Robert Capa
Cinquanta fotografie di cinque guerre. Gli occhi di un uomo che le racconta. Sono quelli di Robert Capa (1913-1954)1. La prospettiva è la sua ma diviene universale e chi guarda si ritrova nella storia, cammina nel tempo della follia, sente gli sguardi disperati, vede il rumore sordo della morte, si muove nell’immobilità di corpi senza vita, osserva l’insensatezza della ragione omicida, sfiora l’ingiustizia sul corpo assassinato, percepisce il sudore di certa gioia. E comprende: la paura originaria, l’istante prima della morte, la sofferenza radicale, la tristezza estrema, l’affrancamento dall’orrore. Disorientano quelle foto, perché gettano in uno spazio che non ha nulla di apparente: è lì, con la sua realtà eterna, a disposizione di chi si vuol misurare con la verità della follia, umana sino allo spasmo, disumana sino alla vergogna. Nessun volto tra i bersagli che la follia mette al centro del mirino, solo numeri incarnati che cadono come fragili birilli. Capa compie l’operazione inversa: il suo obbiettivo ridà vita a quelle sagome rendendo loro la realtà di uomini.
Chi attraversa la Loggia degli Abati di Palazzo Ducale a Genova -dove le fotografie di Capa sono state esposte da aprile a maggio 2011- incede tra istanti eterni che illuminano il tempo fattosi luogo tra quegli atri e quegli anditi, rapito in quelle cornici che lo fanno pulsare, presente e vivo. Il contadino è ancora là che indica la strada al soldato. Piccolo mentre piccolo si fa il militare rannicchiato sulle gambe per seguire la sua mano che mostra. Ritorna accanto la disperazione, fotografata nel volto delle madri durante il funerale dei loro figli (2 ottobre 1943), i ragazzini morti nelle Quattro giornate di Napoli.
Nella stanza c’erano venti piccole bare, fatte alla buona, coperte a malapena di fiori e che non riuscivano a contenere anche i piedi sporchi di alcuni bambini, già abbastanza adulti da combattere i tedeschi ed esserne rimasti uccisi ma troppo grandi per venire sepolti in casse così piccole. Questi bambini di Napoli avevano rubato armi e proiettili e combattuto i tedeschi […]. Mi tolsi il berretto e presi la macchina fotografica. Puntai l’obiettivo sui volti delle donne distrutte dal dolore, che stringevano in mano le foto dei loro bambini morti. Scattai fino al momento in cui le bare furono portate vie. Queste foto sono la testimonianza più vera e sincera della vittoria: immagini scattate al semplice funerale di una scuola2 .
E poi ancora la Normandia e il mare e i soldati e la liberazione e i corpi ammassati come cose tra cose negli occhi dei pescatori francesi che gli passano accanto e la sconfitta nei volti dei vinti, ragazzi, vittime di se stessi e di una logica illogica che li voleva carnefici. Una guerra totale, davvero, che non conosce più differenze tra fronte interno ed esterno, in cui non ci sono retrovie, il mondo diviene una grande trincea. Come disse Antonio Gibelli durante una conferenza nel 2009: “È la guerra che va dagli uomini e non gli uomini che vanno alla guerra”. E trova anche le donne: «Nowhere is there safety for anyone in this war. The women stay behind, but the death, the ingenious death from the skies finds them out»3 (Non c’è un luogo sicuro per nessuno in questa guerra. Le donne stanno nascoste ma la morte, l’ingegnosa morte che giunge dal cielo, riesce a scovarle). E scova Gerda Taro, la sua compagna e collega, che viene uccisa in Spagna nel luglio del 1937, schiacciata da un carro armato, ironia della sorte, repubblicano4. Il suo volto giovane, bello ed elegante appare ancora così nella foto che le scattò Capa, nonostante sembri sfinita con la testa bionda abbandonata sul braccio, mentre appisolata si appoggia a una colonnetta indicativa dietro una strada. E sembra di ritrovarne la dolcezza arresa alla guerra negli occhi -che tutto sanno- della bambina rannicchiata sui sacchi ammonticchiati nella zona di transito dei profughi, evacuati da Barcellona dopo il pesante bombardamento del ’39 da parte delle truppe fasciste. Nel manifesto di presentazione della mostra genovese il biografo ufficiale di Robert Capa, Richard Whelan, scrive che «fece vedere l’orrore di un intero popolo nel volto di un bambino»5. È vero.
E Capa si fa ancora scheggia del tempo e coglie l’attimo della morte prima che irrigidisca la memoria nell’oblio dell’indifferenza: il soldato americano caduto dopo lo scontro con le truppe tedesche, disteso sul pavimento tra il balcone e l’interno, con la pozza di sangue accanto, accasciato su se stesso, mentre un albero sullo sfondo silenzioso e spoglio amplifica il senso dell’orrore. Rimangono addosso gli sguardi degli spettatori che guardano la morte passargli accanto; dello stesso Capa, che fermo davanti a quel corpo ancora caldo, ha scattato. Una strana emozione quella di vedere con gli occhi di chi ha visto, dalla sua stessa prospettiva. Doveva significare molto anche per Capa questo osservare l’osservatore in direzione dell’osservato, comprendere come stesse guardando. Mette in comunione e, attraverso lo scarto emotivo tra se stessi e l’altro, il fenomeno –qualunque cosa rappresenti- appare da sé, disvelando la sua verità più intima. Lo si avverte guardando i contadini francesi che guardano i cadaveri ammassati dopo lo sbarco in Normandia; nello sguardo dei due soldati francesi che si sofferma sul corpo del ragazzino sulla strada da Namdinh a Thaibinh nel 1954. Quei corpi parlano di sé, ma dicono anche di quegli occhi che li guardano: gli uni osservano senza colpa, gli altri no. E ancora Eure-et-Loir, Chartres, 18 agosto 1944, il popolo sbeffeggia una donna francese, rasata a zero per punizione, che con fierezza incede tra la folla sadica, stringendo tra le braccia il bambino della colpa avuto con un soldato tedesco. Nessuno fu vincitore: il carnefice e la vittima sono spesso un’erma bifronte in questa guerra in cui si crede di poter fare con sicurezza la lista dei cattivi e dei buoni.
In fondo al corridoio della Loggia -che divide le prime sale dalle ultime- solitaria su una parete campeggia la fotografia del “Miliziano che muore”: bellissima nella sua tragicità. Capa immortala la morte quando innaturale sopraggiunge senza fare sconti. Sarà Mario Dondero6 a mettere a tacere –mai definitivamente- le voci di dubbio sull’autenticità della celebre fotografia, identificando il miliziano e il luogo in cui è stata scattata: «È la foto di Federico Borrell Garcia, morto il 5 settembre del 1936 a Cerro Muriano, vicino Cordoba. Borrell Garcia salvò la vita, quel giorno, a Capa e agli altri con lui, circondati dai franchisti. E Capa lo fotografò, appena colpito. Impossibile che avesse montato la foto a casa»7.
Le fotografie di Capa hanno una particolarità che le rende magiche e non soltanto semplici immagini documentarie: parlano e si muovono. Le urla, il pianto, i rumori, il vento, le onde, la pioggia, i tonfi, il silenzio, mentre si vedono, si sentono e mentre si sentono rapiscono, catapultano in uno spazio altro in cui le cose si rimettono in movimento, si colorano, si ripetono, ritornano. È l’aprile del 1938, la guerra cino-giapponese è di nuovo iniziata da qualche mese. Capa è lì. Il treno -mezzo principale dei profughi e delle truppe cinesi- parte lento sulle rotaie. Lateralmente la nuvoletta di fumo è uno sbuffo -gli occhi lo dicono alle orecchie- che fa rintracciare nell’aria un fischio. Il convoglio si muove verso l’osservatore a esso tanto trascendente, che vede il martellamento ritmato del suono sordo delle giunture. Una sinestesia che si declina ancora nell’ordinarietà di rumori impossibili a udirsi. I volti parlano. Raccontano la loro tragedia. Il silenzio urla, arriva potente e si traduce in linguaggio universale. L’osservatore è lì dentro, in bianco e nero come la foto.
E infine una delle ultime fotografie di Robert Capa. Una donna si dispera. È una vietnamita, il volto in lacrime contratto dal dolore. La bocca aperta. Raggomitolata accanto al cumulo di terra smossa da poco. Accanto un bambino silenzioso. È suo figlio. Quello appena inghiottito dalla terra è suo marito. Di fronte una donna si prende cura di quella tomba numerata. E i numeri corrono per tutta la superficie amplificando il senso di quelli in primo piano. È un cimitero di caduti francesi e vietnamiti. Insieme. Un terreno in cui i nemici piangono l’uno accanto all’altro dopo essersi uccisi l’un l’altro. La morte riunifica proprio nel territorio che ha diviso. Siamo nel 1954. È la guerra di Indocina. L’ultimo reportage di Robert Capa. Salterà su una mina quattro giorni dopo: il 25 maggio.
Non era contrario alla guerra sostiene il suo biografo: «La situazione politica del suo tempo lo rese cosciente del fatto che la guerra in certe situazioni è un male necessario, l’unico mezzo per distruggere il male e difendere una causa giusta»8. Eppure il significato che emerge dall’interezza della sua opera è riassumibile in una sola parola: umanità. Capa ha fotografato l’umanità dell’umanità dimostrando quanto la guerra sia disumanamente umana.
Note
1 Robert Capa è uno pseudonimo, il vero nome è Endre Ernő Friedmann.
2 Robert Capa, Leggermente fuori fuoco, trad. di Piero Berengo Gardin, Contrasto Due, Roma 2008, p. 132.
3 Id, Images of war, Grossman Publishers, New York 1964, p. 44.
4 Cfr. The camera overseas: the spanish war kills its first woman photographer, in Life, Vol. 3, n. 7, 16 agosto 1937, p. 62-63.
5 È possibile leggere l’intero manifesto in Arskey- Magazine d’arte moderna e contemporanea, al seguente indirizzo internet: http://www.teknemedia.net/archivi/2011/4/14/mostra/43818.html (visitato il 15 maggio 2011).
6 Dell’artista milanese è possibile visitare, sempre alla Loggia degli Abati, nell’ultima sala, una piccola mostra fotografica ma molto significativa e interessante dal titolo La vera storia del miliziano.
7 Mario Dondero citato da Stefano Bigazzi, Sulle orme di Capa ‘Il miliziano morente, è tutto vero’, in La Repubblica, edizione di Genova, 5 maggio 2011, p. 17.
8 Manifesto introduttivo della mostra di Palazzo Ducale, cit.
Robert Capa – Immagini di guerra |
Mostra fotografica |
Genova, Palazzo Ducale, Loggia degli Abati |
dal 14 aprile al 15 maggio 2011 |
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