TITANE. Metamorfosi di carne e metallo per l’Oltre-Umanità

Di: Silvia Ciappina
4 Gennaio 2022

 

Perché Titane al femminile? I Titani nella mitologia greca appartengono alla generazione precedente le divinità dell’Olimpo, nati da Urano e Gea, erano le forze pulsionali e primordiali del cosmo, esiti del χάος prima del κόσμος regolatore, che tuttavia continuava a consentire qualche vitale e divina trasgressione a danno degli umani vieppiù puniti per la loro ὕβϱις a differenza degli dèi. Ebbene la protagonista del film non è una semplice appendice, una Titanide, come venivano appellate le mogli, sorelle, compagne dei Titani; non è nemmeno umana, perché ancora priva di contorni, di forma, di perimetro in grado di contenerne le pulsioni. La femminilizzazione della placca di titanio che riveste parte del suo cranio dopo un incidente dà per metonimia il titolo al film.
Titane di Julia Ducournau è un film visionario, temerario, privo di compromessi, non è irrilevante che abbia anche vinto la selezione come miglior film al Festival di Cannes tra polemiche e incomprensioni. Da un lato la vittoria scandalosa della favola noir, horror, futurista (dove emerge la fragile nudità dei corpi) ha ripagato in termini di titoli e notizie, dall’altro ha rivestito di più membrane la verità del racconto attraverso diversi strati di lettura e interpretazione. Da questo approccio di ideazione e di regia viene letteralmente partorita una creatura cinematografica ricca di contaminazioni (dal genere freaks al body horror), simile a una freccia che afferra il καιρός in modo da non mancare l’obiettivo e da non imbattersi nell’ἁμαρτία o errore.
Sin dall’esordio del film siamo spettatori di una narrazione per immagini fluida ed esplosiva, che inietta letteralmente benzina, quindi pura energia al racconto cinematografico con dosi di Carpenter, Cronenberg e Tarantino come citazioni e pretesti dinamici, non meramente autoriali. È anche presente l’archetipo della donna-robot di Metropolis, qui figurativamente incarnato sin dalle prime scene dopo l’incidente automobilistico di cui è vittima la protagonista Alexia: la rabbia fredda e implacabile di una bambina incastonata e imprigionata in un dispositivo post-chirurgico che fissa una placca di titanio nel suo cranio, un mostro agli occhi di se stessa e del padre (indenne e indifferente, Urano dei nostri giorni).
Anche Raw. Una cruda verità, primo lungometraggio di Ducournau, presenta quale prologo un misterioso incidente, per poi staccare improvvisamente su un altro viaggio in auto. Qui l’acerba protagonista Justine (eponima sadiana, preda che diventa predatrice) viene accompagnata dai genitori verso la futura destinazione di studi in veterinaria come vuole tradizione di famiglia. Sebbene le due pellicole siano in continuità, come confermato dalla regista, a una lettura posteriore sono di segno inverso: Raw affronta e lascia poi da parte l’amore disfunzionale familiare (tra genitori e figli, tra sorelle cannibali) a favore dell’individuazione della protagonista; Titane prende di petto il tema dell’amore e del riconoscimento (che non è prerogativa esclusiva della famiglia genetica) andando oltre l’apparente sacrificio della protagonista Alexia, la quale – vedremo –  non si salverà da sola, riuscirà confusa e per qualche breve momento ad amare corrisposta. Alla fine di Raw la giovanissima protagonista Justine vince le pulsioni cannibali di origine familiare e genetica (ben mascherate da una famiglia di veterinari vegani), riuscendo a entrare consapevolmente nel regno del νόμος: assume sul proprio debole corpo il carico di responsabilità della propria genealogia e riesce sì a spezzare la catena, ma rimanendo in parte obbligata a una forma di amore che rischia di castrare il proprio sé. Al contrario l’Alexia di Titane (omonima della sorella irredimibile di Justine di Raw) trasgredisce ampiamente la legge e non può tornare più indietro, se non reinventandosi, in transizione verso una nuova entità oltreumana o transumana (qui il secondo aggettivo è più appropriato senza rivelare il finale).
L’ispirazione di Titane nasce da un incubo ricorrente della regista, figlia di medici, avvezza a un peculiare sguardo e linguaggio meccanicistico nei confronti dei corpi; tale vissuto ha alimentato le sue ossessioni visive concepite infine in cinematografia. Ducournau avrebbe più volte sognato di partorire elementi slegati di un motore, senza che questi dessero vita a un qualcosa di unitario simile a una macchina. Il film non è altro che la realizzazione sublimata di quell’incubo, di quel sogno perturbante, ma ne forza e vira l’epilogo in direzione insolitamente ottimistica, un’opera al nero che trasmuta alchemicamente e futuristicamente la protagonista nel segno della continuità oltreumana della specie1.
Al centro il corpo di una bambina che prima ha patito l’indifferenza dei genitori (ciò trapela dagli sguardi assenti del padre verso la figlia e dall’inerzia della madre), poi, già più o meno gravata da un vissuto psichico di deprivazione, subisce un trauma, una violenza fisica ulteriore a seguito di un incidente. Quest’ultimo si può interpretare come effetto paradossale di un bisogno, infantile e rabbioso, di attenzione da parte del padre distratto che le nega il dovuto riconoscimento.
Certo di qui a diventare serial killer come Alexia il percorso non è di norma immediato e causale, interviene a un certo punto la sospensione dell’incredulità, ma la protagonista ci riserverà sorprese nel male e nel bene; non sarà condannata dalla Necessità, dalla stessa divina Ἀνάγκη che governava incontrastata il mondo delle pulsioni degli eroi e delle eroine tragiche. La Necessità può trovare un limite nell’Alterità, nella scoperta dell’altro da sé, in grado di restituirci quell’amore privo di categorie, giudizi e ruoli che contraddistinguono il mondo dell’intelletto e del pensiero, mentre il corpo (alludo al binomio corpo-anima, sinolo di materia-forma) è indiscutibilmente pulsionale, un dato di materia vivente, destinato infine all’evoluzione in un accrescimento di potenza e consapevolezza, in tensione verso l’immanenza spirituale.
La tecnologia è un prodotto della mente umana, quindi forma che può contenere e dare struttura al corpo. Possiamo condividere o meno il progetto transumano, ma le sollecitazioni estetiche che ne scaturiscono sono suggestive per tutte le forme di arte, del resto le radici sono nell’Übermensch di Nietzsche (anche nel femminino mitologico di Arianna e biografico di Lou Andreas-Salomé), qui innervato da una tecnologia consustanziale al corpo, all’essere umano in evoluzione.
Il corpo di Alexia, nonostante la placca di titanio che è il marchio, l’etichetta della ricostruzione post-operatoria, cresce flessuoso e inquieto, il suo sguardo freddo e insieme rabbioso sono una calamita per l’attenzione sessuale, eppure questi occhi maschili (e femminili) ancora una volta non sono rivolti verso di Lei, quanto piuttosto verso le sue esibizioni come ballerina in saloni per automobili che alimentano vacui fanatismi, fantasie feticiste e narcisismi. Il caos è all’origine di tutte le sue azioni per la prima metà del film, la nostra anti-eroe (preferiamo questa definizione per contesto e non per moda grammaticale) è una serial killer come funzione del racconto, ma è anche una creatura sostanzialmente incapace di contenere le proprie pulsioni che declina in modalità aggressiva e mortifera poiché non riesce a comprendere i codici dell’affettività e li interpreta come invasioni del proprio spazio, limite del corpo. Il metallo sembra essere l’unica forma in grado di contenerla, definirla.
Alexia all’inizio non desidera, evidentemente perché questo desiderio di riconoscimento non era mai stato nutrito da alcuno in famiglia, quindi non può sapere come identificare e riempire questo vuoto. L’unica attrazione fatale sin dalle prime scene è, appunto, verso le macchine e il metallo dei telai che la accolgono e la contengono. Finalmente la seduzione esiziale viene perpetrata al termine del primo atto da una scintillante Cadillac (le macchine non sono forse antropomorfe perché progettate da umani e per umani?) di cui Alexia rimane letteralmente e allegoricamente gravida, non senza aver prima portato a compimento una serie di omicidi seriali, in un crescendo fiammeggiante e funambolico, accompagnata ironicamente dalla colonna sonora di Nessuno mi può giudicare.
La macchina che poteva essere tomba nell’infanzia è ciò che le dà forma, diventando luogo di rinascita e metamorfosi; Alexia si trasforma così in Titane non senza aver assunto prima un’identità maschile di transizione per sfuggire alla cattura. Infatti per non essere scoperta e incriminata quale omicida seriale (anche della propria amante), viene costretta a spacciarsi per Adrien, un bambino scomparso anni prima, legando il proprio destino a un’altra solitudine, quella di Vincent, il padre. Alexia diventa così una strana creatura, fino a autoinfliggersi sofferenze e deturpazioni di ogni genere per nascondere il proprio essere donna e in un anormale stato di gravidanza, non di sangue e latte, ma di benzina e metallo. Vincent finge di credere a questa lucida follia che gli restituisce il figlio perduto e lenisce, in parte, le sofferenze di una vecchiaia incombente e di un corpo che vuole rimanere tonico e giovane a tutti i costi; sa la verità, eppure accoglie questo essere umano smarrito, riconosce la possibilità di salvare se stesso e l’altra attraverso l’amore, mostrando e provando la dedizione a un lavoro di cura degli altri (è a capo di una caserma di pompieri), cercando di educare a dispetto di tutti questa creatura silenziosa, paurosa e spaurita. È un riscatto della figura maschile, contro il politicamente corretto e il mito della sorellanza, che anche nel film precedente veniva messo in discussione nella rappresentazione dell’ambiguo e complementare rapporto tra sorelle cannibali. Il personaggio di Vincent attraversa un percorso di evoluzione, da una mascolinità stereotipata a una piena assunzione della paternità.
Singolare che la cinematografia di questi ultimi anni, di là dalle mode fluide più o meno pubblicizzate, abbia la forza di trattare maternità e paternità come accoglienza del diverso, del mostro, del freak, scelta non priva di errori e di rifiuti iniziali, ma rispondente infine a un atto intenzionale di volontà rispetto alla fondamentale responsabilità nei confronti della specie (che dovrebbe corrispondere alla genitorialità più profonda)2.
Dettaglio altrettanto rivelatore che la macchina, intesa come nido, diventi il segno per un dialogo più profondo tra esseri umani e solitudini apparentemente eteronome, come in Drive My Car del regista giapponese Ryûsuke Hamaguchi, film del 2021, premiato a Cannes come miglior sceneggiatura. Film diversissimi Titane e Drive My Car, il primo fondato su immagini potenti e sui silenzi dei protagonisti, il secondo molto più scarno ed essenziale in cui le parole e i non detti scaturiscono meccanicamente dalla lettura di un testo teatrale di Čechov, Zio Vanja, dramma dei rimpianti e delle illusioni perdute. I due film, partendo da un discorso di genere e con cifre stilistiche opposte, presentano un percorso comune di autentica παρρησία e di universale sentire, di elaborazione della perdita e del lutto, scevro di facili sentimentalismi e idealistiche indulgenze. Vedremo chi, tra questi candidati agli Oscar, riuscirà a rappresentare in modo più convincente, coraggioso e visionario l’elaborazione del lutto insieme al film di Paolo Sorrentino.

 

Note

1 Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=3OLncOz3lt0. La regista, intervistata al New York Film Festival, chiarisce l’ispirazione del film – il riferimento si trova a partire dal minuto 5 –ma in seguito definisce anche l’approccio esistenzialista della propria cinematografia, come passaggio dai molti all’uno e tensione verso un’essenza di verità e autenticità (ultima visita 13 novembre 2021).
2 As boas maneiras, un film del 2017 diretto da Marco Dutra e Juliana Rojas, parte dal rapporto tra due donne e due solitudini, ingabbiate in ruoli sociali differenti, eppure riesce a sviluppare il tema della licantropia in modo assolutamente originale, con un parto cruento di un bambino-lupo vegetariano; questa favola horror riesce a cambiare registro più volte, con innesti di flashback animati e di musical, trasformandosi in fiaba dura e commovente sull’amore che implica responsabilità e rispetto.

 

TITANE
Regia e sceneggiatura di Julia Ducournau
Con Agathe Rousselle, Vincent Lindon
Francia-Belgio, 2021

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