Giovanni Gentile. La pedagogia come scienza e filosofia

Di: Sarah Dierna
1 Aprile 2023

 

«La via del sapere sincero è lunga […].
Questa voglia non si fa nascere dando un sapere,
ma dando il bisogno del sapere, e mettendo nell’anima,
con le difficoltà dei problemi che sorgono dall’intimo di essa,
il pungolo della riflessione ulteriore».
(G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica)

 

Sapere e vita

Solo un mestiere vissuto come missione e non come professione, esercitato con rigore, attenzione e passione, può avere reso possibile il Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912) di Giovanni Gentile.
Una filosofia pratica in cui la metafisica del filosofo siciliano trova il culmine della sua concretezza attraverso una seria meditazione sul fatto educativo e sulla disciplina che se ne occupa, la pedagogia, che emerge dalle aule del suo stesso insegnare.
Pedagogia che «non è […] quella che ci si spiega innanzi nella memoria o in un’estrinseca contemplazione dell’educazione altrui; ma quella a cui attivamente partecipiamo: nella vita vissuta del nostro spirito, dove non c’è tempo, ma il ritmo dell’eterno atto spirituale»1; anche per questo i due volumi che compongono l’opera non possono essere pensati come «manuale di pedagogia», perché non si può insegnare a forza «quel che non s’impara e non s’imparerà mai».

Non esiste: una letteratura senza vita, una grammatica senza vivo discorso […], e regole senza vigore perché astratte dal seno della realtà e propinate nella loro cruda astrattezza: sentimenti o pensieri, che son luoghi comuni e non palpiti spirituali; una storia a caselle, dove giuocano marionette battezzate con grandi nomi; una scienza sottratta al vivo della ricerca, all’animo che ne visse una volta, e non l’avrebbe forse ripetuta mai più; una filosofia che non si capisce e una religione in cui non si crede, ridotta a un arzigogolo di formule; e parole parole parole, invece della realtà, della vita e dell’anima, di cui ogni scolaretto è sostanziato2.

Si tratta di un quadro assai lontano dalle sembianze che ha invece assunto la scuola attuale – piegata com’è da logiche che non dovrebbero appartenerle e che anche Gentile, in qualche modo e secondo il suo periodo storico, ha criticato – la quale ha ridotto l’educazione a un mero referente svuotato del suo significato; un profilo educativo proprio per questo affascinante per coloro che invece credono ancora che la formazione debba penetrare «dove […] penetra il sole, e col sole tutta la vita» e rifiutano quindi ogni attività «che mortifica in un fanciullo un solo germe di vita, per mutarsi in fabbrica di umanità a serie!»3.
Il filosofo di Castelvetrano dedica quindi all’esperienza educativa una riflessione totale che niente esclude dal proprio itinerario di studio. Dal metodo alle sue discipline, dalle forme di insegnamento clericale a quelle laiche, dall’educatore all’educando nella loro relazione sempre dinamica e mai stabile, in un percorso lucido e attento che nulla lascia di immeditato perché consapevole della pervasività del processo formativo che non si completa nel raggiungimento di un titolo ma si dispiega in ogni istante perché ogni istante può volgersi in un’occasione di crescita e di apprendimento. Un lavoro prezioso, in cui l’educazione viene pensata quale deve essere, e cioè non «diminuzione e prostrazione dello spirito, non meccanizzazione artificiale delle categorie della vita» bensì «chiara celebrazione di quello, e […] rinnovamento continuo di questa in tutta la sua pienezza e freschezza»4. La «pienezza» e la «freschezza» della pedagogia di Giovanni Gentile.


La filosofia e le altre scienze

Che sia formale o materiale, che sia positivo o negativo, che equivalga a istruire nella condotta o nel contenuto, quello educativo è un processo costante, continuo e incessante; assume ora la forma del gioco, ora quella del lavoro, ora quella dell’istruzione, ora quella dell’agire in senso morale, perché costante continuo e incessante è il farsi dello spirito.
La formazione non è pertanto un movimento che coinvolge solo il fanciullo – come pure l’etimologia greca del termine indurrebbe a pensare – ma accompagna l’umano-spirito in ogni momento della sua vita perché ogni momento può diventare infatti un’occasione di apprendimento, perché anche se «i maestri dei begli anni lontani e le sacre teste dei genitori non sono più; ma noi pur sempre impariamo da tutti, che ci parlino con viva voce o per gli scritti, nei libri, o per le forme quali che siano della loro spiritualità: tele, marmi, monumenti, istituzioni, leggi, costumi; e dalla natura sempre viva, sempre presente»5. L’educazione si definirà allora più correttamente attuale e il suo processo autoctisi. La pedagogia coinciderà insomma con la filosofia.
Ma dire che l’educazione è propriamente educazione filosofica non significa eliminare ogni altro sapere, piuttosto risolvere questi nell’unità stessa della filosofia. Se tutti i saperi ‘particolari’ si ritagliano un loro specifico ambito di indagine, la filosofia come concetto dello Spirito che pensa se stesso non si ritaglia nessun sapere, ma risolve piuttosto nell’unità del molteplice il molteplice stesso; detto altrimenti, mentre le singole discipline si attengono all’apparenza estrinseca del reale, cogliendo tale reale come molteplicità separata, così da avere una scienza che si occupa di botanica ma non di chimica, di biologia ma non di fisiologia, la filosofia risolve questa pluralità, vera ma astratta, nell’unità dello Spirito, un’unità che non sarà però identità e stasi, ma storia e svolgimento (fieri e non factum). In questo modo «il concetto di cotesto reale, la filosofia, si realizza eternamente come processo storico di alienazione da sé e di ritorno a sé»6 e ogni disciplina «per astratta e particolare che sia, è vera; ma di una verità che aspetta di essere ancora approfondita, e non si può approfondire dal punto di vista di essa, ma solo da questo della filosofia, in cui essa si risolve»7.
L’astrattezza di simili discipline non consiste soltanto nella parzialità della realtà da loro descritta – rispetto alla quale può appunto dirsi ancora vera – ma per il «meccanizzamento dello spirito, che è il metodo proprio della scienza naturale»8 che le contraddistingue e che è in generale proprio di quei sistemi pedagogici che hanno «aduggiato e intristito la libera vita dello sviluppo spirituale facendo della scuola, dei metodi didattici e disciplinari e d’ogni guida spirituale un ordigno esecrabile di tortura»; così il filosofo si esprime a proposito di tale «meccanizzamento»:

La difficoltà […] da cui è derivato tutto il meccanismo, sempre più complicato, dei sistemi pedagogici, si può definire come un difetto spirituale […]. Essa consiste sopra tutto in certa pigrizia intellettuale, per cui ogni cosa che si conosca, si crede si sia conosciuta una volta per sempre: perché quella cosa è quella cosa, e a tornare a guardarla e studiarla, non ci guadagnerebbe più altro. Onde si va in cerca sempre del lavoro definitivo sull’argomento, come si frequenta un corso di studi per prendere l’esame o fornirsi d’una licenza, che licenzii infatti a non pensarci più9.

Il culmine di questo «meccanismo» che ha mutato lo statuto profondo e originario del processo educativo è stato raggiunto con l’avvento,lo sviluppo e la supremazia del sapere scientifico, esito questo anche dell’atmosfera positivistica in cui sono precipitate le scienze a partire dalla seconda metà del XIX secolo, e che raggiunge nel rigore matematico del numero il vertice della sua fissità.

Ogni scienza aspira sempre a scoprire, con la fede che, scoperta che essa abbia precisamente la verità, questa sia per chiudersi in una formula matematicamente esatta, perfettamente analoga a una definizione dommatica. La scienza insomma si muove nel falso presupposto gnoseologico che la realtà (natura) sia fuori dello spirito […] e che la conoscenza pertanto non sia soggettiva creazione, ma rivelazione oggettiva, non tanto graziosa e spontanea come quella che il Dio dei teologi farebbe di sé ai mortali10.

Ma l’ecclettismo del professore Gentile non può rendergli ignote posizioni epistemologiche come il fenomenismo di Mach o il convenzionalismo di Poincaré (non ancora, com’è ovvio, Kuhn o Feyerabend per i quali bisognerà aspettare la seconda metà del XX secolo) che nell’esaltare il carattere falsificabile della scienza hanno messo in evidenza la natura storica e quindi antidogmatica di ogni sapere che vuole dirsi scientifico. Anche per il filosofo siciliano «non c’è né la scienza, né una scienza, ma quello che della scienza o di una scienza si vien realizzando nello spirito che le realizza, con un processo che è, assolutamente, sempre nuovo e determinato sempre diversamente»11. L’educazione scientifica avrebbe quindi assunto il carattere oggettivo dell’educazione religiosa nel concepire la realtà esistente fuori dallo spirito e dal suo svolgimento, da cui segue che tale realtà debba soltanto essere intesa ma non creata. Vale la pena spendere qualche parola in più.
È significativo che Gentile dedichi lo stesso spazio all’educazione religiosa e all’educazione scientifica. Ciò che alla prima il filosofo rimprovera è la negazione della vita spirituale che rende per questo giustamente fondata la richiesta di un’educazione laica come percorso che avverte l’esigenza di superare l’immobilismo della religione e di riprendere il movimento costitutivo dello spirito. In questo modo l’educazione laica non si separa dall’educazione religiosa, ma si riappropria in maniera adesso autentica di quest’ultima.
Anche questa esigenza si rivela però insufficiente. Il «torto del laicismo» è infatti consistito nel sostituire alla religione il sapere scientifico, mutando così la fede nella religione positiva in fede per le scienze; un atteggiamento, ancora una volta, di negazione (secolarizzata) della vita dello spirito. Per farla breve: la scienza persegue la stessa astrattezza del clericalismo. Come sapere l’educazione scientifica assume a fondamento del suo esercizio un sistema già dispiegato e immutabile, oggettivo e quindi dogmatico, «in modo che a posto di Dio sottentra la natura, le cose, l’elettrico, l’acqua il triangolo, o come altro si chiami l’oggetto, innanzi al quale lo scienziato deve stare con tanto d’occhi aperti, o aguzzare la vista dentro al microscopio o al cannocchiale»12.
Condivisa o no che sia la tendenza idealistica dell’autore, ciò che del fatto educativo rimane come monito è il carattere storico, e dunque provvisorio di ogni sapere e con esso la natura sempre aperta e sempre in fieri del suo contenuto.
Sin dalla Prefazione alla Teoria generale dello spirito, il professore Gentile si rivolgeva infatti ai suoi alunni auspicando che il libro fosse per loro «via e non meta, vita e non morte»13. Non dunque nozionismo, non pappagallesche ripetizioni, non verità già stabilite o mete già raggiunte, il sapere deve essere stimolo e pungolo per ogni ulteriore riflessione: «fa desolata la scuola dove non entri altro che la scienza col suo rigore e la sua esattezza, che pare s’aggravi sullo spirito come un incubo, e lo costringa e l’abbatta nelle strette del suo spietato congegno: quella scienza, che toglie il respiro e suscita acuta la nostalgia della vita col suo fremito e dell’arte con l’impeto della sua lirica»14. Nostalgia, fremito e impeto che può appagare soltanto un’educazione umanistica.


Paideia

È per garantire questa educazione umanistica che la riforma scolastica proposta da Gentile nel 1923 ha introdotto la formazione classica nei licei.
Solo una formazione umanistica avrebbe infatti reso possibile lo svolgimento dello spirito stesso e, con esso e in esso, come momento del suo farsi, quello dell’educatore e del suo educando.
Un atteggiamento maieutico – anche se il filosofo critica la maieutica socratica come modello di educazione negativa e astratta – in cui l’alunno non riceve un sapere già dato, ma è sollecitato a crearne uno da sé; in cui il maestro non è il pedante così ingenuamente ancorato ai precetti della sua disciplina ma la guida di un percorso che si fa vita; in cui, infine, è solo la dialettica tra il primo e il secondo che accende quella scintilla con cui Platone nella Settima lettera descrive l’acquisizione della sua filosofia.
Quella tra l’educatore e il suo educando non è l’asettica e fredda comunicazione di un sistema di concetti dal primo al secondo, la conoscenza è piuttosto una fiamma che improvvisamente sfavilla e che è stata possibile solo dallo sfregamento di quella data pietra sull’altra, dall’unità del maestro con il suo discente: «è una sintesi a priori […]: è un tale rapporto tra educatore ed educando […] che l’uno non è concepibile senza l’altro»15. Qualcosa da cui oggi ci si sta invece illudendo di potere prescindere.
Come Platone, inoltre, anche Gentile riconosce non secondaria importanza all’educazione del corpo, salvo poi risolvere anche questa come svolgimento e «spiritualizzazione»; tuttavia, la dedizione e la cura per il corpo sono educazione non solo del fisico, ma dell’interezza dello spirito nella sua attuale concretezza. Insomma: l’educazione fisica, al pari di quella che si suole considerare educazione mentale, è qualcosa che aiuta lo studio, l’apprendimento, il fare creativo dello spirito, a conferma dell’unità psicosomatica che siamo, e quindi della necessità dei corpi e dei luoghi affinché il processo sia formativo e non dissolutivo.
Dall’astrattezza e dalla chiusa sistematizzazione dei saperi scaturisce inoltre la separazione tra il contenuto del sapere e il suo metodo per acquisirlo o farlo acquisire, segno, anche questo, di un rimaneggiamento positivistico delle scienze. Nella pedagogia del filosofo siciliano niente di tutto questo è pensabile. Certo, come professore Gentile deve avere riconosciuto l’importanza di un metodo che dia rigore e ordine allo studio, ma tale metodo «non è un insegnamento tipo, se non in quanto è lo stesso insegnamento vivo»16, vale a dire un insegnamento in cui quello appreso come fatto sarà sempre il fatto del mio atto e in cui pertanto, l’Iliade di Omero non sarà un poema antico i cui versi bisognerà sforzarsi di imparare, ma creazione sempre nuova:

La realtà che lo ha chiamato è quella che si realizzerà in lui quando la fantasia ricreerà le navi dei greci e le mura di Troia, e si popolerà di quel mondo eroico, agitato da quelle violente passioni di dèi e di mortali, tra cui egli rivivrà ammirando commosso: un mondo spirituale, che egli con la sua fantasia dovrà creare, e che mille talenti non potrebbero fargli cedere mai da nessuno. Io oggi mi reco da un librario a comprare con poca moneta il volume; ma non mi si vende già l’Iliade; sì qualche cosa che in me diventerà quel canto, e quel mondo, per virtù del mio sapere, della mia intelligenza, di tutto me stesso17.

Vana è per questo ogni ripetizione e ogni apprendimento mnemonico, perché non basta: «Il ragazzo può leggere meccanicamente cento volte un verso e non impararlo a memoria. Bisogna vi aguzzi su l’ingegno: lo accolga dentro di sé, lo realizzi immediatamente, ne faccia il suo stesso essere; non si distragga, e ci viva dentro»18. Parole che cantate corrisponderebbero a quei versi così belli e musicali di Mario Luzi: «Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione, / […] però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio ricordo, / sii luce, non disabitata trasparenza…»19. In questo consiste l’unico metodo davvero efficace affinché l’apprendimento sia fecondo e la scoperta gaia.


Educatore ed educando

L’apprendimento sarà fecondo e la scoperta gaia solo se il maestro penetra nell’animo dell’educando senza arrestarsi sull’astratta soglia nell’idea che questi sia semplicemente uno scolaro e quella in cui insegna una classe; l’educatore deve intenderne l’indole, i bisogni, la vita, non dare sapere ma suscitare il bisogno del sapere, «mettendo nell’anima, con le difficoltà dei problemi che sorgono dall’intimo di essa, il pungolo della riflessione ulteriore»20.
A dare sapere è colui che il filosofo definisce efficacemente una macchina da far lezione, un pedante che non segue l’attività creativa dello spirito in quanto emergente dalla dinamica educativa stessa e crede piuttosto di «recarsi in saccoccia, chiuso in un manuale da leggere e rileggere, il tesoro del sapere che gli tocca insegnare»21 dimenticandosi così di essere insieme scolaro e di risolversi in esso.
A suscitare il bisogno di sapere è invece il vero maestro, colui che non si ripete mai, che ricorda come la paideia sia un momento di confronto e di arricchimento reciproco – il realizzarsi di un’unità in cui l’insegnamento è la stessa vita spirituale che si compie e in cui lo scolaro si risolve – così da diventare maestro a se stesso, vale a dire, ancora e sempre anche scolaro.
E mentre i discenti del primo tipo di insegnante «hanno sbadigliato, lavorando, nella migliore ipotesi, con quella stessa svogliatezza e sfiaccolaggine del maestro, restando estranei al vero sapere, e quindi riportandone un certo che senza sapore, senza interesse, senza vita nella loro anima: è che è tutto ciò che potranno esibire poi agli esami, ma che non lascerà altra traccia di sé, che un senso imperituro di amaro e di noia»22, mentre per loro il diploma o la laurea diventa l’esito conclusivo di un percorso di studi, per gli alunni del secondo il titolo sarà solo un’etichetta e la lezione lo stimolo per uno studio ulteriore; l’allievo  «freme e vibra nella parola del maestro, quasi sentendovi dentro suonare una voce che erompe dall’intimo del suo essere stesso, non guarda già e non vede gli occhiali o la barba del suo maestro, e la scranna su cui questi gli sta innanzi seduto, e non ode nemmeno quella sua parola come la parola di un altro, ma è tutto nell’argomento della lezione, tutto il resto rimanendo riassorbito e fuso nella sua determinata soggettività»23.
Considerando quella dell’insegnante una missione piuttosto che un mestiere il maestro deve guardare con sospetto l’educazione che «comincia a guardarsi nel campo economico, dove ha valore soltanto ciò che essendo mio non è tuo, e viceversa, dove insomma i soggetti sono diversi, e perciò, in quanto diversi, materializzati, si dilegua quella spiritualità, di sua natura universale, in cui l’educazione sincera si realizza»24.
Per il vero maestro c’è la gratitudine, la stima, la riconoscenza. Per il vero maestro c’è la consapevolezza di continuare a esistere ancora e sempre nello studio, nell’impegno, nelle parole e nella scrittura dei suoi allievi perché «chi ha veramente appreso, non dimenticherà mai il maestro: e lo conserverà sempre nell’anima, e ne udrà sempre la voce, anche nella più tarda vecchiaia: una voce che gli parlerà sempre più profonda, sempre più saggia, sempre più nuova. E ogni uomo, ancorché maturo già da anni e carico d’esperienza […] quando egli pendeva da quelle labbra, che sapevano aprirsi a parole così dolci a sentire e a parlare di tutto, si vede a ogni tratto risorgere innanzi le care e buone immagini a ridir parole sempre più penetranti nell’animo, sempre più educatrici»25. Per il vero maestro in questo consisterà avere compiuto la propria missione educativa.
Un’educazione che passa per il tempo, la presenza, il fiato e la fatica del maestro: elementi che «in se stess[i] considerat[i], sono un niente ai fini di cultura», ma «attraverso di quell[i] si genera in noi la cultura, che è spiritualità, che non si compra e non si vende»26. La digitalizzazione, tra le altre frontiere della scuola, ha fornito per contrasto una lucida conferma di tutto questo: un dissolvimento del tempo, della presenza, del fiato e della fatica che ha portato al dissolvimento della cultura, dell’educando e dell’educatore, vale a dire, a un dissolvimento del fatto educativo nella sua «pienezza» e «freschezza».


Note
1 G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, volume I, Pedagogia generale, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Sansoni, Firenze 1954, p. 139.
2 Ivi, pp. VII-VIII.
3 Ivi, p. 191.
4 Ivi, p. VIII.
5 Ivi, p. 141.
6 Ivi, p. 111.
7 Ivi, p. 112.
8 Ivi, p. 146.
9 Ivi, p. 132.
10 Ivi, p. 247.
11 Ivi, p. 157.
12 Ivi, p. 247.
13 Id., Teoria generale dello spirito come atto puro, in L’attualismo, introduzione di E. Severino, bibliografia e indici di V. Cicero, Bompiani, Milano 2014, p. 75.
14 Id., Sommario di pedagogia come scienza filosofica, cit., p. 248.
15 Ivi, p. 125.
16 Ivi, p. 172.
17 Ivi, p. 180.
18 Ivi, p. 231.
19 M. Luzi, Vola alta parola, in A. Sichera, Ermeneutiche. Punti di vista sul confine, Euno Edizioni, Leonforte 2019, p. 38.
20 G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, volume I, Pedagogia generale, cit., p. XI.
21 Ivi, p. 158.
22 Ivi, p. 159.
23 Ivi, pp. 128-129.
24 Ivi, p. 176.
25 Ivi, p. 140.
26 Ivi, p. 181.

 

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