la sua promozione all’esistenza separata, per il misfatto commesso contro la creazione indivisa, questa colpa che, per essere inconscia, non per questo è meno reale e sa bene come farsi largo tra le pene della creatura»; E. Cioran, Il funesto demiurgo [Le mauvais démiurge, 1969], trad. di D. Grange Fiori, Adelphi, Milano 1986, p. 59.

4 Excerpta ex Theodoto, 78, in Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di M. Simonetti, Arnoldo Mondadori Editore (ed. Lorenzo Valla), Milano 1993, pp. 391-393.

 

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