Dialettica e/è dialogo. Tra filosofia e letteratura

Di: Michela Noce
21 Maggio 2020

(Liceo scientifico “E. Fermi” di Genova, classe III B, a.s. 2019/2020)

Dal greco dialektiké téchne, arte della discussione, la dialettica è l’arte del ragionare, dell’argomentare e l’abilità nel discutere; più in generale, essa è il processo logico che giustappone idee opposte o contradditorie per giungere a una sintesi. Ma se la dialettica è l’arte di formulare e pronunciare un discorso, è prima necessario considerare ciò che la definisce: il Diálektos, il diálόgos, ovvero il dialogo. Il termine lόgos (dal verbo léghein, “raccogliere”, “tenere insieme”) è la parola che si articola nel discorso ed è quindi anche il pensiero che si esprime attraverso esso. È proprio a partire da questo significato che molti filosofi greci hanno attribuito significati più alti al termine. Già Eraclito, il filosofo del pάnta réi, del divenire, che concepisce il mondo come un perpetuo flusso in cui tutto scorre, considera il lόgos sia come principio fisico costituente le cose – che egli individua nel fuoco – sia come legge universale che le governa, cioè come legge del conflitto e dell’opposizione fra contrari. Il lόgos con Eraclito diviene quindi legge di armonia e principio dinamico del divenire. 

I diversi significati attribuiti dai filosofi alla dialettica, come per molti altri termini filosofici, hanno delle connessioni tra loro. Sicché, se non è possibile dare una definizione univoca di dialettica, è possibile tuttavia delineare la sua storia e cogliere il significato che i filosofi hanno dato a questo termine nel contesto generale della loro filosofia studiando le ragioni di quella particolare accezione. 

Nella Grecia dei sofisti con il termine dialettica si intendeva certamente sia la forma dialogica di confronto delle opinioni, in cui le proprie tesi erano sostenute secondo lo schema 1 vs 1, sia quella retorica – arte della suggestione e della persuasione –, in cui il confronto seguiva lo schema 1 vs molti. La differenza tra dialettica e retorica sarà poi rielaborata anche da Platone e Aristotele. Con i sofisti il lόgos diviene strumento di persuasione utilizzato a seconda delle proprie esigenze ed è svincolato dalla verità poiché frutto di una convenzione; il linguaggio non è più riflesso della realtà, come lo aveva definito Parmenide. 

Il dialogo acquistò il massimo valore con Socrate. Egli era convinto che l’essenza profonda degli esseri umani risiedesse nel rapporto con gli altri ed è per questo che la sua filosofia assunse i caratteri di un dialogo interpersonale. Il metodo dell’indagine filosofica adottato da Socrate è dunque proprio il dialogo – in altre parole il confronto con l’altro attraverso la parola – che è un continuo interrogarsi e interrogare gli altri con una concatenazione di domande. Il dialogo socratico segue momenti ben precisi: ciò che lo avvia è la consapevolezza della propria ignoranza. Socrate infatti riteneva che il filosofo autentico è colui che ha compreso che intorno alle cause ultime del Tutto nulla può essere detto con certezza. Questo primo momento è fondamentale perché solo chi è consapevole di non sapere ricerca il sapere; chi pensa di possederlo non ha motivo di cercarlo. Il secondo momento del dialogo socratico è l’ironia, che ha lo scopo di svelare all’uomo il suo “non sapere”, gettandolo nel dubbio e nell’inquietudine. Socrate, fingendo di assumere la posizione teorica dell’altro, la riformula consentendo all’interlocutore di scoprire da sé la fallacia della sua argomentazione. Il dialogo ha avvio quando Socrate chiede al proprio interlocutore di renderlo edotto sulla tematica indagata, di cui l’altro si ritiene competente; tuttavia Socrate incalza l’interlocutore con domande che scavano sempre più a fondo, mettendo così a nudo l’ignoranza di chi crede di sapere e permettendo all’altro di comprendere che la conoscenza che riteneva di possedere non ha in realtà solide basi. Il momento in cui Socrate smonta le deboli risposte ottenute è quello della confutazione che ha avuto avvio con l’ironia: asserendo la tesi dell’altro attraverso l’esposizione di una serie di obiezioni, è lo stesso interlocutore a verificare da sé l’illogicità delle tesi. In questo senso, la dialettica era già stata utilizzata da Zenone. Il momento conclusivo e più importante del dialogo socratico è quello la maieutica. Proprio come le levatrici facevano partorire le donne, così Socrate, dopo aver reso consapevole l’altro della falsità delle proprie conoscenze, faceva partorire al suo interlocutore un proprio genuino punto di vista sulle cose. 

A differenza dei Sofisti, egli non intendeva sostituire un sapere precedente con un sapere nuovo derivato dal proprio pensiero, ma piuttosto stimolare l’ascoltatore affinché egli partorisse un sapere che già possedeva e che doveva soltanto essere riportato alla luce. La verità in Socrate si costituisce come conquista personale e la filosofia come viaggio della mente dentro di sé, alla ricerca di un sapere che noi già possediamo, ma che risiede sopito nella nostra anima. Dalle diverse fasi del dialogo socratico si può evincere come quest’ultimo non fosse bilanciato, cioè i turni di parola non si distribuivano equamente, ma più il dialogo procedeva più l’interlocutore si limitava a segnali minimi, mentre Socrate gli rivolgeva domande chiuse per approfondire e riformulare. Questo ci fa comprendere come il filosofo non fosse un facilitatore, che promuove l’equa distribuzione del dialogo, ma un conduttore, che impugna le redini del discorso, dirigendolo secondo la sua prospettiva1. Il confronto dialogico per Socrate permetteva di approdare a un’opinione condivisa, omologhίa, a un discorso comune, ma non a una verità assoluta. Sotto questo aspetto, il socratismo è affine al pensiero sofistico: non può esistere alcuna certezza assoluta, ma la verità è una libera e perfettibile costruzione umana. Diversamente dalle tecniche sofistiche, però, il metodo dialogico socratico non soltanto acquisisce un valore teoretico, sebbene la ricerca rimanga sempre aperta, ma anche un valore morale che è un punto fermo indubitabile e riguarda innanzitutto il rispetto dell’interlocutore. Il dialogo è dunque la forma stessa della vita razionale e rappresenta il sommo bene (tò méghiston agathòn) in quanto valore morale verso cui tendere. 

In Platone, la dialettica viene concepita come la suprema scienza delle idee, volta a ricostruire i rapporti che vigono tra esse. La dialettica socratica è considerata debole da Platone, poiché era aperta, in quanto i problemi posti e le soluzioni trovate erano costantemente analizzati e rielaborati e si concretizzavano in una verità condivisa e non assoluta, risultando così inconcludente. Inoltre la dialettica socratica era negativa, nel senso che i partecipanti tendevano a giungere a risposte che si presentavano come negazioni che limitavano il perimetro concettuale della tematica indagata. Per Platone, invece, la dialettica è la scienza della verità volta alla costruzione di un sapere vero. Egli perciò affronta il passaggio da una dialettica soggettiva e confutativa, a una visione più oggettiva e costruttiva, volta a determinare una conoscenza radicata. Dalla dialettica in forma di dialogo, che fonda la verità sul consenso, egli raggiunge una dialettica intesa come scienza, che fonda ogni dialogo e consenso sulla verità. Da arte del dialogo, questa diviene scienza delle idee, conoscenza di ciò che è stabile, eterno e indiscutibile. Essa, in quanto scienza, è determinata da un metodo specifico che la distingue dalle altre scienze e che si presenta sotto due tipologie: quella ascensiva, in greco synagoghé, che permette di risalire dal molteplice a un’unica idea; quella discensiva, in greco diáiresis, che procede per divisione poiché da un’idea si segue uno dei due concetti che la compongono. Alla base di questo modo di concepire la dialettica sta il principio platonico secondo cui le idee possono tra loro comunicare, anche se alcune non comunicano2. Il metodo della dialettica si configura quindi nell’unificare e nel distinguere determinate idee rispetto ad altre. 

Attraverso la dialettica, Platone riflette sulla natura della filosofia stessa, identificandola così con lo studio dell’essere; se, infatti, le idee non fossero collegate tra loro dialetticamente non esisterebbero né il pensiero né il linguaggio: «Il dialogo è completamente trasformato in una dialettica del pensiero che esprime un’oggettività dialettica dell’essere»3. Saper ragionare implica sapere come le idee comunichino tra di loro. L’essere si concretizza in un organismo dialettico dotato di vita. La forza della dialettica risiede nel movimento proprio dell’essere, che rende possibile il parlare e il pensare. Per riassumere, quindi la dialettica per Platone è la scienza delle idee, intesa come visione dell’essere autentico, cioè le idee, e riproduzione della trama che lo costituisce; egli, inoltre, la identifica con la filosofia stessa intesa come espressione dell’eros, che è il desiderio bramoso del sapere. La filosofia di Platone si può comprendere solo in relazione alla forte critica mossa contro la corrente di pensiero della sofistica; un esempio è la critica che egli muove circa la definizione di retorica. Nel Fedro, la seconda metà del dialogo è dedicata proprio a essa, a partire dall’affermazione di Fedro per cui l’oratore non è tenuto a conoscere la verità, ma solo ciò che appare come tale. Socrate risponde che l’oratore non può non conoscere la verità, altrimenti ingannerebbe se stesso. Contro il modello sofistico, Platone elabora una retorica del vero, cioè un’arte che non cerca il favore delle masse, ma quello degli dèi. Platone, tuttavia, è convinto che solo la filosofia possa accedere alla realtà, mentre la retorica si limiti a parlare di ciò che è plausibile. La retorica non ha una propria indipendenza, ma è strumento della dialettica, che è il vero metodo della filosofia. 

L’allievo di Platone, Aristotele, elabora un altro significato di dialettica. Secondo lo Stagirita, la dialettica rientra nell’ambito dei ragionamenti che si fondano su un metodo razionale ma non dimostrativo, cioè non scientifico. In questo senso, essa si distingue dalle altre scienze per la natura dei suoi principi; mentre quelli delle scienze sono necessari, cioè sempre veri, quelli della dialettica sono solo probabili. La dialettica aristotelica si configura quindi come un ragionamento debole, in quanto non porta ad una conclusione necessaria, che dipende strettamente dalla veridicità delle sue premesse. Così come la dialettica, anche la retorica si muove nell’ambito del possibile, ma a differenza del sillogismo dialettico, le inferenze non sono tutte esplicitate e, anzi, una premessa viene omessa. Questa forma di ragionamento – mancante dunque di una delle due premesse necessarie per giungere alla conclusione – prende il nome di entimèma. 

L’importanza del dialogo e della dialettica si propaga anche nei secoli successivi e viene fatta propria anche dai romani, appena, nel II secolo, entrano in contatto col mondo e la cultura greca. In particolare prestano un’evidente attenzione alla retorica e al dialogo due personalità dell’Età degli Scipioni: Catone e Terenzio. Prendiamo in esame questi due personaggi perché rivelano come, fin dai primi contatti del mondo romano con la cultura greca, problematiche e temi, che erano stati trattati dai Greci con un approccio filosofico e schiettamente teorico, vengono affrontati a Roma in una prospettiva pragmaticamente legata alla sfera politica e ai rapporti civili e familiari. Ma è soprattutto nell’opera del commediografo Terenzio, appartenente al circolo degli Scipioni4, che si vede affrontato in un contesto civile e familiare il tema del dialogo che, sia pure con un linguaggio e in situazioni adeguate al genere comico, svela la conoscenza della profonda riflessione che era stata fatta sull’argomento e la conseguente apertura mentale che ne derivava. A lui si devono importanti novità sulla scena: una di queste è proprio l’utilizzo del dialogo. Terenzio, a differenza di Plauto, non aveva avuto molto successo, a causa del divario sempre maggiore nel suo pubblico tra aristocratici e popolani. Questo difficile rapporto con gli spettatori, si evince nei prologhi delle sue sei commedie, che si costruiscono come dei veri e propri dialoghi verso il pubblico, in cui Terenzio, mediante la voce di un personaggio o di un attore, si difende dalle accuse rivolte alla sua opera. Un esempio è il secondo prologo dell’Hécyra5, pronunciato dal capocomico Lucio Ambivio Turpione. 

Terenzio, inoltre, costruisce dei personaggi molto complessi, dotati di un forte spessore psicologico, assente nei personaggi della produzione precedente, e ne analizza principalmente le vicende familiari; le scene più importanti si caratterizzano proprio, infatti, nei deverbia, cioè i dialoghi tra i diversi personaggi, che affrontano temi molto importanti per la società del tempo, come l’educazione. Il teatro cambia con Terenzio anche nelle modalità di rappresentazione che non ambiscono più ad accrescere la sorpresa o a coinvolgere gli spettatori attraverso l’intreccio e l’intrigo, ma a sugellare situazioni che hanno già trovato una risoluzione nella dialettica dei personaggi, che si sviluppa appunto durante la commedia. Dal confronto tra le diverse posizioni si giunge a una sintesi che tiene conto dei diversi punti di vista; il dialogo è la rappresentazione scenica di una concezione della vita, per cui l’appianamento dei contrasti viene raggiunto mediante la collaborazione volontaria delle parti in gioco. Questo testimonia l’acquisizione di un’importanza sempre maggiore della dialettica e del dialogo. 

Ancora oggi il dialogo è alla base dei rapporti sociali. Parlare e confrontarsi sono aspetti fondamentali della nostra vita quotidiana, che la rendono piena, interessante. Il dialogo permette di risolvere conflitti, contrasti di idee, ma al contempo anche di divertire, di trascorrere momenti piacevoli, di alleviare sofferenze e di distrarre. Tuttavia talvolta viene svalutato e sottovalutato, in particolare nella società attuale a causa della diffusione della tecnologia. Ad esempio utilizzando la messaggistica, vengono meno gli aspetti più importanti che determinano il dialogo ovvero il paraverbale e il non verbale. Con il paraverbale si allude al modo in cui qualcosa viene detto, al timbro della voce e alla velocità con cui si parla, mentre con non verbale s’intende il linguaggio del corpo, come la mimica facciale, i gesti delle mani, la vicinanza tra gli interlocutori. Tutto questo con i messaggi non può essere analizzato e purtroppo porta spesso a un’errata decodifica che genera incomprensione. A causa della tecnologia, per di più, il dialogo troppo spesso si trasforma in chiacchiera o in mera comunicazione. Eppure il confronto virtuale – questa forma pseudo-dialogica così povera – viene preferito al dialogo in presenza, infatti quando si è in compagnia, più spesso ci si ritrova a guardare lo schermo del proprio cellulare. Spesso capita di vedere gruppi di amici che, invece di dialogare, tengono la testa china ognuno sul proprio smartphone. Situazioni simili accadono anche in famiglia. In questo modo ci si allontana dalle persone che si amano, fino a non conoscerle più. La tecnologia spinge a chiudersi in se stessi: strappa dalla realtà per far addentrare in un mondo di pixel che distoglie dai problemi ma anche dalla vita stessa.

La difficile situazione emergenziale che stiamo vivendo può forse servire come spunto di riflessione per comprendere quanta bellezza ci sia nella presenza, quanto prezioso sia dialogare con chi ci sta accanto e quanto sano sia confrontarsi e magari anche discutere con l’altro. Non è forse questo tipo di rapporto interpersonale, fondato sul dialogo, a renderci umani? A permetterci di divenire capaci di vivere in armonia all’interno della società e di una comunità? Senza la comunicazione non potrebbe esistere la società stessa, ma è la comunicazione dialogica che permette di instaurare rapporti che riempiono la vita di ognuno, senza i quali non varrebbe nemmeno la pena di viverla.

 

Note

Cfr. G. Randazzo, Metodologia della Narrazione e della Riflessione. Storia, metodi e strumenti, Erga, Genova 2020.
«Se tutte le idee comunicassero tra loro (come volevano gli eristi), ogni discorso sarebbe vero e non avrebbe senso la fatica della dialettica, volta a fissare quali idee comunichino e quali no, e quindi quali discorsi siano veri e quali falsi. Analogamente, se nessuna idea comunicasse con le altre, l’unico discorso possibile sarebbe quello tautologico». In N. Abbagnano, G. Fornero, I nodi del pensiero. Dalle origini alla scolastica, vol. 1, Pearson-Paravia, Milano-Torino 2017, p. 236.
Ivi, p. 238.
Non si trattava di un vero e proprio circolo, ma di un sodalizio letterario e filosofico; indicava una cerchia ristretta di intellettuali che, nella metà del secondo secolo a.C., si raccolsero attorno agli esponenti della famiglia degli Scipioni. Cfr. M. Mortarino, M. Reali, G. Turazza, Primordia rerum. Storia e antologia della letteratura latina. Dalle origini all’età di Cesare, Loescher, Torino 2019.
L’Hecyra è una delle commedie composte da Terenzio e anche quella che più testimonia il decadimento della palliata romana; l’opera, prima di essere rappresentata dall’inizio alla fine, fu messa in scena per ben tre volte. Sia la prima sia la seconda volta, la performance fu interrotta dalla diserzione del pubblico.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/dialettica_%28Dizionario-di-filosofia%29/
http://www.libreriafilosofica.com/trombino-dialettica-greca-2/
https://it.wikipedia.org/wiki/Dialettica#Origini
http://www.treccani.it/vocabolario/logos/

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